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  • Le counseling et les cultures : les cultures du counseling
    Massimo Giuliani (sous la direction de)
    M@gm@ vol.5 n.2 Avril-Juin 2007

    COUNSELING INTERCULTURALE: L’IDENTITÀ MISTA DI BAMBINI E ADOLESCENTI IMMIGRATI O ADOTTATI


    Cecilia Edelstein

    cecilia@shinui.it
    Presidente dell'Associazione Shinui di Bergamo - Centro di Consulenza sulla Relazione (www.shinui.it). Direttrice della Scuola di Counseling Sistemico di Bergamo, Responsabile del corso di Mediazione Familiare e del corso di specializzazione in Counseling Interculturale. Responsabile scientifica dei corsi regionali sul Counseling Genitoriale per gli operatori dei Centri per le Famiglie della Regione Emilia Romagna.

    Introduzione

    I bambini e ragazzi figli di immigrati rappresentavano nell’anno scolastico 2005/2006 il 4,8% del totale degli allievi nelle scuole italiane ed è questo un dato in continua crescita [1]. In Italia la seconda generazione di figli di immigrati è diventata una realtà con delle caratteristiche specifiche, ma ancora il tema della loro identità mista e delle difficoltà che si accompagnano a questa è poco dibattuto. Gli insegnanti si trovano a gestire situazioni complesse senza avere gli strumenti; l’istituzione scolastica si occupa di insegnare la lingua italiana, ma spesso non vede il disagio che queste anime portano con sé, anche quando sono nate qui, anche quando trascorrono anni in una terra che non è propria né straniera. Se aggiungiamo a questi bambini quelli che vengono accolti nelle adozioni internazionali, il numero diventa veramente consistente.
    Tuttavia, quando un sedicenne, figlio di mamma filippina, si suicida lanciando un chiaro messaggio di sofferenza e di insostenibilità della diversità, giornali e TV attribuiscono le motivazioni al fatto che “i compagni di scuola lo prendevano in giro dicendogli che era gay”.
    Bullismo e omosessualità, due temi “di moda”.
    Individuare le specifiche motivazioni che hanno spinto un adolescente al suicidio è un’impresa, se non impossibile, molto difficile. Dalle poche e taglienti parole scritte dal ragazzo, solo il 7 aprile leggevo, di Irma Tobias, presidente dell’associazione lavoratori filippini in Italia, una breve lettera in una pagina secondaria de il Manifesto.
    Il messaggio lasciato dal ragazzo era: “Non mi sento accettato né integrato, mi sento diverso”. Irma Tobias denuncia il tormento che affligge molte madri migranti senza trovare un’eco, in una società sorda, inconsapevole dei dolori e dei rischi che ciò comporta. Si chiede Tobias: “Questi nostri ragazzi sospesi tra due mondi distanti e nessuno che si sforza di capire, di agire?” Nelle successive poche righe ho trovato una descrizione fedele e acuta del fenomeno: ”Crescere dentro i valori della tua famiglia di provenienza, dentro gli odori, le abitudini, i sapori, gli accenti di un mondo che, seppur lontano, ti appartiene, che è dentro di te, è nei tuoi lineamenti, nei colori dei tuoi occhi, nel viso di tua madre. E nello stesso tempo crescere in un mondo, quello dove vivi, cresci, vai a scuola, dove è importante essere accettato, esserne parte, e quando pensi di avercela fatta, di essere uno fra tanti, ecco la ‘sciagura’…” (il Manifesto, 07/04/07, pag. 2). In questo caso la sciagura è “il luogo comune a tutte le latitudini della presunta omosessualità”. Infine, aggiunge Tobias: “Questo tormento spacca i cuori dei nostri ragazzi, che non li fa sentire né di qua né di là, un po’ figli di immigrati, un po’ cittadini italiani, la società non lo comprende, non vuole coglierlo” (ibidem).
    È proprio a proposito di questo conflitto identitario, tra “il qua e il là”, che il presente contributo si sofferma. L’articolo analizza i possibili effetti emotivi-comportamentali, suggerendo letture alternative a quella psicopatologica e illustrando le modalità con cui questi disturbi possono essere trattati in un contesto di counseling.

