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    M@gm@ vol.5 n.2 Janvier-Mars 2007

    PICCOLE DONNE CRESCONO: IDENTITÀ FEMMINILE E BAMBINE NUOVE CITTADINE



    Gladis Omaira Capponi

    gladiscap@libero.it
    Laureata in sociologia, lavora nell'area della promozione dell'agio e del benessere come consulente e formatore per enti ed istituzioni; collabora con diverse riviste sui temi dell'Educazione, della Didattica Interculturale e delle Migrazioni Internazionali; ha partecipato al Progetto Pelagus (IRRSAE Molise) e al Progetto ADL - per lo sviluppo della Democrazia ( Croazia - Italia - Consiglio d'Europa).

    Italia, agosto 2006. Nel torpore estivo un fatto di cronaca scuote l’Italia: Hina Saleem viene 'punita' per aver cercato di esprimere la scelta di essere donna, donna occidentale… Hina viene sgozzata dal padre che non può tollerare quell’atto di disobbedienza alla famiglia, alla tradizione, alla cultura e quest’omicidio non è più un fatto di cronaca nera e non scuote più solo le coscienze, ma scuote le certezze di chi riteneva l’accoglienza e l’integrazione come fatti reciproci.

    In qualche modo i conti non tornano e da quel 18 agosto il dibattito sulla migrazione in Italia si amplia, inizia ad essere forse più realistico. Anche nel nostro Paese si inizia ad avvertire la necessità di conoscere i flussi migratori nelle loro componenti socio - culturali e non solo eziologiche, e allora diventa interessante chiedersi a quale idea di femminilità si rifanno le nuove cittadine, bambine straniere nate in Italia. A quale modello di femminilità si ispireranno nel loro percorso di donna, con quale idea di sé femminile verranno a patti; se prevarrà l’imago femminile della comunità etnica di appartenenza o quella della comunità ospitante; quali potranno essere i margini di negoziazione possibili tra identità spesso contrapposte.

    Già le ricerche condotte negli Stati Uniti, come quelle di K. B. Clark e M.P. Clark [1], contengono degli spunti interessanti rispetto all’identificazione etnica, ma lasciano aperte delle questioni.

    SULL’IDEA DI SÉ

    Parlando d’identità appare necessario, ed utile, precisare che questo concetto può essere letto secondo approcci distinti: uno più propriamente psicologico, l’altro sociologico. La mia scelta sarà quella di non delimitare in modo netto i confini tra essi, ma di tentare una mediazione considerando che l’idea di sé coincide con l’idea di alterità in quanto ritengo che solo attraverso la coscienza dell’altro si colga quella di sé. Sono altresì consapevole che se in psicologia l’identità può essere compresa come concetto soggettivo, per la sociologia la nozione di identità è una nozione estesa.

    Fatte queste premesse, ricordo che per Erikson [2] il sentimento di identità si innesca quando si realizzano alcuni processi, ed è necessario che questi siano coerenti e che si sviluppino in modo graduale e progressivo. Cosa accade quando si interrompe la coerenza ed uno o più di questi sentimenti o processi vengono bruscamente alterati? Quali eventi, fattori possono operare come elementi disgregatori della propria rappresentazione di vita?

    Adottando uno sguardo sociologico all’identità sostanziale, quella cioè che mi identifica come sé, come persona, si affianca l’identità negoziata come identità sociale, frutto di una mediazione tra il sé come persona e l’io come ruolo. Essa può essere condivisa dal soggetto, oppure può essere accettata o rifiutata: in ogni caso è il gruppo che stigmatizza, che pone i criteri dell’identificazione sociale, proponendo una rappresentazione sociale.

    Consideriamo, inoltre, che per Alex Succhielli sono cinque le categorie, o indicatori, che consentono l’identificazione sociale:
    - indicatori ecologici, ossia l’ambiente in cui il soggetto esercita le sue attività e l’influenza che lo stesso esercita su di esso;
    - indicatori materiali e fisici, intesi come potenzialità fisiche, economiche, demografiche;
    - indicatori storici, oltre al nome e alle origini si fa qui riferimento all’acculturazione, ai modelli del passato, alle credenze e ai costumi;
    - indicatori culturali, comprendenti sia il sistema culturale sia la visione del mondo;
    - indicatori psicosociali, cioè i riferimenti sociali e le immagini identitarie che l’esterno rimanda: stereotipizzazione, pregiudizio e, in senso lato, le opinioni degli altri.

