Contributi su aree tematiche differenti
M@gm@ vol.5 n.1 Gennaio-Marzo 2007
UNA VITA PER LE STORIE DI VITA: L'APPROCCIO QUALLITATIVO NELL'OPERA DI FRANCO FERRAROTTI
Giovanna Gianturco
Giovanna.Gianturco@uniroma1.it
Professore aggregato presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione e di Psicologia1 dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. I suoi ambiti d’interesse riguardano l’approccio qualitativo, la sociologia della religione e i processi migratori. Tra le pubblicazioni si ricordano: Per una sociologia del viaggio (Eucos, 2000), Italiani in Tunisia: passato e presente di un’emigrazione (Guerini, 2004) e con C. Caltabiano, Giovani oltre confine, (Carocci 2005).
Riassumere
uno dei cardini del pensiero e dell’opera ferrarottiana quale
è l’approccio biografico [1]
nella ricerca sociale appare oltremodo arduo, sia sul piano
della ricostruzione bibliografica che ermeneutica. La produzione
di Ferrarotti è infatti amplissima e il tema dell’approccio
qualitativo taglia trasversalmente gran parte dei suoi scritti,
tanto quelli in lingua italiana, quanto i saggi e i volumi
scritti o tradotti in molte lingue (inglese, francese, spagnolo,
ma anche arabo e giapponese). Va ricordato, inoltre, che le
riflessioni di Ferrarotti sulla metodologia qualitativa si
collocano in un più ampio scenario di dibattiti internazionali
in questa sede difficilmente ricostruibile [2].
In tal senso, qui si farà necessariamente riferimento solo
ad alcuni dei suoi capisaldi teorico-metodologici, in particolare
a quella che lui stesso ha definito una “trilogia ideale”
e cioè i volumi: Storia e storie di vita (1981b), La storia
e il quotidiano (1986) e Il ricordo e la temporalità (1987),
cui si aggiunge La sociologia alla riscoperta della qualità
(1989), dove egli ritorna su alcuni temi centrali del dibattito
sociologico relativamente alla fondazione dell’approccio biografico
e delle storie di vita.
Franco Ferrarotti, infatti, pur avendo molto lavorato sul
piano empirico, è tra i pochi sociologi ad essersi preoccupato
di rafforzare l’impianto teorico-epistemologico dell’approccio
qualitativo. Questo è quanto afferma, tra gli altri, Matthias
Finger che nel suo testo del 1981 La recherche-action, scrive:
“…Ferrarotti […] è il solo autore che prova a tracciare un
quadro epistemologico relativamente al metodo biografico.”
(ibid.: 56, trad. nostra)
Ma una premessa necessaria alla proposta metodologica di Ferrarotti
è la sua stessa concezione della disciplina sociologica. Va
chiarito, in questo senso, che quello di Franco Ferrarotti
è certamente un percorso intellettuale dedicato alla sociologia,
una sociologia però non sociografica: una sociologia, quindi,
come “scienza dell’interconnessione del sociale”, scienza
di autoascolto di una società intesa quale risultanza “della
interazione fra attori e circostanze sociali” (cfr. Ferrarotti,
1999: 7-8).
Un sociale, dunque, non solo e non tanto attingibile attraverso
categorie, modelli e schemi rigidamente preelaborati e usati
in forme intercambiabili, quanto comprensibile a partire dalla
rilevanza accordata allo studio dei fenomeni sociali, delle
azioni, delle norme, dei valori ecc., dando ampio spazio al
punto di vista e alla prospettiva di chi viene studiato. Citando
testualmente: “I metodi qualitativi sono in primo luogo mossi
da un intento scientifico conoscitivo, ma […] la loro giustificazione
ultima riposa essenzialmente [sulla] concezione della scienza
come impresa umana, tendente a risolvere problemi e domande
della società, fondata su un atteggiamento di rispetto e di
ascolto verso le persone […] che non possono essere usate
strumentalmente […] senza correre il rischio di “oggettualizzarle”,
ossia negarle come persone.” (Ferrarotti, 1986: 160)
Questa posizione, certo, non sembra emergere compiutamente
dall’inizio del lavoro sociologico di Ferrarotti che infatti
viene definito, nella Storia della Sociologia di Friedrich
Jonas (1970, ed. orig. 1968) [3],
un rappresentante, “non senza intrinseche contraddizioni”,
del positivismo impegnato. Eppure, Franco Ferrarotti è sin
da allora un intellettuale convinto del fatto che la teoria
sociologica debba essere “ricerca integrata, scienza del vivente
e del presente” (ibid.: 510), capace di coniugare “le esigenze
di validità empirica e il tentativo di una sistematica teorica”
(ivi).
