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    M@gm@ vol.5 n.2 Janvier-Mars 2007

    RELIANCE, DELIANCE, LIANCE: EMERGENZA DI TRE NOZIONI SOCIOLOGICHE
    (Traduzione Paolo Coluccia) [NdT]


    Marcel Bolle De Bal

    mbollede@ulb.ca.be
    Professore emerito della Libera Università di Bruxelles, Presidente onorario dell'Associazione Internazionale dei Sociologi di Lingua Francese.

    PREMESSA

    Michel Maffesoli, grande seguace, utilizzatore e diffusore della nozione di «rileanza» mi ha chiesto, come padrino della stessa, di redigere un articolo di riferimento concernente la genesi e il contenuto di questo concetto a causa dell’attenzione crescente. Ciò facendo, pensava non soltanto ai suoi colleghi sociologi, ma soprattutto ai suoi studenti e discepoli portati a ricorrere all’uso di questo termine relativamente nuovo nell’armamentario della lingua sociologica.

    È ben volentieri che rispondo al suo amichevole ed insistente invito. Tenuto conto dei molteplici scambi che ho avuto a questo proposito nel corso degli anni, reputo indispensabile legare l’analisi del concetto di «rileanza» a quella degli altri due che le sono ontologicamente legati: «delianza» e «leanza». In realtà – ciò può constatarsi dalla lettura cronologica dei miei scritti sull’argomento – la «ri-leanza» suppone l’esistenza preliminare di una «de-lianza» e questa uno stato di «pre-delianza» che definiamo allora come il fenomeno di «leanza», sequenza che tenterò di chiarire qui di seguito.

    SULLA RILEANZA

    Per studiare e comprendere la problematica del legame sociale nella società contemporanea, il concetto di "rileanza", in particolare quello di "rileanza sociale", mi sembra naturale chiarire, approfondire e sintetizzare un gran numero di studi particolari sull’argomento.

    Notiamo prima di tutto l’esistenza di una discussione scientifica sulla natura stessa di questo concetto di "rileanza": si tratta di una semplice nozione o merita il titolo di concetto? Michel Maffesoli, allergico a tutti i rischi di rigidità ermeneutica, accorda la sua preferenza alla prima di queste qualificazioni. D’altra parte, nel quadro di una disputatio accademica locale, un eminente collega non ha esitato ad andare più lontano, a rifiutare categoricamente (e oralmente) di riconoscere alla «rileanza» la qualità di concetto. Personalmente, basandomi sulla definizione del dizionario filosofico di Lalande, persisto a considerare che nel caso specifico non si tratta certamente di un concetto a priori, bensì di un concetto a posteriori, di natura empirica, nel caso specifico di "una rappresentazione mentale generale e astratta di un oggetto" (Robert).

    La rileanza: emergenza del concetto

    Per circoscrivere questo concetto emergente, tenterò di situare l’origine, la definizione, il contenuto, prima di sottolineare la dimensione sociologica e la specificità.

    Origine della nozione

    Padrino di questa nozione, nella misura in cui non l’ho affatto inventata, ma soltanto arricchita, mantenuta e sviluppata, devo riconoscerle due padri filologici: Roger Clausse e Maurice Lambilliotte. Poiché se questa nozione appare relativamente nuova, può tuttavia vantarsi di un’esistenza da più di un mezzo secolo e di una presenza attiva da più di un quarto di secolo.

    Per mia conoscenza, il primo sociologo ad avere utilizzato, e probabilmente ad avere creato il termine di "rileanza" in francese è Roger Clausse, nel suo lavoro Les Nouvelles [1]. Analizzando il bisogno sociale d’informazione, egli ne inventaria le diverse dimensioni, ed in particolare la dimensione psicosociale: «è bisogno psicosociale: di rileanza in risposta all’isolamento» [2]. Lo sviluppo dell’informazione e del suo supporto, il giornale, tende a rispondere a questa necessità. Inoltre, Roger Clausse distingue, in seno al complesso delle funzioni sociali svolte dal giornale, una funzione di "rileanza sociale" che definisce come segue: «rottura dell’isolamento; ricerca di legami funzionali, sostituto dei legami primari, comunione umana» [3].