    In questa sintetica, e parziale, panoramica sull’identità è sicuramente necessario soffermarsi su ciò che definiamo identità etnica e identità culturale.

    L’identità etnica può essere considerata come il primo momento dell’identità culturale: il soggetto si riconosce ed è riconosciuto come membro di una comunità etnica appunto. L’identità culturale può, invece, essere vista come la coscienza collettiva di un gruppo fondato su dati obiettivi o anche come un luogo di formazione del legame sociale e politico che si costruisce in un processo dialogico di assimilazione e di differenziazione progressiva e consapevole.

    Sia Consiglio d’Europa che Unesco hanno cercato di definire il concetto pervenendo a questa espressione: “per identità culturale si intende l’insieme dei riferimenti culturali per il quale una persona o un gruppo si definisce, si manifesta e desidera essere riconosciuto; l’identità culturale implica le libertà inerenti alla dignità della persona e integra, in un processo permanente, la diversità culturale, il particolare e l’universale, la memoria e il progetto” [3].

    Un breve excursus tra alcune popolazioni forse può chiarirci meglio le idee. Ad esempio, presso i Sambia della Nuova Guinea l’identità di genere maschile deve essere costruita, e viene definitivamente sancita nel corso dei riti d’iniziazione puberale, mentre l’identità femminile appare già completa e definita sin dalla nascita. Anche presso gli Inuit l’identità di genere viene data dall’anima nome, ossia dall’antenato che ha soffiato nell’utero della madre e che viene dichiarata dallo sciamano all’atto della nascita. Può accadere, ed accade, che l’identità di genere non coincida con l’identità sessuale biologica che verrà riacquistata durante la pubertà senza che l’identità di genere dell’anima nome scompaia... Oltre al corpo anatomico e a quello vissuto, esiste, quindi, anche un corpo sociale : una rappresentazione culturale dove la cultura esercita un effetto plasmante, modellante. Così come l’immagine estetica del corpo muta da un’età all’altra, da una corrente di pensiero all’altra, muta anche a seconda della società che pone ed impone criteri di percezioni del corpo. Ecco che concetti monolitici perdono la loro apparente staticità determinando inevitabilmente la necessità di scomporli nei loro componenti attraverso idonee strategie di lettura.

    Potrebbe essere interessante cogliere se il confronto tra immagini femminili prodotte da comunità etniche diverse, possa determinare quello che viene solitamente definito 'shock culturale'; anzi sarebbe ancor più interessante determinare se esso possa essere una causa o concausa delle cosiddette culture bound sindromes [4], che determinano malattie dell’apparato urogenitale e di quello riproduttivo, considerando che sessualità ed apparato genitale sono luoghi in cui convergono e si esplicitano le componenti dell’identità sessuale sopra indicate.

    Dal momento che il concetto di genere inizia a delinearsi come multistratificato può essere opportuno, per il nostro lavoro, fare riferimento ai tre livelli indicati dal sistema di classificazione dell’epistemologa femminista Sandra Harding [5]:
    1. Genere come dimensione dell’identità personale. A questo livello il genere è investigato come processo interpersonale di auto- coscienza. Esso studia anche la relazione dinamica della immagine di sé con l’identità individuale e collettiva.
    2. Genere come principio di organizzazione della struttura sociale. A questo livello il genere è investigato come fondamento delle istituzioni sociali che vanno dalla famiglia alla struttura di parentela fino alla divisione del lavoro nella vita sociale, economica, politica e culturale.
    3. Genere come base per i valori normativi. A questo livello il genere produce significati sanciti socialmente, rappresentazioni della mascolinità e della femminilità che sono attraversate da questioni di etnicità, nazionalità, religione.