    Alcune storie

    Rashida [2] è nata in Italia, da papà e mamma tunisini, ma all’età di due mesi è stata portata nella terra natale dei suoi, dove sarebbe rimasta con i nonni materni. I genitori dovevano sistemarsi, lavorare, gettare le basi per poter costruire una famiglia. All’età di dieci anni tornò in Italia per ricongiungersi con i suoi e con una nuova sorellina di dieci mesi. Durante quel lungo periodo, Rashida aveva visto i genitori circa una volta ogni due anni, per un mese scarso, d’estate. I nonni erano da sempre le figure genitoriali e la Tunisia era il suo mondo.
    Rashida era stata segnalata a Shinui dalla scuola, dopo un anno di permanenza in Italia [3]. Le insegnanti erano preoccupate perché vedevano Rashida apatica, demotivata, chiusa in sé stessa e isolata. Il suo andamento scolastico non era proficuo e la ragazzina non dava segni di miglioramento. L’operatrice, che cominciò ad accompagnare Rashida a casa e nei compiti, instaurò presto un buon rapporto di fiducia. Un giorno, la ragazzina le confidò il suo desiderio di morire e la preoccupazione perché vedeva cose e sentiva voci “strane”. Si decise quindi per un percorso di counseling familiare.

    Vitali è nato in Bulgaria; cresciuto in un istituto, all’età di quattro anni e mezzo è stato adottato da una coppia italiana. All’età di nove anni la neuropsichiatria infantile inviò la famiglia a Shinui, ritenendo utile un lavoro attorno al tema dell’identità mista. Vitali veniva seguito dalla psicologa e dal neuropsichiatra per problemi di iperattività e di balbuzie. Il bambino stava, tuttavia, peggiorando: aveva cominciato ad avere scatti improvvisi di ira anche violenti: ad esempio, un paio di volte aveva ribaltato il tavolo con tutto ciò che c’era sopra senza apparentemente nessuna ragione; oppure, una volta prese un compagno per il collo con tale impeto che l’insegnante temette che lo strangolasse. Vitali poi si pentiva, chiedeva scusa, era rammaricato e desolato, ma, incontrollabili, i “nervosismi” [4] si presentavano creando scompiglio, paura e danni.
    La comparsa di “allucinazioni” (Vitali vedeva passare dalla finestra della classe persone che nessun altro riusciva a vedere) convinse gli operatori del servizio a provare un’altra strada terapeutica. Questo bambino non parlava del suo paese natale né ricordava parole nella sua lingua d’origine. Non aveva alcun ricordo di nulla.
    Quando alla fine del primo incontro di consultazione chiedemmo che tipo di aiuto si aspettavano da noi, i genitori risposero “un aiuto per Vitali, perché sia più tranquillo e per migliorare il clima in casa”. Il figlio, invece, esclamò: “Vorrei venire a giocare!”. Tuttavia, con l’apertura del secondo incontro, Vitali esordì: “Vorrei sapere chi era la mia mamma e perché mi ha lasciato”.

    Fatmir arrivò dall’Albania in Italia otto anni fa, all’età di due anni, con papà e mamma. Sua sorella nacque dopo l’emigrazione. I suoi genitori lavoravano regolarmente e avevano una rete familiare estesa, poiché altri fratelli e sorelle, già sposati, li avevano preceduti. La famiglia manteneva stretti rapporti con la terra d’origine, trascorrendo là ogni anno le vacanze estive, Fatmir e la sorellina rimanevano tutto il periodo delle vacanze scolastiche insieme ai nonni ed altri familiari. Pur conoscendo bene la lingua e vivendo periodi significativi nella propria terra natale, Fatmir nascondeva le sue origini e, al rientro in Italia, non gradiva condividere con i compagni e gli insegnanti i racconti delle esperienze estive.
    Le maestre segnalarono il bambino a Shinui chiedendo un aiuto dopo scuola sia nello studio che dal punto di vista educativo, poiché il rendimento scolastico era scarso, l’impegno discontinuo e l’attenzione pressoché inesistente: Fatmir faticava a restare seduto in silenzio per più di un quarto d’ora e spesso diventava il protagonista di disordini trascinando con sé alcuni allievi particolarmente vivaci e “problematici”. Le insegnanti stavano considerando di fargli ripetere la quinta elementare, poco fiduciose nella capacità del ragazzino di inserirsi alle scuole medie. Al contempo, erano ben consapevoli delle difficoltà che sarebbero derivate dalla presenza di Fatmir in una classe con compagni più piccoli; temevano la sua incontenibilità e prevedevano che avrebbe ulteriormente danneggiato il clima generale. Sostanzialmente il ragazzino era diventato un disturbo e la bocciatura un tentativo vano di aggirare l’ostacolo.