    Da informazione presa da questo autore, tale termine di "rileanza" è stato utilizzato da lui come sinonimo di quello di "appartenenza": la necessità di "rileanza" era nel suo spirito un aspetto della necessità d’appartenenza sociale ("di appartenere ad una comunità di cui si condivide o si rifiuta la sorte felice o infelice"), la funzione di "rileanza sociale" sarebbe soltanto una formulazione originale, più precisa, di ciò che Jean Stoetzel aveva prima definito come la funzione d’appartenenza sociale o, più profondamente forse, una sintesi della funzione d’appartenenza sociale e della funzione psicoterapeutica della stampa ("la ricostituzione di un equivalente delle relazioni primarie distrutte dalla società di massa") messa in evidenza da questo stesso Stoetzel [4]. Da allora, l’analisi di questa funzione di «rileanza» è stata estesa ai diversi mass media: radio, TV ecc. [5]

    I sociologi dei mass media non sono tuttavia i soli ad avere ricorso a questo neologismo. Ecco da alcuni decenni, un altro autore belga ha utilizzato lo stesso termine, ma in un senso leggermente diverso: Maurice Lambilliotte, nel suo lavoro L’homme relié [6]. Gli dà un significato trascendantale, quasi religioso: per lui, “rileanza” è insieme uno stato ed un atto, “lo stato di sentirsi collegato” [7], “un atto di vita... atto di trascendenza in rapporto ai livelli abituali in cui si situa la nostra presa di coscienza” [8]. “Modo interiore di essere: ... permette a qualsiasi individuo di superare, in coscienza, la sua solitudine” [9]. La “rileanza” ai suoi occhi dunque appartiene principalmente al settore dell’esperienza interiore, una ricerca dell’Unità della vita.

    Questa doppia emergenza del concetto di “rileanza”, prima del mio intervento, non è il frutto del caso, anche se i due “creatori” del termine non sembrano avere agito in modo concertato. In realtà, sono “collegati” dal loro comune inserimento forzato in un sistema socio-scientifico a base di divisione e di “delianza” (la società della folla isolata) ed anche da una caratteristica convergente della loro concezione di “rileanza”: collegarla all’uomo, mettere quest’ultimo al centro o all’inizio del processo di “rileanza”.

    Primo elemento di definizione

    Une tale concezione, malgrado le apparenze, non ha nulla di una certa evidenza. Potrebbe anche essere considerata riduzionista: gli uomini non sono i soli a potere essere collegati, le idee e le cose - se avessero la parola - potrebbero rivendicare un diritto simile [10].

    Delle idee possono essere collegate: nel suo principio, la scienza mira a realizzare una tale rileanza, scoprire le relazioni nascoste tra i fatti, le cose ed i fenomeni. Certamente la scienza occidentale dominante, derivata dalle opere di Descartes, isola, separa, divide per conoscere e comprendere. Ma questo primo momento del procedimento scientifico - di cui si accontentano troppi ricercatori - ha senso soltanto se è completato da un secondo procedimento, quello che mira a collegare ciò che è isolato, distinto, separato, slegato (dé-lié). Dopo la tappa della scienza in briciole, deve venire quella della scienza allargata, arricchita, ricomposta... ciò che Edgar Morin ha teorizzato nel suo progetto di rivalutazione del “pensiero complesso” [11]. Da alcuni anni si sono fatti numerosi sforzi in questo senso: la teoria dei sistemi costituisce uno dei luoghi della loro cristallizzazione. Edgar Morin, prova a superarla, allargarla ancora, elaborando una teoria dell’auto-organizzazione con l’ambizione di collegare i tre elementi della trilogia individuo-società-specie [12].

    Delle cose possono essere collegate: due città con una strada o una ferrovia, due rive con una passerella o un ponte, due case con una linea telefonica, due fiumi o due mari con un canale. Rileanza tra cose, destinata ad essere utilizzata da uomini: è sorprendente constatare che tutti gli esempi che vengono spontaneamente alla mente dipendono dal mondo dei trasporti e dalle comunicazioni [13].

    Tuttavia, allo scopo di evitare ogni diluizione del concetto, abbiamo, in un primo tempo, da proporre non di estendere l’applicazione ai collegamenti tra idee e tra cose, di riservarla alle relazioni di cui l’uno dei poli almeno sia costituito da una persona umana. In ciò la nostra definizione ricongiungeva e collegava quella dei nostri due predecessori.