Una sociologia, quindi, in cui il sociologo non dimentichi
di impegnarsi socialmente e di tenere in conto i valori della
sua stessa società che non trovano spazio in quelle scienze
naturali spesso al servizio del commercial system (1961),
con la pretesa di un’oggettività attingibile attraverso le
tecniche. Infatti egli stesso spiega: “Le tecniche non sono
teoricamente adiafore. Non sono neutre, non costituiscono
una zona franca né possono considerarsi interscambiabili,
ossia applicabili con indifferenza a qualsiasi problema.”
(Ferrarotti, 1986: 155)
Del resto, già Max Weber affermava nel suo Il metodo delle
scienze storico-sociali: “La metodologia può sempre essere
soltanto un’autoriflessione sui mezzi che hanno trovato conferma
nella prassi, e l’acquisizione di una loro esplicita consapevolezza
non è il presupposto di un lavoro fecondo più di quanto la
conoscenza dell’anatomia sia il presupposto di una corretta
andatura.” (1958: 147)
Lo spirito critico con cui Ferrarotti ha sempre cercato di
leggere la società - e che ha fatto di lui spesso un intellettuale
“scomodo”, come forse dovrebbe essere un vero intellettuale
- è ciò che ha permesso, però, al primo sociologo dell’accademia
italiana di cogliere la rilevanza di una sociologia che faccia
propria una prospettiva “dal basso”, utile ad affermare e
rinnovare la ricchezza della ricerca qualitativa.
I capisaldi di questo approccio sono da lui stesso definiti
in termini tri-direzionali: “contro il congelamento del vivente
e la sua cadaverizzazione mediante l’applicazione acritica
dei metodi quantitativi […] [,] contro l’essenzialismo, ossia
contro l’assorbimento dell’esperienza umana specifica - del
vissuto - entro i quadri intemporali della concettualizzazione
astratta, la quale presume di esaurire in sé, nella propria
supposta asettica universalità, l’esperienza umana nella sua
particolarità, datata e storicamente determinata […] [e] per
una concezione e una pratica della ricerca umana e sociale
come incontro umano, scambio di informazioni significative.”
(Ferrarotti, 1987: 5, grassetto nostro, corsivo nel testo)
Ricerca, quindi, intesa in termini di con-ricerca.
Sono elementi questi già presenti in alcune riflessioni teoriche
del Ferrarotti di Sociologia come partecipazione (1965), anticipate
da un lavoro di preparazione che si era sviluppato anche grazie
alle conversazioni intrattenute negli anni ’50 con Leo Strauss
ed Edward A. Shils. Elementi che, però, come in tutta la sociologia
ferrarottiana, non si fermano alla fase speculativa, ma trovano
l’aggancio con l’empiria, come testimoniano già alcune delle
ricerche iniziali di Ferrarotti. Una serie di lavori empirici
sui fenomeni relativi ai processi di industrializzazione e
a quelli che emergevano dalla nuova configurazione della città.
Si ritorni, ad esempio, con la memoria a La piccola città
del 1959, un’indagine di comunità sul Comune di Castellamare,
dove Ferrarotti già cercava di utilizzare criticamente le
storie di vita, inquadrandole nel loro “naturale” contesto
economico, sociale e culturale.
In questa ricerca le biografie vengono però utilizzate solo
al fine di arricchire e vivificare quei dati quantitativi
che iniziano ad apparire agli occhi di Ferrrarotti intrinsecamente
e sostanzialmente “aridi”. Si tratta ancora, in effetti, di
quell’uso “coreografico” molto criticato, a volte anche pretestuosamente,
dai detrattori di tale approccio. Di fatto, lo stesso Ferrarotti
avverte il limite di questo uso dei materiali qualitativi
e, a partire da ciò, inizia a individuare e sviluppare nuove
strategie per una “sociologia rinnovata”.
