Il counseling e le culture: le culture del counseling
Massimo Giuliani (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.2 Aprile-Giugno 2007
PENSIERO SISTEMICO E INTERCULTURA
Massimo Giuliani
massimogiuliani@terapiasistemica.info
Psicologo e psicoterapeuta sistemico,
libero professionista a Manerbio (BS) e nel Centro di Consulenza
sulla Relazione dell’Associazione Shinui di Bergamo, lavora
inoltre come formatore e supervisore di Operatori pubblici
e privati; membro dello Staff Didattico della Scuola di Counseling
Sistemico Relazionale di Bergamo (www.shinui.it), didatta
presso il Centro EIDOS, sede di Treviso della Scuola di Specializzazione
del Centro Milanese di Terapia della Famiglia; realizza il
sito www.terapiasistemica.info.
Sono passati alcuni decenni dall’impatto che gli studi sulla comunicazione del gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto (Watzlawick e coll., 1967) ebbero nel campo delle scienze umane. L’effetto di quell’impatto non si è ancora smorzato, a dispetto del tempo trascorso: nondimeno, per più di un aspetto quel punto di vista che allora aprì strade nuove ed entusiasmanti, oggi ci sembra datato e parziale. Oggi la comunicazione si propone come la questione delle questioni e che i temi della relazione e della comprensione reciproca ci impegnano e talvolta ci preoccupano: e le teorie del MRI cominciano a sembrarci insufficienti, se ad esse chiediamo una mappa per una società complessa e dinamica. Non rendono conto della vertiginosa complessità di livelli di significato implicati negli atti comunicativi (contenuto e relazione, dicevano gli studiosi del Palo Alto: e ciò sembrava bastare); non può sostenere col vigore necessario la sfida di convivere con le contraddizioni poste dal confronto con la differenza: il paradosso ci appare sempre più come una condizione con cui confrontarci che come un incidente da evitare.
Con questi e con altri punti ciechi della teoria gli studiosi successivi (v. Cronen e coll., 1982) si sono confrontati per iniziare a introdurre i temi della differenza in quel pensiero e in quel modello di lavoro terapeutico e clinico; quel modello che oggi continuiamo a chiamare sistemico perché conserva un robusto elemento di continuità non soltanto nei concetti fondanti (relazione, complessità, circolarità) ma anche, curiosamente, nell’inquietudine che lo porta ad aggiornarsi continuamente (ci risiamo: è possibile non dico governare l’attuale complessità, ma almeno abitarla senza troppi inconvenienti, se non si accoglie il paradosso nella propria mappa del mondo?). Guardando dunque alla proficua collaborazione che lega terapia sistemica e intercultura, provo a rintracciare nella prima alcune ragioni di questa simpatia reciproca: oltre, certamente, all’interesse per i modi in cui le persone comunicano tra loro.
Uno: la differenza secondo il pensiero di Bateson
Tanto per cominciare, basterebbe ricordare che il contributo di pensiero di Gregory Bateson, uno dei padri della cibernetica e del pensiero della complessità, nonché ispiratore dei terapeuti sistemici, è inaugurato da una ricerca svolta nel campo dell’antropologia (1936). Vale la pena di ricordare quanto, al tempo della sua pubblicazione, essa fosse considerata a dir poco stravagante (1936). La sua innovativa concezione di funzione e di struttura lo distanzia sia dallo strutturalismo di Radcliffe-Brown che dal funzionalismo di Malinovski: non tanto alla struttura delle relazioni reali e alla concretezza dei bisogni materiali Bateson rivolgeva la propria attenzione, quanto ai processi interpersonali attraverso i quali i diversi clan affermavano la reciproca solidarietà e affinità (cfr. De Biasi, 1996). Anziché concentrarsi sulla struttura del rito del naven, Bateson cominciò in Nuova Guinea a formulare concetti quali schismogenesi, comunicazione simmetrica, comunicazione complementare. Negli scritti successivi ripeterà con insistenza che ciò che aveva a cuore non aveva a che fare con cose o sostanze, ma con la struttura che connette.
Bateson aveva fiducia nella possibilità che la cibernetica, la disciplina che si faceva strada alla fine degli anni 40, fornisse la base formale utile a considerare la “mente” in una prospettiva nuova e fuori dalla dicotomia classica del pensiero occidentale tra forma e sostanza (1972).
Rese celebre la brillante proposizione di Korszybski “la mappa non è il territorio”: ma che cosa viene riportato sulla mappa? Non il territorio, certo. Non “cose”. Sulla mappa sono riportate differenze: differenze di quota, di vegetazione, di superficie. Per Bateson senza differenze sul territorio, non c’è niente da riportare sulla mappa: essa non può che rimanere bianca.