    Maria Sol è stata adottata dalla Bolivia quando aveva nove mesi ed è cresciuta in un paesino del bergamasco. Era stata prelevata da un orfanotrofio nel quale aveva passato tutta la sua breve vita. I genitori adottivi non potevano avere figli a causa dell’infertilità della donna e adottarono un altro figlio maschio tre anni dopo, da un paese del continente asiatico. Con l’arrivo del fratellino, Maria Sol incominciò a balbettare, sintomo che tuttora, a diciannove anni, permane. Alla signora Rossi, sua madre, era stato segnalato il mio nome da uno psichiatra e da una psicologa, che avevano visto la ragazza e dichiarato, a detta della signora, “di non essere in grado di curarla perché non conoscevano la sua cultura di origine né quel genere di sintomi”: Maria Sol parlava con i morti i quali le raccontavano delle storie, sentiva delle voci e, recentemente, aveva incominciato a vederli.
    Al primo incontro, mi si presentò alla porta dello studio una ragazza che, malgrado i suoi anni, ne dimostrava nel complesso intorno ai quindici e, a giudicare dall’espressione del viso, poteva essere ancora una bambina. Nel vederla feci un grande sforzo per salutarla in italiano: Maria Sol era vestita con una camicia variopinta sudamericana, era pettinata con due trecce nere dai capelli lisci e lunghi, portava sandali, era bassa di statura e aveva un inconfondibile sguardo indio dagli occhi a mandorla.
    Durante l’incontro emerse che Maria Sol si vedeva e si sentiva boliviana, ma non poteva appartenere a quel popolo perché cresciuta in Italia. Vedendo per strada gruppi di musicisti sudamericani si fermava a sentire i suoni di una terra lontana, sconosciuta e nel contempo che sentiva propria. Avrebbe desiderato imparare lo spagnolo e, a volte, sognava con un viaggio nel suo paese natale.
    Contemporaneamente il suo mondo era quello italiano; la sua storia di vita, per essere narrata, conteneva i racconti della bergamasca. Ma qui più volte non si sentiva accettata, bensì rifiutata [5].

    Quando i diversi spezzoni identitari non possono convivere

    Cosa hanno in comune le storie riportate qui sopra?
    In tutti i casi una parte significativa dell’identità, che riguarda le proprie origini, ha subito un mutamento e fatica a convivere con altri aspetti identitari.
    Nella prima storia, la ragazzina è stata strappata dal suo mondo; nella seconda, il passato, anche se rappresenta la metà della vita, è stato rimosso; nella terza, il bambino cerca di nascondere le sue origini e di “camuffarsi”, sembra rifiutarle; nella quarta, una parte dell’identità che la ragazza porta visibilmente e inevitabilmente nel proprio corpo è totalmente sconosciuta.
    Le origini possono anche essere dimenticate, oppure troppo lontane e mediate dai genitori (come nei casi di bambini nati in Italia di genitori che tornano nel paese d’origine ogni tanto, mantengono la lingua, usi e costumi). Ad ogni modo, sono tutti casi in cui la convivenza dei diversi spezzoni dell’identità è faticosa, discontinua, disarmonica e squilibrata.
    Radici strappate, spezzate, dimenticate, rimosse, rifiutate, sconosciute… Analogamente a quanto accade alle piante, quando questo succede, la crescita viene danneggiata e, nell’essere umano, si aggiungono sofferenza e disagio. Nei bambini, il senso di inadeguatezza, legato alla diversità, e la quantità di stimoli, spesso apparentemente disarmonici, incompatibili oppure effettivamente in conflitto, invadono il loro vissuto creando ansia ed emozioni di tristezza. Sintomi come balbuzie, difficoltà di concentrazione, scarso o discontinuo rendimento scolastico, problemi comportamentali e relazionali sono ricorrenti. Sintomi apparentemente psicotici, come allucinazioni visive e uditive, spesso compaiono. Queste visioni creano paura e angoscia perché, da un lato, i ragazzini stessi sono consapevoli della loro estraneità e, dall’altro, l’ambiente circostante li avverte come segni allarmanti.