Le riflessioni continuano, dunque, sempre in stretta connessione
con le ricerche empiriche che, dalla metà degli anni Sessanta,
affrontano, in particolare, lo studio del mutamento della
città di Roma che veniva allora da lui definita una città
con “quartieri di lusso e ghetti di miseria”.
Prima con Roma da capitale a periferia, del 1970, poi con
i volumi Vite di baraccati (1974) e Vite di periferia (1981),
dove le condizioni oggettive venivano rilevate e analizzate
in quanto vissute dagli abitanti delle baraccopoli, le storie
di vita irrompono con rinnovata forza in una sociologia che
faceva ricerca solo attraverso dati statistici, ignorando
quindi le voci e le biografie dei soggetti in questione. Non
solo. Anche le fotografie vengono assunte da Ferrarotti quale
“documento storico-sociologico” - si veda a tale proposito
il volume Dal documento alla testimonianza (1974) -, un materiale
qualitativo autonomo che contribuisce in termini di testimonianza
visuale a un’ulteriore arricchimento dell’analisi sociologica.
Dove la fotografia trova senso non in quanto prodotto, ma
come ulteriore modalità di scrittura orientata dal criterio
selettivo del ricercatore. Ferrarotti scriverà successivamente
ne La storia e il quotidiano che: “Fotografare significa “scrivere
con la luce”: scrivere cioè segnare, significare, distribuire
la luce sulla realtà in modo che colpisca con intensità differenziata
il marmorizzato dato del quotidiano, chiamarlo in vita nel
chiaroscuro.” (1986: 4-5)
Le indagini richiamate, insieme alle numerose altre che Ferrarotti
ha condotto, si pensi altresì a Giovani e droga (1977), si
orientano sempre, sia sul piano teorico che su quello metodologico,
sulla base del tentativo di superamento di un certo storicismo,
soprattutto quello di matrice crociana, che aveva prodotto
una serie di “… “false uscite” […]. A parere [di Ferrarotti,
infatti] si potrebbe avere una possibile soluzione positiva
attraverso la reimpostazione dello storicismo inteso come
una più ampia base di vita storica […] strumento principe,
le storie di vita.” (Macioti, 1988: 41)
È fondamentale, qui, il recupero dell’idea di conoscenza sociologica
come “forma di conoscenza storica”. È in tal senso che si
debbono leggere le ampie riflessioni critiche compiute da
Ferrarotti, ripetutamente e in più d’uno dei suoi testi, sui
capisaldi del “Primo Dibattito sul Metodo” (Methodenstreit),
sui concetti di vissuto (Erleben) e di comprensione (Verstehen),
sui vari tipi di memoria e sul concetto di “lunga durata”
di Braudel. Riflessioni in cui egli riprende le posizioni
di Ricoeur, criticandole, e ove recupera soprattutto l’opera
di Merleau-Ponty. Tutto ciò serve a Franco Ferrarotti per
portare avanti un’ampia rivisitazione e una reimpostazione
delle categorie di tempo e spazio sociali, nutrendo così il
suo nuovo impianto epistemologico, finalizzato a definire
una “storicità non storicistica” che si preoccupi, e a (cito
testualmente): ”riconoscere e rendere giustizia concettualmente
alla complessità di un sociale sempre più sincronico, interdipendente
[…] ma nello stesso tempo elusivo, difficile da decifrare
facendo ricorso a categorie fors’anche familiari e collaudate,
ma precostituite e certamente, oggi, insufficienti.” (1986:
132)
Sono temi ricorrenti - in parte ripresi da alcuni dei suoi
collaboratori e sviluppati in autonome linee di ricerca, in
particolar modo da Renato Cavallaro -, riflessioni di certo
ampiamente presenti nella trilogia sull’approccio qualitativo,
soprattutto nel terzo capitolo de La storia e il quotidiano
(1986) e nel secondo e terzo capitolo de La sociologia alla
riscoperta della qualità. Argomenti che però, a ben vedere,
sono già in nuce nel testo che Ferrarotti scrive nel 1965,
Max Weber e il destino della ragione, dove egli afferma di
aver tentato con scarso successo “di forzare i limiti dell’individualismo
metodologico weberiano”, fissando in modo analitico e fondando
dunque sul piano teorico: “… i nessi dialettici in base ai
quali è possibile liberare l’analisi sociologica che si valga
di documenti autobiografici da quell’elemento naturalistico
che accompagna necessariamente il documento personale individuale:
dall’individuo al gruppo e dal gruppo alla storia.” (1979:
71)
Questo passaggio fondamentale è alla base della sua proposta
epistemologica e metodologica esposta in Storia e storie di
vita (1981); un volume di riferimento - come ampiamente dimostra
la più ampia letteratura scientifica su questi temi - per
chiunque desideri avvicinarsi all’approccio qualitativo.