    Definizione di rileanza

    La “rileanza” non ha fino ad oggi diritto di cittadinanza in alcun lessico o dizionario francofono [14], sia esso psicologico, sociologico o filosofico [15].

    A noi dunque, in mancanza di un riferimento semantico, il compito di proporre una definizione di questo termine.

    Per me, in un primo approccio molto generale, rileanza ha un doppio significato concettuale:
    1. l’atto di collegare o collegarsi: la rileanza agita, realizzata, cioè l’atto di rileanza;
    2. il risultato di quest’atto: la rileanza vissuta, cioè lo stato di rileanza.

    Al fine di evitare la trappola della tautologia, occorre precisare il senso del verbo “collegare” (relier), così come sarà utilizzato nel quadro di questa definizione.

    In effetti, i dizionari classici lo definiscono soltanto in relazione a cose o ad idee. Ma ho già precisato che nella prospettiva adottata dal nostro gruppo, si tratta a priori di un atto o di uno stato dove almeno una persona umana è direttamente interessata. Cosa che ci ha indotti ad intendere per collegare: “creare o ricreare legami, stabilire o ristabilire un collegamento tra una persona, sia con un sistema di cui fa parte, sia con ciascuno dei suoi sottosistemi”.

    “Rileanza” e “relianze”

    Nel quadro di questa definizione molto globale, possono essere previste molte ipotesi, ciascuna corrispondente ad un tipo particolare di rileanza:
    - rileanza tra una persona ed elementi naturali: posso vivere la mia rileanza col cielo (attraverso la religione in particolare), con la terra (ritrovare le mie “radici”) con i diversi componenti del nostro Universo, ed attingervi una dimensione importante della mia identità; in questo caso si può parlare di rileanza cosmica;
    - rileanza tra una persona e la razza umana: può realizzarsi in particolare con i riti, i miti, la presa di coscienza del suo inserimento nella lunga evoluzione dei sistemi viventi; in questo caso si parlerà di rileanza ontologica o antropo-mitica;
    - rileanza tra una persona e le varie istanze della sua personalità: la quantità e la qualità delle relazioni tra gli impulsi del’Id, le esigenze del Super-Io, e dell’Io in costruzione, tra il corpo e lo spirito, tra il cosciente, il subconsciente e l’inconsciente; qui si tratterà di rileanza psicologica;
    - rileanza tra una persona ed un altro attore sociale, individuale (una persona) o collettivo (gruppo, organizzazione, istituzione, movimento sociale...): è la rileanza sociale propriamente detta, di cui la rileanza psico-sociale (tra due persone) costituisce allo stesso tempo un caso particolare ed un elemento di base.

    Resta allora il caso delle relazioni tra due attori sociali collettivi: potrebbero anche essere definite, analizzate, interpretate in termini di rileanza sociale. La definizione presa in considerazione fino ad oggi conduce ad escluderli dal campo coperto - temporaneamente - da questo concetto: includervele ritornerebbe ad indebolire il senso e l’interesse di quest’ultimo, allorché la sociologia abbonda in concetti e teorie per l’analisi di tali relazioni.

    La rileanza sociale

    Nel quadro dello studio del legame sociale, la nozione che deve interessare il sociologo in sommo grado è ovviamente quella di rileanza sociale, cioè di rileanza tra due attori sociali di cui una almeno è una persona.

    Le altre dimensioni di rileanza sono sempre presenti, non fosse che soltanto in modo soggiacente, quando si tratta di rileanza sociale: tale è del resto uno degli interessi di questo concetto che arricchisce l’analisi dei legami sociali con l’evocazione delle loro dimensioni psicologiche, filosofiche e culturali.

    Con applicazione dei diversi elementi precedentemente riuniti, propongo di definire come segue la rileanza sociale: “la creazione di legami tra attori sociali distinti, di cui uno almeno è una persona”.

    Questa definizione generale non è dettata soltanto dalla presa in considerazione delle specificità del contesto sociologico contemporaneo (un sistema sociale in seno al quale i legami tradizionali sono stati ridotti, rotti, esplosi, una società di delianza), ma può essere applicata a qualsiasi atto o stato di rileanza.