Ancora, quel che viaggia lungo un assone non è un "impulso" ma la "notizia di una differenza". Nelle scienze “dure” studiamo cose, eventi concreti quali urti e forze; nel dominio della comunicazione (della “creatura”) gli effetti non sono prodotti da forze, bensì da differenze: nel mondo della comunicazione, afferma Bateson, la differenza fra zero e uno può essere una “causa”. Una lettera non spedita può avere un effetto.
Il progetto di Gregory Bateson, si può dire, è quello di una rielaborazione profonda del nostro modo di pensare al processo mentale e una messa in discussione della prassi di costruire analogie con le scienze fisiche.
Dunque, senza tale importanza attribuita alla differenza, non esisterebbe la singolarità del pensiero batesoniano; tutta la sua riflessione è segnata dalla ricerca della differenza, condizione senza la quale non esiste informazione, non c’è relazione: “Una notizia di differenza è l’idea più elementare: l’atomo indivisibile del pensiero” (Bateson e Bateson, 1987, p. 298).
Ecco: Bateson non vedeva individui, né “cose”: vedeva relazioni e differenze. E differenze di differenze.
In un certo senso, ci appare ancora più chiara oggi l’importanza del cercare differenze e connessioni, del guardare alla struttura come “pattern which connects” invece che come contenuti interni da far emergere, del guardare alle differenze e a come esse generano differenze. Anche alle differenza fra noi che osserviamo e l’oggetto che si pone alla nostra attenzione. Attraverso la differenza che sperimenta, il terapeuta, il counselor, l’osservatore, conosce la famiglia, il cliente, il sistema che ha davanti. E, giova sottolinearlo, conosce un po’ di sé stesso e del proprio modo di osservare: uscendo dal proprio punto di vista, può conoscere il proprio punto di vista, e comprendere innanzitutto che è un punto di vista.
Ancora, il paziente in terapia con la propria famiglia conosce la differenza fra le descrizioni che dà della realtà e quelle che danno i suoi congiunti; fra il modo in cui si vede in relazione e il modo in cui loro lo vedono; da queste differenze, dalle differenze fra le differenze, emergono nuove informazioni, nuovi punti di vista, nuove possibilità.
Dalla differenza fra i diversi modelli di famiglia, fra la famiglia che ha in mente e quella che incontra nella stanza di terapia, il terapeuta comprende che il modello classico al quale fa riferimento è uno dei tanti possibili e non può essere la “norma” in base alla quale valutare l’efficacia di altri modelli.
Tale possibilità di decentrare il suo punto di vista lo sostiene in un processo di virtualizzazione della realtà (Lévy, 1995): la sua idea di famiglia, di persona, di relazioni, è una delle possibili attualizzazioni (Giuliani, 2006); una mappa e non un territorio.
Due: l’attrazione per il paradosso e la dissonanza
di cornici
Sebbene meno avvinti di un tempo dall’idea del paradosso come fonte e, insieme, prodotto di patologia, non abbiamo smesso di restare affascinati da questi curiosi e insidiosi testacoda del pensiero. Oggi proviamo piuttosto a vederli come elementi costitutivi e possibilmente creativi della comunicazione. Il fatto è che abbiamo idee meno precise di alcuni decenni fa su cosa distingua comunicazione sana e comunicazione insana: anzi, abbiamo decisamente meno passione di allora per questa come per altre dicotomie (Giuliani, 2007).
I primi studiosi della pragmatica della comunicazione (v. Watzlawick e coll., 1967) studiarono il paradosso nella comunicazione attribuendogli il potere di creare schizofrenia. Gregory Bateson, che aveva ispirato il gruppo di Watzlawick nello studio del paradosso comunicativo, dedicò dopo allora non poco tempo a rivedere quella teoria: non è solo la psicosi ad essere imparentata col paradosso, ma lo sono anche l’arte, la creatività, l’umorismo, il sogno, il sacro. Oggi possiamo dire la realtà stessa.
Sclavi (2001) riferisce la storia del “giudice saggio”. Davanti a due uomini che litigavano perché ciascuno si riteneva colpito da un’ingiustizia commessa dall’altro, il giudice ascoltò con attenzione il primo e poi sentenziò severamente: “tu hai ragione”. Ascoltò il contendente con la stessa attenzione e poi, dopo una breve pausa, disse: “hai ragione anche tu”. Dal fondo dell’aula insorse un altro individuo, che gli fece osservare indignato che non poteva essere che avessero ragione entrambi. Il giudice, senza scomporsi, guardò verso l’interlocutore e disse, con aria riflessiva: “anche tu hai ragione”.
Il senso comune e la logica classica dicono che “se hanno ragione entrambi” non si è più in grado di decidere: questo è vero quando operiamo in “sistemi semplici”.