Un pamphlet - come fin troppo modestamente lo definisce lo
stesso autore, forse anche per l’aspra diatriba che si aveva
in quel periodo con i quantitativisti -, un manifesto metodologico
in cui lo studioso propone l’autonomia del metodo biografico
(cfr. ibid.: 37-51). Per affermare tale autonomia Ferrarotti
si richiama alla necessità di una “resa dei conti” relativamente
al concetto di Erlebnis di W. Dilthey, a quello di “sociologia
comprendente” di matrice weberiana, alle “correnti intuizionistiche”,
all’uso ancillare, minimalistico e puramente illustrativo
dei materiali biografici alla Thomas e Znaniecki - cui già
aveva dedicato un’ampia trattazione critica in Vite di periferia
(1981a) -, ma anche una resa dei conti con quel “dépassement
proposto da D. Bertaux, che cade [scrive Ferrarotti] sotto
i colpi delle osservazioni su Insiders and Outsiders di Robert
K. Merton in quanto “partecipazionismo empatico” e in essenza
acritico.” (ibid.: 39)
Ma egli non si ferma qui e sviluppa anche un’autocritica rispetto
all’uso che egli stesso aveva fatto di questi materiali (cfr.
ibid: 24-34), ripercorrendo le principali tappe del suo iter
intellettuale sull’approccio qualitativo.
Tali notazioni critiche, che provocheranno accesi dibattiti
e daranno vita a convegni pro e contro questa proposta metodologica,
sfociano comunque in una pars construens ove, grazie alle
storie di vita, in particolar modo quelle del gruppo primario
(definite “protocollo del metodo biografico”, cfr. ibid: 63),
si può giungere all’individuazione e all’interpretazione di
quelle “invarianti strutturali”, intese come “convergenze
emergenti tematicamente nelle storie di vita singole nel quadro
dell’orizzonte storico dato” (ibid.: 11).
La sfida è quella di riconoscere e individuare gli elementi
nomotetici presenti nell’idiografico. Questo è possibile in
quanto, afferma Ferrarotti: “Ogni racconto di un atto o di
una vita è a sua volta un atto, la totalizzazione sintetica
di esperienze vissute e di una interazione sociale. Un racconto
biografico non ha nulla di un resoconto di cronaca, è un’azione
sociale attraverso cui un individuo ritotalizza sinteticamente
la sua vita […] e l’interazione sociale in corso [la biografia
e l’intervista] nel mezzo di un racconto-interazione.” (ibid.:
45)
Appare qui uno dei punti nodali dell’approccio qualitativo
ferrarottiano che troverà ulteriori riprese e sviluppi negli
altri volumi della trilogia: la storia di vita come relazione
e interazione paritetica tra intervistatore e intervistato,
la storia di vita come “con-ricerca”. Il ricercatore così,
più che acquisire potere o supportare strutture di potere
già esistenti, dovrebbe dare potere (empower) ai soggetti,
saldando, o almeno riducendo, la cesura tra intervistatore
e intervistato, quasi sempre presente nella metodologia tradizionale.