    La rileanza: dimensione sociologica del concetto

    Un primo approccio superficiale dell’idea di rileanza potrebbe fare pensare che si tratti di un concetto di tipo psicologico che rinvia ai bisogni e ai desideri - che proverebbero gli individui persi nell’ambito della folla isolata - di legare o riannodare relazioni emozionali (dei legami sociali) con l’altro: in queste condizioni, i sociologi non saprebbero che farne.

    Questa non è la mia convinzione. La dimensione sociologica del concetto salta agli occhi da quando si desidera prendere in considerazione il fatto che l’atto di collegare implica sempre una mediazione, un sistema mediatore.

    Rileanza sociale e sistema mediatore

    Le parti sociali sono allo stesso tempo legate (hanno legami diretti tra loro), e collegate da uno o più sistemi mediatori (che si tratti di un’istituzione sociale o di un sistema culturale di segni o di rappresentazioni collettive). Nella relazione interviene un terzo termine. Nascono così ciò che Eugène Dupréel [16] ha chiamato “relazioni sociali complementari”.

    La definizione della rileanza sociale può dunque essere affinata ed essere formulata nei termini seguenti: “La produzione di relazioni sociali mediatizzate, cioè di relazioni sociali complementari”; o, in altri termini, “la mediatizzazione di legami sociali”.

    I sistemi mediatori, messi in gioco da questa mediazione, possono essere:
    - sia dei sistemi di segni (la lingua, il possesso di oggetti di consumo...) o di rappresentazioni collettive (le credenze, la cultura...) che permettono la comunicazione, lo scambio, la rileanza;
    - sia delle istanze sociali (gruppi, organizzazioni, istituzioni...), che determinano e modellano le relazioni di rileanza.

    La rileanza sociale, concetto tri-dimensionale

    A partire dal fatto che la rileanza non esiste indipendentemente da istanze mediatrici, tre sensi del concetto di “rileanza sociale” possono essere distinti da un punto di vista sociologico, a seconda che questa rileanza è prevista:
    - come mediatizzazione, cioè come il processo con il quale sono istituite mediazioni che collegano gli attori sociali tra loro; è il processo di rileanza (reliance-procès);
    - come mediazione, cioè come il sistema più o meno istituzionalizzato, che collega gli attori sociali tra loro: è la struttura di rileanza (reliance-structure);
    - come prodotto, cioè come il legame tra gli attori sociali che deriva dal o dai sistemi mediatori di cui fanno parte questi attori; è il legame di rileanza (reliance-lien).

    Legame sociale e rileanza sociale


    La complessità così definita del concetto di rileanza sociale ci invita alla prudenza sociologica quando ci è suggerita l’analisi del legame sociale: oltre questo si profilano la dinamica della sua genesi (il sua mediatizzazione) ed il risultato di questa (le mediazioni che la determinano), il processo e la struttura di rileanza che producono il legame sociale nella sua specificità momentanea. Il compito prioritario del sociologo è di comprendere a sua volta la dinamica della tessitura e lo stato del tessuto sociale, per riprendere una metafora di Michel Maffesoli [17]. E nell’ordine delle preoccupazioni euristiche del sociologo, la rileanza, secondo me, è prioritaria in relazione al legame.

    I modelli di rileanza sociale

    A ciascuna delle tre dimensioni che sono state appena colte, corrispondono vari modelli di rileanza:
    - la rileanza-processo può essere formale o informale, istituzionale o contro-istituzionale ecc.;
    - il rileanza-struttura può essere burocratica o effervescente, atomizzante o globalizzante, mercantile o ecologica ecc.;
    - la rileanza-legame può essere atomizzata (la folla isolata), molecolare (le comunità), globale (le manifestazioni collettive).

    Uno degli obiettivi prioritari di ricerca dovrebbe consistere nell’elaborare una tipologia concreta di questi vari modelli di rileanza.

    La rileanza sociale, concetto psico-sociologico

    Una teoria sociologica degna di questo nome non può avvitarsi sulla dimensione psicosociologica dei fenomeni umani. Ora, l’interesse del concetto di “rileanza”, e più in particolare quello di “rileanza sociale” mi sembra precisamente risiedere nella “rileanza” che permette, tra i due approcci dei fenomeni psicosociali troppo spesso distinti, l’approccio sociologico e l’approccio psicologico.