    I rischi dell’identità doppia o della “doppia appartenenza”

    Spesso il “qua” e il “là” diventano due realtà diverse, lontane, incompatibili, antagoniste. Di conseguenza, diventa sempre più difficile appartenere a tutti e due i posti e impossibile sceglierne uno. Bambini e ragazzini figli della migrazione si sentono sempre più destinati a non essere “né di qua né di là”, perdendo il senso del sé, i punti di riferimento, la possibilità di dare un senso alla propria identità.
    La doppiezza crea dicotomie, inserisce nell’ottica di “o-o”; “le dicotomie chiudono e costringono a pensare e sentire:
    • in modo limitante: ci sono apparentemente solo due possibilità;
    • in modo polarizzato: sulle due estremità di un asse, anziché su un continuum;
    • in modo superficiale: senza lo spessore della complessità e della pluralità;
    • in modo dualista: lo sguardo dell’occhio destro si mantiene separato da quello del sinistro, e non si costruisce una visione d’insieme.” (Edelstein, 2007, pag. 169).
    Inoltre, due identità o appartenenze portano facilmente a paragoni. Nei paragoni emerge di solito una prospettiva normativa, che presuppone l’esistenza di un modello ideale al quale gli altri vengono paragonati. Automaticamente, i modelli diversi o le culture “altre” diventano incompleti, deficitari, talvolta devianti o patologici (Fruggeri, 2001).
    Inevitabilmente si arriva alla conclusione che una cultura sia meglio dell’altra. I bambini si trovano a dover scegliere, costretti a rinunciare ad una parte della loro appartenenza, a rifiutarla, a rimuoverla, a dimenticarla. Spesso “vince” la cultura dominante e i bambini si trovano a portare con loro un’appartenenza nei confronti della quale nutrono sentimenti ambigui: oscillano fra l’amore e il rifiuto, fra l’orgoglio e la vergogna.
    Nel tentativo di recuperare spezzoni perduti, con una prospettiva normativa ci si trova da capo: o l’una, o l’altra… Ma nessuna si può cancellare.
    In età adolescenziale, questi conflitti identitari creano reazioni di ribellione che possono sfociare in fenomeni di massa violenti contro la cultura dominante.

    Identità mista

    Parlo di identità mista perché questo concetto permette di uscire dal dualismo, dalla dicotomia e dalla prospettiva normativa e consente di entrare in una prospettiva pluralista.
    Quest’ultima prospettiva ha come punto di riferimento la molteplicità: considera ogni modello e ciascuna cultura viene analizzata in base alle proprie caratteristiche e funzioni senza essere oggetto di paragone con nessun modello ideale (Fruggeri, 2001; Edelstein, 2007).
    In questo modo si aprono molteplici possibilità e le micro culture o appartenenze consentono ai bambini di essere contemporaneamente tutti uguali e tutti diversi. Si può parlare di nazionalità, di etnia, di religiosità o di laicità, ma anche di famiglie, di gruppo classe, di maschi e di femmine, di sottogruppi, tutti portatori di culture coesistenti.
    Ogni singolo individuo appartiene a più gruppi e diventa più facile superare i rischi di:
    a) sentire di non appartenere a nessun gruppo;
    b) appartenere ad un gruppo minoritario, penalizzato;
    c) paragonarsi ad un modello ideale, uniforme, dominante;
    d) sentirsi estraneo nella propria terra, in una terra dove si vive, si gioca, si studia, ma inevitabilmente si rimane al di fuori.

    L’intervento di counseling

    L’obiettivo
    L’obiettivo dell’intervento di counseling è di consentire ai bambini di riconciliarsi con le diverse sfaccettature della loro identità per poter conviverci senza vissuti di inadeguatezza, senza vergogna, senza vuoti. E’ possibile creare un insieme ricco e armonioso, una complessità con la quale si può convivere e nella quale si riescono a trovare nuovi significati.