Scrive Ferrarotti ne La storia e il quotidiano, che: “Il carattere
critico della ricerca esige anche in primo luogo che si riconosca
come ogni ricercatore delle scienze umane sia anche un “ricercato”,
pena la caduta nella naturalistica reificazione dell’oggetto
degna del peggior paleopositivismo.” (Ibid.: 135)
L’intervista diviene allora un processo di comunicazione interpersonale,
un evento comunicativo complesso (tra due o più soggetti),
inscritto in un contesto storico, sociale e culturale più
ampio. “I racconti biografici di cui ci serviamo non sono
monologhi davanti a un osservatore ridotto a supporto umano
di un magnetofono. Ogni intervista biografica è una interazione
sociale complessa, un sistema di ruoli, di aspettative, di
ingiunzioni, di norme e di valori impliciti, spesso anche
di sanzioni. Ogni intervista biografica nasconde tensioni,
conflitti e gerarchie di potere.” (1981: 44)
La storia di vita si fa strumento di ricerca utile a ridurre,
almeno in buona parte, gli effetti negativi di quella che,
molti anni dopo, Bourdieu definirà, nel suo La misère du monde,
“violenza simbolica” (cfr. 1993: 906); e ciò grazie alla consapevolezza
della necessità di “instaurare una relazione di ascolto attivo
e metodico” (ivi, corsivo nel testo). Il principale obiettivo
in questa dinamica di intervista è quello di favorire una
cornice - un frame - entro cui l’intervistato sia libero di
esprimere il suo proprio modo di sentire attraverso e grazie
alle sue stesse parole. Del resto già Erving Goffman affermava
che: “Di solito un parlante non è in grado di spiegare con
precisione cosa egli vuole che venga capito e in questi casi,
se gli ascoltatori ritengono di saperlo con certezza, è probabile
che siano perlomeno un po’ fuori strada.” (Goffman, 1987:
37)
Il ricercatore è così chiamato a ricomporre con nuova umiltà
i processi di interazione tra individuo e mondo sociale attraverso
l’evento enunciativo suscitato dalla memoria narrante. Come
afferma Ferrarotti: “Testo e contesto, storia di vita e ambiente
di vita si confrontano, interagiscono. Non c’è, quindi, solo
l’interazione fra ricercatore e ricercato, che apre e rende
possibile la ricerca dotandola di un significato umano. C’è
anche l’interazione fra testo e contesto, vale a dire il problema
della contestualizzazione: perché l’interazione fra ricercatore
e ricercato non ha luogo nel vuoto sociale. È datata, ossia
socialmente situata.” (2005: 18)
Questa è una tensione intellettuale che porta Ferrarotti a
considerare la soggettività non solo come fonte inesauribile
di dati, ma come l’unica modalità di ricerca empirica che,
ri-umanizzando il ricercatore sociale umanizza finalmente
l’indagine stessa.
Tale concezione teorico-metodologica [4]
apparirà poi anche in altri modelli d’intervista - individuabili
soprattutto, ma non solo, nella produzione statunitense -
che definiscono il rapporto intervistatore-intervistato come
un processo sociale e ciò che ne emerge come un risultato
sociale; alcuni esempi sono il modello di “intervista socio-interazionale”
(Millar, Crute, Hargie, 1991: 17-38) e quello definito di
“interazione personale” (Hargie, Marshall, 1986).
Si impone così un ribaltamento della prospettiva sociologica,
utile anche a rispondere alla crisi dei grandi schemi esplicativi
e alla necessità di offrire utili chiavi interpretative alla
gente per comprendere la vita quotidiana, le difficoltà, le
tensioni e le contraddizioni che questa impone loro. La storia
ufficiale deve fare quindi i conti con la “quotidianità vissuta”.
Con la storia ricordata dalle persone, una storia della memoria
[5] e dell’esperienza soggettiva.
Una microstoria che racconta come le persone abbiano subito
o agito gli eventi, le loro motivazioni, le ragioni e i sentimenti
(cfr. Ferrarotti, 1981: 96-111).