    Dal punto di vista sociologico, abbiamo notato due ragioni per ricorrere all’impiego del termine “rileanza”, e dunque del verbo “collegare” in sostituzione del verbo legare, per descrivere i legami tra persone e gruppi di persone; poiché tali legami esistono o sono esistiti, gli attori sociali, poiché sono o sono stati così “legati” possono essere RI-legati:
    - sia per la stabilizzazione di legami “complementari” [18],
    - sia per il ristabilimento di legami disgiunti,
    - sia, ovviamente, per tutti e due insieme.

    D’altra parte, il ricorso al concetto di rileanza permette, grazie all’introduzione di queste dimensioni sociologiche, di allargare, d’arricchire uno studio che, senza ciò, rischierebbe di limitarsi all’analisi psicologica dei legami emozionali, dei collegamenti sentimentali, delle relazioni amorose - argomento interessante certamente, collegato alla rileanza con molto riguardo, ma di cui l’esplorazione e lo sfruttamento, già intrapreso con talento da una folla di scienziati, di poeti e di romanzieri, sortisce i limiti di una (troppa) rigorosa definizione sociologica del legame sociale. Si tratta dunque di un concetto a vocazione e d’orientamento psico-sociologico.

    La rileanza: dimensione antropologica del concetto

    Partito con la mia équipe di ricercatori [19] da uno studio e da una definizione della rileanza sociale (la rileanza con gli altri), sono stato gradualmente portato ad allargare questa nozione e, inizialmente, ad integrare altre due dimensioni essenziali delle sfide di rileanza: rileanza a sé (rileanza psicologica), rileanza al mondo (rileanza culturale, ecologica o cosmica). A ciascuna di queste sfide corrispondono infatti un lavoro sociale e psico-sociale su tre nozioni-chiave per il divenire umano:
    - l’identità, al cuore del lavoro di rileanza a sé (rileanza psicologica),
    - la solidarietà (o la fraternità), al cuore del lavoro di rileanza agli altri (rileanza sociale),
    - la cittadinanza, al cuore del lavoro di rileanza al mondo (rileanza culturale, ecologica o cosmica).

    In un momento successivo, dopo diversi scambi con Edgar Morin, ho completato le definizioni iniziali aggiungendovi ciò che potremmo chiamare la rileanza cognitiva, rileanza delle idee e delle discipline scientifiche, passaggio indispensabile per comprendere la complessità delle realtà umane e sociali, per contribuire allo sviluppo del “pensiero complesso” [20].

    Ciò facendo la “rileanza” al di là della sua dimensione di concetto sociologico, acquisisce una reale dimensione “antropologica”, cosa che ci conduce ad interrogarci sul suo substrato antropologico, sulle finalità politico-scientifiche alle quali il suo impiego può dare corpo.

    Rileanza, substrato antropologico

    Alcuni, infatti, non si fanno colpa di esprimere la loro preoccupazione di fronte al rischio di deriva psicologica di un concetto che lo si tiene ancorato fermamente nel campo sociologico. Tale preoccupazione ha sottinteso, per esempio, le critiche che mi hanno inizialmente inviato sociologi così informati come Raymond Ledrut e Renaud Sainsaulieu. La qualità di questi autori mi è sembrata meritare una seria presa in considerazione delle loro argomentazioni ed una risposta circostanziata.

    Un’antropologia giudaico-cristiana?

    Dietro la valorizzazione dell’idea di rileanza, Raymond Ledrut ha creduto di potere individuare una visione antropologica discutibile: quella, giudaico-cristiana, dell’ “ovile fraterno”, “della comunità pacifica e felice”, “dell’uomo soggetto e cuore” [21]. Renaud Sainsaulieu gli si è ricongiunto in una certa misura quando ha interpretato il desiderio di rileanza come un sorta di “aspirazione fondente”, allorquando vede nella rileanza un tipo particolare di relazione dove il desiderio di essere inteso ed accettato senza lotta né strategia sarebbe centrale. In breve, mi sarei fatto avvocato “di una sociologia di deboli in ricerca d’attenzione che solo l’amore può giustificare” [22].