    La fase di consulenza e il contratto di lavoro
    Il primo passo nel percorso di counseling, in conclusione alla fase di consulenza, è quello di esplicitare il conflitto vissuto dai ragazzi, esprimere ciò che loro non riescono ad esprimere. Ad esempio, a Rashida e a tutta la sua famiglia si potrebbe dire:
    “Rashida sta vivendo una situazione particolarmente difficile: è cresciuta in Tunisia, il suo mondo per ora è quello. Fa fatica a sentire un senso di appartenenza a questo mondo. Deve anche appropriarsi della sua famiglia che per forza sente estranea. Non è mancanza di amore nei vostri confronti, ma una parte della sua identità le è stata strappata e questo fa male…”
    E’ questa un’azione non solo empatica, ma un intervento che consente di dare senso al disagio, di identificare e focalizzare il malessere, di dare un nome alla sofferenza.
    L’obiettivo di costruire dei ponti per poter convivere con le diverse parti della propria identità va proposto e concordato con tutti i membri della famiglia. Queste comunicazioni non solo aiutano a conoscere il percorso che verrà svolto, ma danno un immediato senso di sollievo.
    A Rashida e ai suoi genitori si potrebbe dire inoltre:
    “Bisogna trovare il modo per aiutare Rashida a poter stare qui senza sentire che il suo pezzo tunisino non ci sia. Bisogna anche curare la ferita dello strappo. E questo si può fare. Si possono mettere insieme i pezzi, come in un puzzle. Ne scaturiranno probabilmente immagini belle che non vi aspettavate”.
    All’interno della proposta descritta emerge una ridefinizione del disagio riportato: i bambini non sono malati, ma portano con sé frammenti identitari frantumati, spezzati, scollegati. La fiducia nel poter creare continuità e armonia fornisce un ulteriore sollievo.
    La depatologizzazione non rimane però implicita: il counselor deve dichiarare che il bambino non è malato e che queste visioni o voci rappresentano quel mondo perduto, sconosciuto o strappato:
    “Vostra figlia non è malata, state tranquilli! È solo sofferente, ha bisogno di riavvicinarsi a ciò che le è stato tolto. Ci sono molti modi per farlo, non solo quello di tornare indietro, nemmeno quello di cancellarne uno dei due”.
    Il lavoro va co-costruito con l’operatore, il bambino e la sua famiglia. Nel caso di famiglie adottive, si può dichiarare che è un dono che si fanno reciprocamente: i genitori consentono ai figli di fare un viaggio alla scoperta di pezzi dimenticati o perduti; i bambini raccontano e riportano ai genitori pezzi a loro sconosciuti e lontani. Il nome “straniero” o i tratti somatici che il figlio porta con sé, passano a far parte della famiglia e non sono più un elemento che allontana, scollegato, a volte minaccioso. L’identità familiare può così mutare e arricchirsi, aprendo le porte alle origini di uno dei suoi membri. Con Vitali questo ha consentito ai genitori di non sentirsi estranei al suo percorso e nemmeno minacciati dalla domanda del figlio che chiedeva chi fosse sua mamma e perché lo avesse abbandonato… Per Vitali è stato un modo per fare questo viaggio senza sensi di colpa nei confronti dei suoi genitori adottivi.
    Anche in altri casi ciò va dichiarato. Con Rashida, che sentiva estranei i propri genitori e li vedeva responsabili dell’allontanamento dai suoi cari, una ridefinizione del genere l’ha aiutata a riappacificarsi:
    “Trovo bello che siate tutti insieme qui per provare a stare meglio. Voi, come genitori, state facendo tutto ciò che è nelle vostre possibilità per avvicinarvi a vostra figlia. Anche il venire qui da me è come un regalo. Rashida, per conto suo, nel rendersi disponibile, vi sta già donando una parte di sé”.
    In questo passaggio si aggiunge un ulteriore elemento importante: Rashida non è il problema, ma è tutta la famiglia che fa fatica. Una visione sistemica consente a tutti di sentirsi protagonisti e toglie il peso che spesso grava esclusivamente sui ragazzi. Questo è parte della depatologizzazione.