    Tenendo come sottesi questi livelli, procediamo attraverso una riflessione sul concetto d’identità, considerandolo come un concetto dinamico che viene modificato e modellato più volte nell’arco della vita. Oltre ai cambiamenti identitari dovuti al proprio percorso individuale, la società e la cultura indicano stereotipi che incidono fortemente sulla costruzione dell’identità individuale.

    Se l’identità si costruisce attraverso il confronto con l’altro da sé, essa diventa “ il luogo d’incontro delle differenze; essa si costruisce nella intersoggettività e proprio sul riscontro delle differenze nasce la voglia della relazione: non un modello lineare di cambiamento fondato sull’azzeramento del passato, delle teorie passate, ma una pratica palinsestica, in cui il passato continua ad influenzare il presente e da questo viene modificato” [6].

    Per quanto concerne il concetto di genere, e nello specifico di riconoscimento ed identificazione nel genere femminile, ciò comporta, come sostiene Teresa De Lauretis, (che) “ogni donna è costretta a doversi confrontare con una certa immagine di donna che rappresenta il modello culturale dominante dell’identità femminile. Il riconoscimento della distanza tra la donna-immagine e la donna reale, tra le donne come rappresentazione (la donna come imago culturale ) e la donna come esperienza (donne reali come agenti di cambiamento) è il passaggio fondamentale per qualsiasi discorso sulla soggettività” [7]. Il concetto d’identità di genere si evince come un concetto multiplo che si esprime non solo come maniera diversa con cui una società plasma, modella il maschile e il femminile, ma anche come li utilizza nella divisione dei ruoli sociali.

    Il considerare l’identità di genere anche come prodotto di un complesso processo sociale, ci introduce all’argomento sollevato nella premessa della trattazione: l’idea di genere di un bambino straniero viene modificata, plasmata, mutata nel corso di un processo di integrazione? È condivisibile quanto segue? “È necessario contrastare la colonizzazione dell’immaginario causata dallo scenario mediologico globale che ci induce ad accettare come naturali atteggiamenti e comportamenti estranei alla realtà di tutti i giorni della donna” [8]. Possiamo davvero parlare di colonizzazione nel campo che stiamo trattando? E ancora ed è possibile opporsi a questo tentativo di modificare in modo radicale l’identità di genere, il sé femminino?

    CAMBIAMENTI DI PERCEZIONE DI SÉ ATTRAVERSO UNA RICERCA SULLA FEMMINILITÀ

    Lo spunto per la ricerca [9] mi venne offerto nel corso del mio lavoro esaminando alcuni disegni fatti dai minori che accolgo. C., una bambina di 6 anni, aveva vissuto in Moldavia con i nonni a cui era stata affidata qualche mese dopo la nascita, mentre i genitori erano immigrati in Italia con l’intento di lavorare per un breve periodo e di ritornare in patria in tempi abbastanza brevi. In realtà la permanenza si protrasse ben oltre le loro aspettative, determinando la modifica del progetto migratorio e la famiglia si ricostituì dopo 6 anni. Quattro giorni dopo l’arrivo in Italia, C. mi regalò un disegno in cui apparivo come una matrioska: lo suggerisce l’abito ampio, variopinto, con il corpetto e le maniche sbuffanti. Dopo due mesi di inserimento nella scuola dell’infanzia, mi donò un altro mio ritratto in cui ero raffigurata come un’improbabile Barbie: capelli lunghi e cotonati, dai colori sovrapposti (al mio colore biondo naturale viene sovrapposto un colore viola come la Barbie cambiachioma); minigonna zebrata, tacchi a spillo, sorriso ammiccante e sguardo seduttivo.

    La profonda differenza tra i due disegni, ognuno dei quali veicolava un’imago femminile molto distante e profondamente legata a modelli culturali sottesi alle due comunità, suscitò una serie di riflessioni e di curiosità alla base della ricerca che vide coinvolto un campione ridotto, circa cinquanta tra bambine e preadolescenti, di alcune scuole di base della provincia di Treviso e del comune di San Donà di Piave (VE). Prima di addentrarmi nell’analisi, mi pare opportuno fare alcune precisazioni rispetto al numero esiguo di casi che componevano il campione oggetto di ricerca.