    Tengo ad affermarlo con forza: non riconosco affatto il mio progetto in queste critiche che gli sono state indirizzate. Queste sono state probabilmente ispirate dall’applicazione che avevo fatto del concetto con l’interpretazione di un’esperienza comunitaria in Belgio negli anni ‘70, e sulla quale ritornerò tra poco.

    Al fine di chiarire il dibattito e per ben situare le sfide, devo tentare di apportare due precisazioni: una d’ordine concettuale, l’altra d’ordine filosofico (o ideologico).

    Il doppio senso della rileanza sociale


    Molte confusioni a proposito dell’idea del concetto e delle politiche di rileanza sociale sono legate al fatto che una distinzione elementare non è fatta tra due sensi di questo termine:
    - la rileanza sociale lato sensu (in senso lato) così come l’ho definita fino ad oggi, cioè la creazione di legami tra attori sociali;
    - la rileanza sociale stricto sensu (in senso stretto), cioè l’azione che mira a creare o ricreare legami tra attori sociali che la società tende a separare o a isolare, le strutture che permettono di realizzare quest’obiettivo, i legami così creati o ricreati.

    La prima definizione è generale ed includente: non comporta affatto giudizi di valore e tende a ricoprire tutte le situazioni esistenti. La seconda, al contrario, è più contingente e più normativa: si riferisce ad aspirazioni specifiche delle parti sociali nel quadro della società della folla isolata ed alle strategie specifiche d’azione sviluppate allo scopo di rispondere a loro volta alle loro aspirazioni in materia di rileanza sociale (processo e strutture) ed alle loro aspirazioni alla rileanza sociale (cioè al loro desiderio di legami calorosi, fraterni, di prossimità, conviviali). In breve alla loro ricerca di una rinascita di comunicazioni, di contatti, di scambi, di condivisione, di riunioni, d’affetto, d’amore, d’identità. La prima fonda una griglia d’analisi sociologica, la seconda chiarisce gli obiettivi d’azione sociale.

    Il secondo senso è certamente all’origine dell’interesse per il concetto di rileanza. Ed è a esso che si rivolgono non meno ovviamente le critiche a questo riguardo parzialmente fondate di Raymond Ledrut e Renaud Sainsaulieu. Parzialmente, perché l’aspirazione alla rileanza sociale può essere di diversi tipi: non implica necessariamente un desiderio di fusione, può essere desiderio di scambio di solitudini accettate come irriducibili. L’interpretazione di miei contraddittori è limitata, riguarda soltanto una delle concezioni della rileanza sociale: è precisamente quella che ho voluto superare proponendo questo concetto che permette, mi sembra, di sfuggire all’antropologia giudaico-cristiana originale per avvicinarsi a ciò che sarei tentato di situare, a seguito delle riflessioni di Raymond Ledrut [23], nella prospettiva di un’antropologia laico-nietzscheana.

    Un’antropologia laico-nietzscheana?

    Come cittadino, riconoscerò senza alcuna vergogna di trovare simpatici i valori giudaico-cristiani descritti (denunciati?) da parte dei miei interlocutori. A condizione d’affermarne i limiti, d’evitare di cadere nella trappola dell’illusione gruppale, dell’idillismo comunitario, della fraternità irenica.

    Come sociologo, potrei accontentarmi di procedere nell’analisi critica di queste illusioni e di queste trappole, delle contraddizioni e dei vicoli ciechi di pratiche contestate che mirano a rispondere ad aspirazioni certamente legittime. Ma ho ritenuto di dovere andare più lontano, non limitare l’analisi in senso stretto della rileanza sociale, allargare lo strumento concettuale dandogli tutta la sua ampiezza sociologica: da lì è sorta la definizione della rileanza sociale in senso ampio.

    L’antropologia che fonda questo è laica: in qualche modo la rileanza sociale può apparire come la forma profana della religione. Le due azioni infatti sono costruite sulla stessa radice semantica (religare: ri-legare). Non è Freud che considerava che una delle funzioni della religione consistesse nel collegare gli individui al gruppo, fondendo i carichi emozionali contenuti e liberandoli, grazie a riti che attingono alla loro dimensione collettiva un entusiasmo emozionale intenso? Legami sociali con trascendenza da una parte, legami sociali senza trascendenza, o con una trascendenza immanente, d’altra. In un primo approccio, l’idea di rileanza sociale, caso particolare di religio, sembra dunque fondata su un’antropologia laica. Ma lo è innanzitutto se si preferisce vedere nella religione un caso particolare di rileanza (meta-sociale?) che implica un riferimento trascendentale... concezione che sono propenso ad adottare oggi.