    Il lavoro con gli oggetti
    Alla fine del primo incontro ci si lascia con qualcosa da fare. Non basta una ridefinizione, un inquadramento della problematica e la condivisione dell’obiettivo. Il passo successivo è quello di iniziare a collegarsi con i pezzi mancanti.
    Nel caso di Rashida, le chiesi di trovare delle foto dei nonni e di appenderle accanto al suo letto per poterle vedere prima di addormentarsi, nei momenti in cui era da sola oppure in quelli in cui si sentiva triste e soffriva la loro mancanza. Le domandai, inoltre, se aveva qualche oggetto o indumento della nonna. In effetti, in casa c’era un vestito della nonna che a volte usava la mamma. La consegna fu quella di portarsi il vestito a letto e di dormirci insieme, indossarlo oppure avvolgerlo attorno a sé, metterlo sotto il cuscino o poggiarlo sui piedi.
    È questo un lavoro con oggetti che aiutano a collegarsi con le “assenze”, ad avvicinarsi e a integrarli in sé.
    Con Vitali il lavoro è stato leggermente diverso. I genitori gli hanno sempre detto la verità e, di conseguenza, non riuscivano a fare altro che dichiarare che non sapevano chi fosse la mamma biologica, aggiungendo che riuscivano soltanto a formulare ipotesi sulle motivazioni dell’abbandono (formulandone ovviamente soltanto di funeste), io decisi di dirgli:
    Counselor: “Noi possiamo aiutarti. Vediamo un po’. Prima cosa, sappiamo che la tua mamma biologica era bulgara.”
    V.: “Sì!”
    C.: “Di conseguenza, sappiamo che tu sei nato in Bulgaria, una parte di te è bulgara”.
    V. (annuendo e sorridendo): “Sì!!”
    C.: “Allora, proviamo a fare un viaggio nel passato, a ricordare esperienze e vissuti che ti avvicineranno alla tua mamma biologica. La memoria fa bene, cura. Proviamo a dissipare la nebbia che c’è fra la tua vita qui in Italia e quella in Bulgaria, costruendo un ponte. Oggi le tue parti bulgare sono la metà della tua vita! In futuro queste parti saranno sempre più piccole perché tu avrai sempre più pezzi italiani, ma quella, oggi, è grossa e bisogna andare a recuperarla”.
    V.: “Sì! Ma come si fa?”
    C:: “Magari puoi portare per la prossima volta fotografie della Bulgaria. Ne hai?”

    I genitori adottivi dicono di averne alcune da quando sono andati a prenderlo a Sofia.

    C.: “Splendido! Portatele e inizieremo questo viaggio verso il passato”.
    Genitori: “Ma sono solo quelle da quando siamo andati noi, lui non ha nulla che appartiene al periodo precedente”.
    C::”Va bene lo stesso. Rappresenteranno uno spunto per ravvivare la memoria. Ci sono foto dell’istituto dove era Vitali?
    G:: “Sì, non era a Sofia, ma in un paesino chiamato…” (non si ricordano).

    Proposi di trovare una cartina della Bulgaria per vedere dove si trovasse l’istituto. Così Vitali poté visualizzare sulla cartina dove era nato, un paesino nelle vicinanze di Sofia, dimenticato dai genitori. Infine, poiché emerse che i genitori avevano comprato tutti i vestiti a Sofia, chiesi loro di portarli.

    I cicli di incontri e le tecniche
    I percorsi possono essere di breve durata. Nella prima fase di consulenza, che spesso dura un unico incontro di un’ora e mezza circa, è utile:
    1. esplicitare il problema, il dilemma, il conflitto interno e il dolore,
    2. ridefinire in positivo,
    3. dichiarare e concordare il lavoro da fare,
    4. depatologizzare,
    5. valorizzare le differenze,
    6. avviare il lavoro con la richiesta di andare alla scoperta di oggetti posseduti che appartengono ai posti lasciati, abbandonati, dimenticati o perduti.
    In effetti, con questi primi passi, usualmente i ragazzini e l’intera famiglia raggiungono una sensazione di grande sollievo e, il più delle volte, le allucinazioni scompaiono.
    Dopo la fase di consulenza, si decide se avviare un ciclo di incontri predefinito (da 4 a 8) con l’obiettivo generico di stare meglio e di ricostruire il puzzle o il ponte (a seconda della situazione si usano metafore diverse).
    Posizionare il processo di counseling su un asse temporale di cui si conosce la presunta fine consente di intravedere il cambiamento desiderato, di riacquistare fiducia nella possibilità di stare meglio, anche subito (Edelstein, 2007).
    La cadenza degli incontri può essere quindicinale all’inizio, mensile successivamente. Il lasso di tempo che trascorre tra un incontro e l’altro (intorno a un mese) consente non solo di svolgere a casa le consegne richieste, ma di elaborarle e di acquistare un nuovo equilibrio. Quando la famiglia torna diventa più facile individuare i cambiamenti e valorizzarli. È questa una tecnica adottata dall’approccio sistemico milanese (Boscolo e Bertrando, 1993).