    Innanzitutto il numero di minori di sesso femminile era molto limitato nelle scuole da me coinvolte; fatto su cui ho avanzato alcune ipotesi: la necessità di operare una scelta tra figli su cui investire risorse, economiche, di tempo, di attenzione, da parte delle famiglie straniere; il desiderio di preservare, attraverso l’isolamento femminile, valori fondanti della propria cultura d’appartenenza; il tentativo di tutelare quello che molte comunità considerano il soggetto debole per eccellenza: la donna. Inoltre, non sono state presentate le interpretazioni di tutti i disegni raccolti in quanto attuai una prima classificazione di disegni aventi le stesse caratteristiche, dopodiché individuai alcune esemplificazioni di categorie significative.

    Dei 62 disegni raccolti, dieci erano incompleti perché le bambine furono incapaci di immaginarsi da adulte. Rispetto ai paesi di provenienza il campione era così composto:14 soggetti dall’Albania, 10 dal Marocco, 3 dal Kurdistan, 6 dai paesi dell’ex blocco sovietico, 4 dal Kossovo, 6 dalla Cina, 1 dalla Nigeria e 1 dalla Colombia. Nell’effettuare la ricerca ritenei opportuno fare ricorso alla metodologia di tipo qualitativo che, pur avendo i limiti che già un’ampia letteratura ha evidenziato, consente di mettere in luce gli aspetti, in particolare emotivi ed affettivi, specifici del tema trattato. Utilizzai il racconto biografico che, a mio avviso, consente di esprimere all’esterno gli atteggiamenti personali e che, portando in evidenza la coscienza sociale dell’individuo, ci permette di rintracciare costanti sociologiche interessanti. Per motivi legati alle difficoltà linguistiche, infine, feci ricorso ad un tipo particolare di racconto: il disegno.

    La scelta di questo tipo di testo non è però solo legata a motivi prettamente utilitaristici, ma frutto di una riflessione più ampia e sorretta da esperienze e letteratura sulla validità del disegno quale strumento utilizzato dal bambino per esprimere, attraverso rappresentazioni note, le immagini sociali e culturali in cui esso si identifica.

    I soggetti del campione, rigorosamente di sesso femminile, vennero invitati a produrre due disegni: uno raffigurante la propria madre, l’altro raffigurante se stesse così come si immaginavano da adulte. Ogni disegno venne accompagnato da una breve intervista volta essenzialmente a conoscere la provenienza del soggetto, gli anni di permanenza in Italia e il tempo intercorrente tra l’arrivo nel Paese e la partecipazione alla ricerca stessa, l’età, i gruppi e i contesti di relazione frequentati.

    Osservando i disegni di O., una preadolescente albanese, di 11 anni, arrivata in Italia circa 2 anni prima, le due figure, madre e se stessa adulta, sono molto simili: entrambe sono posizionate al centro del foglio, su uno stesso piedistallo erboso; la struttura del corpo, la posizione e il volto sono molto simili.

    A modificare sostanzialmente le due immagini di femminilità veicolati è l’abbigliamento. La madre indossa una gonna lunga, tra lo stivale e l’orlo della gonna non si nota alcun accenno di gamba, le braccia sono scoperte ma la maglia indossata è priva di qualunque ornamento. Nell’insieme la figura esprime una sessualità fredda, rigida; non compare nessun elemento di seduzione.

    L’autoritratto, pur evidenziando diversi elementi di somiglianza con la madre, rivela forti diversità: la gonna è di molto sopra al ginocchio; la camicia, modellata sul seno, lascia scoperto l’ombelico. I capelli, biondi (la bambina ha i capelli neri, come la madre), sono mossi e la figura indossa diversi monili. Lo sguardo e la bocca esprimono disponibilità. Nel complesso la figura rivela un’immagine di donna consapevole ed orgogliosa della propria femminilità.

    Le rappresentazioni realizzate da A., 10 anni, sono molto simili. Anche A. è albanese e vive in Italia dal 1999 dove frequenta con regolarità la scuola. La mamma viene rappresentata mentre, seduta su una poltrona, lavora a maglia; l’abbigliamento è decoroso, è leggermente abbozzata la linea del seno, ma nel complesso la figura esprime una femminilità discreta. L’autorappresentazione è molto diversa; anche A., come O., indossa una minigonna ed una t-shirt che lascia scoperto l’ombelico. Il viso è parzialmente nascosto da una ciocca di capelli che conduce l’attenzione sullo sguardo e la bocca.