La storiella riflette una struttura di comunicazione ben distante sia dal pensiero logico che dal senso comune corrente: quest’ultimo, al cospetto al pensiero del giudice, prova probabilmente lo stesso fastidio che avverte davanti al paradosso di Epimenide di Creta (che, da cretese, afferma che tutti i cretesi sono bugiardi; c’è da credergli? Se dice la verità, allora è un bugiardo; se mente, è certo che dica la verità). Ma quello che il senso comune espelle come straniero, si mostra necessario ad una comunicazione capace di accoglienza reciproca in una società complessa (Sclavi, cit., p. 9).
Tre: la tecnica del colloquio circolare nel Milan
Approach
Barnett W. Pearce (1989) ha studiato la comunicazione interculturale e ha distinto quattro diverse forme di comunicazione attraverso le quali le persone realizzano coerenza nella loro visione del mondo e/o coordinano le rispettive visioni:
a) la comunicazione monoculturale, che realizza la coerenza considerando tutti i comunicanti come “nativi”: “siamo tutti uguali, pensiamo tutti allo stesso modo”;
b) la comunicazione etnocentrica: si realizza attraverso pratiche codificate e stabili che hanno lo scopo di differenziare “noi” da “gli altri”: si riconosce l’esistenza di altri modi di vedere, ma si ritiene il proprio come quello “giusto”, “vero”;
c) la comunicazione modernista: considera superstizioso e ripugnante l’etnocentrismo; richiede che i partecipanti siano “aperti” e si impegnino a dischiudere sé stessi; richiede disponibilità ad accettare e apprezzare gli altri; ripone grande fiducia nell’efficacia sociale della comunicazione.
Ora, mentre gli stili monoculturale ed etnocentrico preservano le “risorse” di chi partecipa, la comunicazione modernista le mette profondamente a rischio: la comunicazione produce cambiamento, i comunicanti debbono saper rinunciare a qualcosa di sé per andare incontro all’altro; la comunicazione è gesto di profonda generosità e rinuncia, per un bene “oggettivamente” superiore. Ma si sa: la modernità ci promette un bene nuovo che giusto un attimo dopo è superato; l’uomo moderno vive il disagio di chi insegue un traguardo che più si avvicina, più gli sfugge. Prodotto della disillusione modernista, dice Pearce, è allora il quarto stile di comunicazione:
d) la comunicazione cosmopolita; questa privilegia il “coordinamento” sulla coerenza: senza negare l’esistenza né l’“umanità” di altri modi di realizzare coerenza e mistero (come fa la monoculturale); senza deprecare altri modi di realizzare coerenza e mistero (come fa l’etnocentrica); senza, infine, impegnarsi in un’opera di modifica delle proprie risorse (come invece richiede la modernista). Permette il coordinamento tra gruppi con realtà sociali diverse: siamo simili non perché siamo uguali, ma perché siamo ugualmente costituiti ciascuno dalle proprie storie e premesse.
La comunicazione cosmopolita favorisce il coordinamento ma non (necessariamente) un accordo: non cerca la trasformazione ma il confronto, la comparazione di narrazioni.
Sorprendentemente, ma nemmeno tanto, Pearce raccoglie fra le rare forme di comunicazione cosmopolita realizzata (perché per lo più essa rappresenta un obiettivo a cui tendere, ma il cui raggiungimento è difficilmente immaginabile) l’intervista circolare del dialogo sistemico della Scuola di Milano: la circolarità è una forma di interrogazione che porta i membri della famiglia a realizzare connessioni (cit., p. 175). Come nella storiella del “giudice saggio”, tutti hanno ragione, non perché tutti posseggano il punto di vista migliore - che per definizione dovrebbe essere uno e solo uno - ma perché ciascuno vede le cose da un punto di vista differente, la cui legittimità non viene valutata nella cornice di altri punti di vista.
Tutti sono nel duplice ruolo di osservatore e osservato: ciascuno ascolta il punto di vista dell’altro, anche su di sé, tutelando la sua possibilità di esprimerlo. Ciascuno può decentrarsi e prendere in considerazione la prospettiva dell’altro, non in un’ottica di “eloquenza retorica” (non per convincere della bontà del proprio punto di vista), ma di “eloquenza sociale”: e infatti l’ipotesi sistemica che scaturisce da quei punti di vista, li comprende tutti e costituisce qualcosa che da quelli emerge, considerandoli ma diventando altro.