    Le narrazioni
    Gli oggetti e le fotografie spesso consentono di costruire delle narrazioni, in modo da riempire vuoti, da avvicinarsi, da ricordare e da scoprire mondi sconosciuti, dimenticati, abbandonati.
    È importante aiutare i ragazzi a costruire storie belle e piacevoli. Ciò non implica rifiutare le storie tristi, ma vuol dire che intenteremo un percorso per trovare la luce nel buio.
    Ad esempio, guardando le foto, Vitali iniziò a descrivere l’istituto dove era cresciuto. Si ricordò che c’erano delle signore poco simpatiche e delle ragazzine che si prendevano cura di lui. Io gli chiesi di raccontarmi chi fossero queste ragazzine (e non di descrivermi quelle poco simpatiche). Erano ragazze cresciute nell’istituto che, non adottate, dopo i 12 anni potevano iniziare a lavorare con i più piccoli, facendo animazione o prendendosi cura di loro. In particolare, si ricorda di una che gli dava il bacino della buona notte e che, quando diventava agitato, lo abbracciava e lui si calmava. Erano ragazze che conoscevano da dentro come poteva essere crescere senza genitori e senza affetto e colmavano dei vuoti che altrimenti nessuno avrebbe potuto riempire.
    Le narrazioni non devono necessariamente essere storie “vere”. A volte si possono colmare dei vuoti inventando una storia che per i ragazzi può avere senso. Ad esempio, Vitali aveva una cicatrice nella gamba, profonda, che arrivava fino al muscolo e per questo non poteva fare ginnastica e faticava a correre o a salire le scale. Non aveva idea di come fosse accaduto e nemmeno i genitori avevano avuto informazioni. Gli chiesi di immaginare come poteva essersi ferito, di inventare una storia. Così, Vitali iniziò a descrivere il giardino dell’istituto che finiva bruscamente e dall’alto si poteva cadere in basso (il papà annuisce aggiungendo: “sì, in effetti, mi ricordo, non era uno spazio proprio a norma”). Vitali racconta che una volta, giocando, non ha visto il precipizio ed è caduto, facendosi male contro una roccia. Non sappiamo se questa storia sia “vera” o “falsa”, ma per Vitali ha senso e, raccontandola, gli sono tornati in mente gli amici, quelli che non ha potuto salutare come avrebbe desiderato al momento della partenza. Nei loro confronti si sentiva in colpa.
    Durante questa narrazione Vitali poté così salutarli, ricordarli con amore, avere nei loro confronti pensieri affettuosi e riprendersi nel cuore quelli a cui sarebbe sempre rimasto legato.
    Fatmir, invece, alla fine della quinta elementare, decise con la tirocinante che lo accompagnava nel percorso di counseling a domicilio di fare la ricerca d’esame sull’Albania (ovviamente il suggerimento proveniva dall’operatrice). La ricerca si incentrò su tutti gli aspetti dell’Albania che a Fatmir piacevano e che gli erano cari: la musica, il cibo, la sua famiglia allargata compresi i nonni, lo stare insieme, gli spazi all’aperto, la geografia e il mare, le religioni, la storia. L’intenzione non era quella di costruire un’immagine fedele del paese con i suoi problemi sociopolitici, ma di riportare l’immagine di una terra natale che il bambino poteva ricostruire dentro di sé collegandosi con frammenti che per lui potevano essere significativi. Il lato scuro dell’Albania Fatmir lo aveva già sentito e conosciuto, anche attraverso i pregiudizi dell’opinione pubblica italiana. Non aveva bisogno di enfatizzarli.

    La fine del percorso
    La fine dei percorsi viene accompagnata da un rituale o da una cerimonia in cui si possono consegnare dei diplomi ai bambini. È questa una tecnica utilizzata da White, terapeuta familiare narrativo australiano che, oltre alle storie, inserisce la forma scritta della narrazione per favorire un’ulteriore evoluzione o per garantire l’irreversibilità del cambiamento in positivo (White, 1992).
    Maria Sol si era messa ad imparare lo spagnolo. Dopo che era riuscita a parlare con persone boliviane nella loro lingua di origine, aveva smesso di balbettare. Verso la fine del percorso, programmammo un viaggio familiare nella sua terra natale. Al rientro, insieme ad una valigia piena di oggetti che aveva raccolto perché diventassero propri, le consegnai un certificato in cui si dichiarava che Maria Sol, nata il 21 giugno del 1980 [6], era italiana, bergamasca, andina e boliviana, cattolica e induista (Maria Sol praticava la religione del paese di origine di suo fratello ancora prima di arrivare da me) e che parlava tre lingue: italiano, bergamasco e spagnolo. Tutto ciò apparteneva oggi anche alla sua famiglia che, in virtù del percorso che aveva fatto la ragazza, si era arricchita e aveva acquisito maggiore spessore.