    La femminilità espressa dal disegno è molto forte ed è sottolineata dall’abbigliamento, anziché dall’occupazione come nel caso della madre. Un messaggio in apparenza diverso è quello veicolato da N., di 8 anni, anch’essa albanese, ma in Italia solo da ottobre 2002. La mamma raffigurata con i pantaloni come nel caso precedente, è vestita in nero e bianco; il taglio di capelli è molto squadrato; la figura esprime una femminilità dura. Nel rappresentarsi N. contestualizza la figura, usa dei colori pastello e dei tratti più arrotondati; la donna disegnata è molto più dolce, ma anche più seducente: le unghie delle mani sono smaltate, i capelli lunghi e vaporosi ; il vestito è lungo ma lezioso e arricchito da una collana con un pendente a forma di cuore.

    Ciò che differenzia la rappresentazione di N. dalle precedenti è nella rappresentazione di un femminile meno aggressivo. N. era da poco in Italia per cui era ipotizzabile che la donna- velina non facesse ancora parte del suo immaginario femminile. La rappresentazione di una femminilità ammiccante e seduttiva, ma anche ironica (K. ci fa la linguaccia!) emerge molto chiaramente dall’autoritratto di K., anche lei albanese, di 11 anni, in Italia da sette. Lo si evince dall’occhiolino, dall’ombelico che sporge dalla t-shirt con il cuoricino. In questo caso è interessante notare la rappresentazione della madre,come nei disegni precedenti con i pantaloni e le braccia coperte, ma con un’espressione molto aperta, dolce. Questa madre non è austera come le donne precedentemente rappresentate: il volto è sorridente, gli occhi sono contornati da lunghe ciglia, il seno è abbozzato, i colori utilizzati sono vivaci. Nel complesso emerge un’idea di femminilità piena, allegra; emerge anche una certa identificazione tra le due figure: stessa posizione, stesso taglio di capelli, stesso sguardo gioioso, divertito!

    Andiamo ora ad analizzare i disegni di R., una bambina di 9 anni, nata nel Kurdistan turco, arrivata in Italia come profuga circa tre anni prima. Nel primo disegno è rappresentata la madre, che appare vestita con un abito lungo e con il capo coperto dal velo; la madre non lavora fuori casa anche perché, pur essendo molto giovane, ha ben 7 figli da accudire. Nell’autorappresentazione R. indossa dei pantaloni, un paio di jeans precisa, una maglietta gialla e con sé porta una grande borsa e l’immagine è accompagnata dalla scritta 'da grande voglio fare la maestra'. Nel comparare i due disegni emerge chiaramente il desiderio di secessione dall’immagine femminile materna ma osservando con attenzione, viene da chiedersi se la lunga frangia che nasconde gli occhi non sia altro che il velo della madre. Con la frangia R. sembra introdurre un tentativo di pacificazione, un elemento di negoziazione tra il femminino familiare e il femminino della comunità in cui ora vive. L’ambivalenza tra il desiderio di attuare una secessione, rinunciando al velo, e quello di restare ancorata e fedele al proprio entourage, coprendosi il volto, è molto forte.

    L. racconta con i suoi disegni un’altra storia. Intanto appare difficile distinguere la madre dalla figlia: il processo d’identificazione è qui forte. L. ha 12 anni, proviene dal Marocco ed era in Italia da pochi mesi. Sua madre è molto giovane e questo emerge dal disegno che riproduce il volto di una donna affascinante, curata, truccato e ingioiellato. L’autoritratto contiene diversi elementi interessanti. L. indossa un girocollo simile a quello della madre; sul petto compaiono i tipici ornamenti tracciati con l’hennè dalle donne arabe sulle mani e sul corpo. Anche gli occhi, come quelli della mamma, sono sottolineati dalla matita ; i capelli di L. sono striati di biondo e rosso. Diversamente dai disegni precedenti L., nel rappresentarsi, esprime segnali di identificazione con la propria madre e con l’imago femminile della propria cultura d’appartenenza.