D’altro canto, tale memoria può sopravvivere nel tempo proprio
grazie allo sforzo che uomini e donne fanno per dare un senso
alla vita di tutti i giorni e per “trovare un ordine nel caos”,
cercando anche “di fornire soluzioni note a problemi ignoti”
(Bauman, 1987: 3). “L’utopia della rammemorazione” offre una
spinta al recupero del senso storico, attraverso la ripresentificazione
del passato con il ricordo - ciò che Franco Ferrarotti definisce
“rammemorazione interiore” -; essa è la via che forse potrà
salvarci dalla paralisi in cui sembriamo caduti. Si legge
ne La società e l’utopia (2001) come sia necessario, dunque,
recuperare “… la società come concetto-limite, o Grenz-Begriff,
[…] società come convivenza di uguali, di socii, che attende
di essere realizzata sul piano storico e che indica nello
stesso tempo il traguardo trascendente verso cui tendere,
l’utopia che offre alle società storiche e alla loro quotidianità
imperfetta la mèta ideale verso la quale indirizzare le energie
e rispetto alla quale misurare la propria natura storica.”
(Ibid.: 125-126)
In Ferrarotti l’iniziale studium solitario diventa prassi
politica e sociale, l’esperienza lavorativa nella fabbrica
trova uno sbocco naturale nella sua attenzione ai mutamenti
sociali e alla ricerca empirica. Teoria e prassi, filosofia
e realtà, datità e vissuto si uniscono in quella dialettica
del sociale che continua a essere una delle problematiche
centrali dell’attuale riflessione sociologica.
Come si vede, ritorna quell’esigenza epistemologica e politica
- presente sin dalle origini negli scritti di Ferrarotti -
di una sociologia come “impresa umana” che si occupi delle
situazioni umane datate e vissute.
Il cerchio si chiude sul piano della biografia intellettuale.
Gli ultimi scritti autobiografici ne offrono un’ulteriore
conferma. Non esiste soluzione di continuità, ma perdura la
sfida di quella “svolta qualitativa” che lo stesso Ferrarotti,
in un recente saggio - frutto dell’intervento al convegno
“Memoria e identità. L’approccio qualitativo per la comprensione
e l’interpretazione del reale”, organizzato nel maggio 2005
da Maria I. Macioti -, dichiara non essersi ancora conclusa.
Una sfida che in molti abbiamo raccolto [6]
e che cercheremo di portare avanti, anche grazie al lavoro
di Franco Ferrarotti e alle possibilità future di un sempre
fecondo confronto con lui.
NOTE
1] Ferrarotti stesso indica
di preferire il termine “approccio” o “orientamento” a quello
di “metodo” in quanto indica meglio la varietà dei cammini
e la molteplicità dei ragionamenti che esso consente (cfr.,
1986: 135).
2] Uno dei testi di riferimento
utili ad una almeno parziale ricostruzione dei fuochi dell’opera
di Ferrarotti è quello curato da R. Cipriani e M.I. Macioti,
Omaggio a Ferrarotti, Siares, Roma 1988; si veda altresì Bibliografia
degli scritti di Franco Ferrarotti. Dal 1945 al 1997, SEAM,
Roma 1998.
3] Si veda il cap. VII,
pp. 449-515 e, in particolare, su Ferrarotti, pp. 509-510.
4] Una concezione che affonda
le sue radici nella storia della ricerca sociale. Si vedano
tra gli altri: Hyman et al., Interviewing in Social Research,
Univ. of Chicago Press, Chicago 1954; Kahn e Cannell, La dinamica
dell’intervista, Marsilio, Padova 1968 (ed. orig. 1957); Richardson
et. al., Interviewing: its Forms and Functions, Basic Books,
New York, 1965.
5] “Detto in modo piuttosto
schematico, la memoria è la continuità del passato in un presente
che dura. È precisamente in questa continuità che le immagini
del passato sono costantemente ripensate, rimodellate e selezionate
in base all’esigenza non della perfezione filologica, ma dell’adeguamento
ai bisogni della quotidianità odierna” (Ferrarotti, 1987,
p. 14).
6] Sul piano della riflessione
sulla tecnica dell’intervista, si veda ad es. G. Gianturco,
L’intervista qualitativa, Guerini, Milano 2005.
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