    Un’antropologia che si potrebbe anche dire nietzscheana: poiché lungi da fare suo l’ideale dell’ovile fraterno, dell’affettività fondente o dell’empatia consensuale, tiene al contrario a nutrirsi di lucidità critica, d’analisi dialettica e d’interpretazioni paradossali. E se occorresse, per essere chiari, precisare il mio sistema di valori in relazione a questo concetto di rileanza, direi che per me, rileanza rinvierebbe ad un’immagine che mi è cara: quella dello scambio delle solitudini accettate (immagine che risponde, sul piano del legame sociale, a quella della strada che collega due città nel deserto sul piano fisico...). Ascoltiamo Nietzsche, così come lo evoca Raymond Ledrut: il legame sociale “non esiste al di fuori le relazioni sociali definite” (una struttura di rileanza da analizzare in modo prioritario. MBDB.); il pensiero critico deve esercitarsi in pieno su una sociologia utopista o essenzialista (il concetto di rileanza in senso lato deve aiutare, se è correttamente utilizzato); c’è interdipendenza e reciprocità dell’individuale e del sociale; l’individuo non è mai soltanto un immaginario; nella società contemporanea l’illusione della personalità e della libertà è molto diffusa (l’individuo è un essere slegato-collegato (delié-relié); l’interrogazione critica è indispensabile per comprendere le nuove forme del legame sociale e la comparsa di nuovi tipi di solidarietà (tenterò di mostrarlo tra poco); l’individualismo (rileanza a sé) e l’atomizzazione (delianza sociale) non devono essere confusi; l’individuo è allo stesso tempo asociale e sociale (slegato e collegato, in modo contradittorio e/o complementare). Come non condividere questo progetto d’antropologia critica che ci propone Nietzsche? Personalmente mi riconosco interamente. Vi ritrovo i principi direttivi che ispirano la mia visione di rileanza e le mie ragioni di proporre questa griglia di lettura. Dalla discussione iniziata, deduco che mi resta un importante lavoro da compiere per correggere il tiro, per esplicitare l’implicito dei miei postulati antropologici, la specificità e l’utilità del concetto proposto.

    La rileanza: specificità del concetto

    Alcuni, e in primo luogo Renaud Sainsaulieu, hanno emesso alcuni dubbi sull’utilità e la specificità del concetto: perché creare una parola quasi nuova per descrivere una realtà già vestita di un guardaroba concettuale ben fornito; appartenenza, integrazione, alienazione, dipendenza, predominanza, adesione, partecipazione non costituiscono una quantità super abbondante di concetti psicosociologici ben introdotti in cattedra?

    La mia convinzione è che questo termine è utile, necessario, esprime una realtà emergente, la cui emergenza è legata all’evoluzione del sistema sociale globale e di cui nessuno degli altri concetti spiega in modo realmente soddisfacente, cioè con una precisione sufficiente.

    Ancora conviene sostenere quest’opinione, giustificare questo giudizio, dimostrare la specificità del concetto di rileanza rispetto ai suoi concorrenti che hanno presa in ambito accademico.

    Vi ho dedicato alcune analisi che, per lo spazio limitato, non posso pensare a riprendere o sviluppare [24].

    Ho così potuto mettere in evidenza che rileanza non poteva essere confusa, tra l’altro, né con l’appartenenza, né con la predominanza, né con l’affettività.

    Con l’appartenenza, innanzitutto. Rileanza ed appartenenza costituiscono due realtà - due stati, due azioni o due aspirazioni - che, pur possedendo una parte comune (la rileanza in tanto che appartenenza ad un gruppo sociale particolare, l’appartenenza in tanto che implica una certa rileanza) si superano vicendevolmente, si differenziano con caratteristiche specifiche: la rileanza può esistere indipendentemente dall’appartenenza, l’appartenenza esige altri ingredienti che la rileanza.