    Analoga considerazione possiamo farla per S., di 9 anni, profuga rom, arrivata in Italia forse nel 1995; la sua storia è comunque caratterizzata da un seminomadismo all’interno del nostro Paese, con alcuni viaggi e permanenze anche in altri Paesi europei. L’identificazione fra le due figure femminili è notevole: stesso abito; stessi orecchini, stessa pettinatura. Nel disegnarsi da grande S. si è raffigurata con il suo futuro sposo e ha disegnato nel proprio grembo un bambino. Qui oltre ad identificarsi con la madre, S. si proietta nel futuro: da grande sarà sposa e madre.

    Infine nel suo disegno L. bambina cinese di otto anni in Italia da 4 mesi, esprime l’incapacità di rappresentare la figura materna, prova addirittura 3 volte, cancellando con una croce i tentativi; infine rinuncia e disegna la volontaria che la segue nelle attività extrascolastiche. Sullo stesso foglio compaiono anche due autoritratti dove si è disegnata con armi e corazza, da bambina e non da adulta. L’identificazione con il modello femminile materno risulta impossibile: L. addirittura cancella la mamma. Il modello proposto dalla comunità di accoglienza è un modello fallimentare. La volontaria piange, lo sguardo rivolto verso il basso e le mani poggiate sul tavolo conferiscono al soggetto un’espressione di resa, di fallimento. A L. non resta altro che irrigidirsi nella sua identità bambina, che chiudersi dentro una corazza in attesa di un modello affettivo e sociale a cui far riferimento.

    Dicevo che i disegni presentati possono essere considerati rappresentativi di categorie e applicando e modificando sia lo schema di assimilazione di Maurizio Ambrosini (2000) sia i contributi della Discourse Analysis nonché condividendo, con Gergen, che “il discorso non è possesso del singolo individuo. Il linguaggio dotato di significato è il prodotto dell’interdipendenza sociale … nel mondo postmoderno le persone esistono in uno stato di continua costruzione e ricostruzione. È un mondo in cui tutto ciò che avviene viene negoziato. Ogni realtà del sé cede all’incertezza della riflessione, all’ironia, all’esplorazione giocosa di un’altra realtà ancora. Il centro non regge più...”

    Possiamo pervenire ad alcune considerazioni. Quando l’assimilazione culturale e l’integrazione socio economica sono basse, come ad esempio fra le preadolescenti rom e marocchine neo arrivate, l’identificazione con il modello materno è forte così come la proiezione con il modello etnico femminile di appartenenza. Se c’è un’integrazione socio economica alta, ma il livello di integrazione culturale è basso, come nel caso delle preadolescenti neo arrivate appartenenti alle comunità cinesi, si avverte un’incapacità di proiezione identitaria nonché una permanenza nello stato liminale. Nel caso in cui l’integrazione socio-economica è bassa, ma l’assimilazione culturale è alta, il soggetto attua tentativi di pacificazione, di mediazione fra modelli femminili diversi, assimilando quello viciniore. È questo il caso delle minori curde e marocchine di 1° e 2° generazione.

    Infine, nel caso di un’integrazione socio-economica e d’una assimilazione culturale alta, come per le minori albanesi, si coglie un rifiuto del modello materno e l’assimilazione al modello femminile imperante così come viene proposto dal mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, la televisione.

    IL FUORICAMPO OVVERO LA COLONIZZAZIONE CULTURALE

    Quello che si evince da queste considerazioni, è che la permanenza nella comunità ospitante ingenera meccanismi di mimetismo, adeguamento, mediazione, addirittura annullamento, tra modelli diversi, talvolta contrastanti.