    Conclusioni

    I bambini immigrati o adottati convivono con un altrove che può restare per lungo tempo sconosciuto, indefinito, inesplorato: un luogo lontano da temere (“se non ti comporti bene ti rimando…”) o da idealizzare e da pensare come rifugio (“tanto, un giorno io scappo”) (Favaro, 1998). Questa doppiezza o dicotomia si presta a dualismi spesso apertamente in conflitto, con punti divergenti e difficili da conciliare. Le aspettative della scuola e della famiglia (implicite ed esplicite) non sempre coincidono e sono gli stessi bambini a dover creare un equilibrio e a mediare fra le parti.
    Altre situazioni di difficoltà si presentano quando il bambino non ha la possibilità di collegarsi col passato (come nel caso delle adozioni), ma porta con sé i segni della diversità oppure quando il ragazzo sente di essere stato strappato dal proprio mondo (come nel caso dei ricongiungimenti familiari dopo anni di lontananza fisica ed emotiva fra genitori e figli).
    Queste fratture identitarie portano con sé una sofferenza manifestata attraverso disturbi del comportamento, dell’attenzione e dell’apprendimento, problemi di tipo relazionale e spesso sintomi apparentemente di tipo psicotico.
    In questi casi è importante non trattare questi bambini come malati psichiatrici perché l’effetto rischia di essere contrario: da una parte le visioni e le voci permangono e, dall’altra, gli effetti collaterali degli psicofarmaci accentuano altri disturbi e incidono negativamente sulla loro possibilità sia di mantenere l’attenzione sia di socializzare con i compagni.
    L’incerta appartenenza può trovare equilibri nei percorsi di counseling sistemico, per lo più familiari, e armonizzarsi in una configurazione plurale di spezzoni identitari che si congiungono, che si rinforzano a vicenda, che si complementano, che li rende più forti, che permette intersezioni, che valorizza le differenze.


    NOTE

    1] Dati del Ministero della Pubblica Istruzione (2006).
    2] Per salvaguardare la privacy i nomi sono fittizi.
    3] La nostra associazione è attiva nel territorio con progetti di counseling interculturale con famiglie migranti. I servizi sociali, la scuola, la neuropsichiatria infantile e altre realtà cattoliche o del terzo settore ci segnalano situazioni che richiedono un intervento interculturale specifico. I servizi, per lo più gratuiti, sono finanziati dall’associazione Shinui.
    4] Così abbiamo scelto di chiamare questi comportamenti durante gli incontri di counseling.
    5] Questo caso è stato descritto più dettagliatamente in un articolo pubblicato nel 2001 nella rivista Janus (Barbetta e Edelstein, 2001).
    6] La data di nascita di Maria Sol è incerta; segnata da una data simbolica che si dà ai bambini che entrano in orfanotrofio, solitamente il 24 dicembre. Arrivata in Italia, i pediatri avevano detto ai genitori che la data segnalata nei documenti era improbabile e che la bambina doveva avere almeno 6 mesi di più. Calcolando così la data di nascita a giugno, chiesi a Maria Sol di scegliere un giorno e, il 21 giugno, giorno estivo e solare, la ragazza chiese ai genitori di festeggiarle i suoi 20 anni. Questa festa fu un’ulteriore ri-conferma degli aspetti perduti e incerti della sua identità.


    BIBLIOGRAFIA

    Barbetta P. e Edelstein C. (2001), “Altre culture - altri sintomi?" in Janus, vol. 4. Zadig Roma Editore, pp. 53 – 59.
    Boscolo L. e Bertrando P. (1993), I tempi del tempo. Una nuova prospettiva per la consulenza e la terapia sistemica, Torino, Bollati Boringhieri.
    Edelstein C. (2007), Il counseling sistemico pluralista. Dalla teoria alla pratica, Trento, Erickson.
    Favaro G. (1998), “Vivere ‘tra’. Ricerca di identità e condizioni di vita dei bambini e dei ragazzi immigrati” in Minori immigrati. Identità, bisogni, servizi, Fondazione Zancan, Rovigo, Stampa IPAG.
    Fruggeri L. (2001), “I concetti di mononuclearità e plurinuclearità nella definizione di famiglia” in Connessioni, vol.8, pp. 11-22.
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