Quattro: oltre la neutralità, la curiosità (G. Cecchin)
Pearce (cit.) sostiene che l’ironia è un elemento della comunicazione cosmopolita: essa consiste nell’essere coinvolti in una narrazione ma nello stesso tempo mantenere la cognizione che essa è parte di un sistema più ampio di narrazioni. È la posizione dell’uomo postmoderno, in grado di tollerare una concezione multiversa della realtà; e anche dello psicologo postmoderno, convinto che ogni avvicendamento in cui un paradigma forte si sostituisce a uno precedente sia in realtà un’evoluzione interna a un’unica tradizione di ricerca (Mecacci, 1999). Anche l’ironia è una posizione paradossale, in quanto considera il gioco infinito dello stare dentro e fuori: difficile non avvertire una risonanza con la posizione curiosa e irriverente di Cecchin (1987).
La terapia sistemica, attraverso il lavoro di Selvini Palazzoli e coll. (1980), si era data tre linee guida: l’ipotizzazione, la circolarità e la neutralità. Quest’ultima appariva a Gianfranco Cecchin nel migliore dei casi impossibile da realizzare; nel peggiore, un atteggiamento tecnicistico e limitativo della creatività del terapeuta. Propose di sostituirla con una posizione di curiosità per il peculiare funzionamento del sistema (1987). Boscolo (in Semboloni) parla di “neutralità di II grado, attraverso la coscienza della propria posizione non neutrale”. Non più, dunque, una posizione di superiore equidistanza dai punti di vista delle persone, dei membri della famiglia: piuttosto quel desiderio di sapere e di fare domande, che nasce dalla consapevolezza dello scarto fra i propri pregiudizi e quelli della persona che si ha di fronte; un interesse all’epistemologia dell’altro oltre che a quella del clinico e dell’esperto.
Secondo Pearce l’ironia si conquista attraverso quattro passaggi: in primo luogo il coinvolgimento profondo ed esclusivo nella propria cultura; poi la rottura del coinvolgimento nel sistema locale: ad esempio, per una migrazione, o una visione sciamanica, o un viaggio per studio ecc.; poi il ritiro; infine il ritorno, con la possibilità di un incontro qualitativamente diverso, favorito da nuova saggezza e nuova abilità.
Sebbene l’idea di ironia di Pearce nasca in seno alla riflessioni sui rapporti fra culture, dunque non in un setting terapeutico, è curiosa la somiglianza fra i quattro passaggi e quel che accade nella stanza di terapia familiare: l’opinione di Boscolo e Bertrando (1996) per cui la terapia sistemica predilige l’ironia acquisisce una profondità straordinaria.
Mi riferisco al fatto che c’è un momento in cui l’équipe terapeutica entra nella relazione con la famiglia forte delle proprie teorie e delle proprie premesse (è la fase del coinvolgimento): queste costituiscono la mappa utile per cominciare ad orientarsi in un contesto nuovo, in un territorio ancora inesplorato; il coinvolgimento nelle proprie teorie, la fiducia nelle proprie mappe è indispensabile ai terapeuti che si avventurano in quel territorio; per quanto si insista da parte di alcune voci della psicoterapia postmoderna che il clinico dovrebbe avvicinarsi alla famiglia e all’individuo restando “libero” dai condizionamenti delle proprie teorie, ciò appare - più che difficile da realizzare - illusorio e perciò pericoloso: perché l’osservatore che pensa di non avere lenti, molto probabilmente ne ha senza saperlo.
Poi i clinici iniziano a interessarsi alle premesse della famiglia, alle sue mappe, cominciano a conoscere un modo diverso di costruire la realtà: se riescono realmente a provare curiosità, questo passaggio assomiglia in qualche misura a un’“emigrazione” che pone a confronto con un pensiero diverso e con un diverso modo di comunicarlo: è la “rottura” del coinvolgimento.
Dopo una lunga conversazione, in cui il terapeuta in seduta e i suoi colleghi dell’équipe sentono di aver avuto abbastanza informazioni, c’è il ritiro: l’équipe si raccoglie nella stanza di supervisione per valutare i frutti dell’incontro fecondo fra le loro teorie e quelle della famiglia che chiede aiuto.
Da quell’incontro e dal confronto interno all’équipe, infine, nasce quella “nuova saggezza”, quella “nuova abilità” che viene condivisa con la famiglia: le ipotesi che hanno preso corpo entrano nel dialogo con i clienti. Nella seduta di terapia il sistema terapeutico, nella dialettica fra interno ed esterno, fra ciò che è noto e ciò che è nuovo, sperimenta quel punto di vista differente, quella prospettiva prodotta dalla visione binoculare generata dalla conversazione: le narrazioni dei clienti e quelle dei clinici si modificano a vicenda, e in ciò emergono nuove e creative possibilità di descrivere la realtà, che non sono il prodotto dell’uno o dell’altro partecipante all’interazione, bensì il frutto nuovo della differenza.
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