    Quello che non emerge è il vissuto di sofferenza che questo processo racchiude, gridato ad esempio da L. nel suo disegno, e che ci porta a condividere quanto espresso da Duccio Demetrio: “i minori sono maggiormente esposti al cortocircuito causato dal contrasto tra fedeltà agli orizzonti di significato assegnati dalle interpretazioni … del gruppo di appartenenza e il loro tradimento inevitabile. È un conflitto cognitivo, e non solo di carattere emotivo, quello che si scatena, quando si cerchi, per sé e per i propri figli, un proprio posto, una legittimazione ad abitare, non solo legalmente, un’altra terra, protetti non più dalla propria comunità o dal clan, bensì dalla propria capacità di reagire attingendo a risorse di un’individualità prima ignota” [10]. Si tratta così di individuare quelle che Murrel [11] definisce le aree problema in modo da ovviare alla compromissione del sé come sostenuto da Bleger [12].

    L’identità femminile sembra essere un’area problema: l’impossibilità, o la difficoltà, di poter sostenere la validità del modello femminile materno; il continuo confronto con modelli femminili che risultano essere ‘vincenti’ ; l’improponibilità della simbologia femminile della comunità etnica di appartenenza conducono all’abiura, al mimetismo o all’impossibilità di trovare una collocazione di genere.

    Facendo ancora riferimento a Murrel, può essere utile riprendere le fasi del suo modello d’intervento:
    - collocamento individuale, tenendo presente che nessun individuo può inserirsi in tutti i sistemi sociali e che nessun sistema sociale può facilitare la gestione dei problemi per tutti gli individui;
    - intervento sull’individuo, in modo da migliorare il suo inserimento;
    - intervento sulla popolazione, incrementando le risorse di un gruppo a rischio;
    - interventi strutturali, con l’intento di facilitare la gestione dei problemi e l’assetto del sistema;
    - interventi intersistemici, operando fra le parti del sistema con l’intento di creare nuove relazioni, connessioni, interdipendenza;
    - interventi sull’intera rete sociale, attraverso programmi rivolti alla comunità nel suo insieme.

    È possibile delineare un percorso di intervento sociale affiancando al modello di Murrel, il concetto di empowerment, così come definito da Rapaport (1981) capacità degli individui di accrescere e controllare la propria vita attraverso la mobilitazione delle risorse e la consapevolezza critica; da Kiefer (1982) acquisizione di un repertorio di risorse per raggiungere scopi personali e obiettivi sociopolitici; ed, infine, da Zimmerman (1990) processo di cambiamento da una situazione di learned helpness ad una situazione di learned hopefullness [13].

    Il modello di intervento proposto è essenzialmente un modello educativo, non solo perché vede coinvolto il sistema scuola, quale luogo privilegiato, spesso unico, dell’incontro tra sistemi familiari diversi, ma perché “la questione dell’identità sessuale, in questa prospettiva, trova a suo fondamento non più una sostanza stabile e permanente quanto, bensì, quel radicale bisogno transazionale che apre il desiderio dell’esperienza mai conclusiva e conclusa della interdefinizione e del cambiamento” [14].

    Educare, quindi, come percorso, capacità di costruire e decostruire universi di significato. Il percorso descritto nelle sue linee essenziali, seguendo le fasi di Murrel, prevede di:
    a. Intervenire sull’individuo attraverso l’elaborazione di un programma, o di programmi, volto a sostenerlo nel passaggio dallo stato liminale ad una fase di equilibrio e di riconciliazione tra un prima e un dopo, dove l’evento soglia è il Viaggio.
    b. Intervenire sul cosiddetto gruppo a rischio, in questo caso sulla comunità etnica che va sostenuta ad acquisire una maggiore visibilità nel contesto sociale della comunità ospitante.
    c. Attuare interventi strutturali, ad esempio attraverso l’istituzione di centri di consulenza e mediazione interculturale, come i consultori di piscoterapia transculturale francesi, dove il concetto di soglia sia strettamente connesso all’identità espressa sia dalla comunità di appartenenza che da quella ospitante.
    d. Realizzare interventi intersistemici, tenendo conto della prospettiva ecologica nella pianificazione degli interventi. Può essere utile creare nuove relazioni, intese come spazi di valorizzazione delle diversità e momenti di incontro dei femminile ; attuare interventi di decostruzione degli stereotipi e dei pregiudizi, anche attraverso interventi di sensibilizzazione all’interno delle scuole.
    e. Intervenire sulla rete sociale proponendo non solo politiche sociali di pari opportunità ma prevedendo nell’ambito delle stesse attenzione ai diversi femminili presenti ormai nella comunità.

    Oltre ad un adeguamento di tipo giuridico e legislativo che consideri il fenomeno delle nuove cittadine come ambito prioritario d’intervento, può essere opportuno considerare la necessità di attuare percorsi di conoscenza anche attraverso i mass media. Forse soltanto attraverso un’opportuna pianificazione degli interventi credo sia possibile lenire la sofferenza del figlio del migrante (che) “ è il tessitore che lavora a ricucire localmente due mondi separati” [15].


    NOTE

    1] Gran parte delle ricerche sono state condotte a partire dalla seconda metà degli anni ’40 attraverso strumenti diversi, tra i quali il PRAM che mette in rilievo l’accettazione o il rifiuto verso un gruppo etnico. Nel 1947 K.B. Clark e M.P. Clark realizzarono una ricerca utilizzando il test delle bambole per la misurazione del pregiudizio infantile. Ai bambini vengono presentate due bambole di colore diverso e, attraverso la presentazione di sette items, il bambino si trova a scegliere tra bambola buona e bambola cattiva. Da Colombo T. e Favaro G, I bambini della nostalgia, Ed. Mondadori, Milano, 1993.
    2] I sentimenti ed i processi individuati da Erickson sono; il sentimento soggettivo di unità personale e di coerenza;il sentimento della continuità temporale; il sentimento della partecipazione affettiva;il sentimento di autonomia;il sentimento di autocontrollo; il processo di valutazione in rapporto all’altro; il processo di integrazione dei valori di identificazione. Hall C.S., Lindzey G., Teorie della personalità, Ed. Boringhieri, Torino, 1966.
    3] Progetto “Dichiarazione dei diritti culturali”- Consiglio d’Europa e UNESCO.
    4] Malattie tipiche di una certa etnia che si caratterizzano per la loro stretta connessione al contesto sociale, ambientale e culturale.
    5] Harding S., The science question in femmism, Cornell University Press, Ithaca, 1986.
    6] Zaccaria P., Modello relazionale, saperi contaminati, in Identità di genere e immaginario femminile, a cura di Vinella M., IRRSAE Puglia, Bari, ottobre 2000.
    7] De Lauretis T., Sui generi/s, Ed. Feltrinelli, Milano 1996.
    8] Zaccaria P., Modello relazionale, saperi contaminati, in Identità di genere e immaginario femminile, a cura di Vinella M., IRRSAE Puglia, Bari, ottobre 2000.
    9] La ricerca venne svolta nel 2002/03, attualmente è stata da me ripresa per ulteriori approfondimenti.
    10] Demetrio D., Introduzione, paragrafo 3 Le leve culturali della individualizzazione, in Bambini immigrati in cerca di aiuto di M. Rose Moro, Ed. UTET, Torino,2001, pagg. 27-28.
    11] Murrell S, Community Psychology and Social System, Behavioral Publications New York, 1973.
    12] “La migrazione compromette la continuità di sé, l’organizzazione delle proprie identificazioni e dei propri ideali, la coerenza del modo personale di sentire, di agire, di pensare, l’affidabilità dei legami di appartenenza a un gruppo, l’efficacia del codice comune a tutti quelli che partecipano di una stessa socialità, di una stessa cultura.”- Bleger J.,Psychanalyse du cadre psychanalytique, in R. Kaes et al., Crise, rupture et depassement, Dunod, Paris, 1979.
    13] Learned helpness: una situazione di passività appresa, caratterizzata da disperazione;learned hopefullness :abilità nel risolvere i problemi e al conseguimento del controllo percepito.
    14] Galelli R., Progettualità pedagogica e moltiplicazione dei percorsi di costruzione dell’identità sessuale, in Identità di genere e immaginario femminile, a cura di Vinella M., IRRSAE Puglia, Bari, ottobre 2000, pag.94.
    15] Serres M., Discorso e percorso in C. Levi Strausss, in L’identità, Sellerio, Palermo 1986, pp. 25-39.


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