    Con la predominanza e l’affettività, di seguito. Le relazioni sociali, i legami psicosociali trasportano di solito elementi di predominanza e di affettività, ma queste due nozioni non possono essere confuse con quella di rileanza [25]. Cronologicamente in uno scambio sociale, la rileanza interviene in primo luogo al momento della formazione della relazione, allorché la predominanza e l’affettività si sviluppano quando la relazione è legata. La rileanza non riguarda che il fatto di collegare, essere collegato o di collegarsi, non il desiderio di dominare o le sensazioni emozionali che possono tingerlo di una colorazione particolare. La delimitazione tra questi due concetti è indispensabile se si desidera conservare alla “rileanza” il suo potenziale descrittivo ed analitico.

    Il termine legami potrebbe, anch’esso, sembrare adeguato a descrivere la creazione di legami sociali. Tuttavia, gli mancano, in relazione al concetto di rileanza, tre dimensioni essenziali: sociologica (la “complementarità” definita da Eugène Dupréel), filosofica (la rileanza cosmica), psicologica (rileanza a sé). Altri termini, come “interazione”, “alleanza”, “relazione” o “interpersonale” (a proposito dei quali Renaud Sainsaulieu si è chiesto se non bastassero a spiegare la realtà da descrivere) non mi sembrano affatto esprimere, per se stessi ed in modo così sintetico, le tre dimensioni sociologiche del concetto di rileanza: la mediatizzazione, la mediazione ed il prodotto. Al lettore giudicare e portare, se lo vuole, la sua critica costruttiva: sarà molto apprezzata.

    Rileanza: utilità del concetto


    Spero di avere lasciato intravedere, nel poco spazio di cui dispongo, la specificità del concetto. Rimane da provare la sua utilità. Considero che questa si orienti in tre direzioni: epistemologica (si tratta di un concetto-cerniera), euristica (permette di comprendere ed interpretare i mutamenti contemporanei del legame sociale), prospettica (traduce una dinamica di creatività potenziale).

    La rileanza, concetto-cerniera: legami sociali e legami scientifici

    L’interesse epistemologico del concetto di “rileanza” e più particolarmente di quello di “rileanza sociale”, mi sembra risiedere nel fatto che si situa nell’articolazione di almeno tre approcci del legame sociale: un approccio sociologico (la mediatizzazione del legame sociale e la creazione di relazioni sociali complementari), un approccio psicologico (l’aspirazione di nuovi legami sociali), un approccio filosofico (i legami manifesti o latenti tra rileanza e religione). Ma la sociologia esistenziale, che sulla scia di Edouard Tiryakian [26] mi auguro di vedere elaborarsi progressivalmente [27], suppone un’apertura verso discipline complementari troppo spesso ignorate o trascurate: la filosofia e la psicologia in particolare.

    Ciò che Jean Maisonneuve ha scritto [28] a proposito del concetto “gruppo di riferimento” mi sembra applicabile, mutatis mutandis, al concetto di “rileanza”: “Si tratta di un concetto cerniera indispensabile in psicosociologia, permette di collegare le situazioni collettive dove l’individuo è continuamente immerso (in seno a tale gruppo, vicino a tale compagno) ed i processi psicologici che conferiscono il loro senso a queste situazioni in funzione di una dinamica personale”.

    La rileanza, concetto interpretativo: legame sociale ed esperienza comunitaria

    Questo concetto-cerniera non ha che un interesse teorico astratto. Permette di rendere conto, e soprattutto d’illuminare di un nuovo giorno processi di rileanza che mirano alla creazione di nuovi legami sociali, in rottura con le strutture di rileanza istituite. A titolo d’illustrazione, evocherò brevemente il caso di una comunità contro-culturale che ho potuto studiare in modo privilegiato, applicandogli una griglia d’analisi ispirata dal concetto di “rileanza” [29].

    Nel 1971, alcuni giovani di Bruxelles, segnati nella loro esperienza dagli eventi del maggio 1968, decidono di affermare il loro rifiuto della famiglia tradizionale, di fondare una comunità, di mettere in pratica i principi della contro-cultura, in breve d’istituire tra loro nuovi tipi di legami sociali. Tutti i loro tentativi in questo senso sfociano in fallimenti duramente sentiti. I legami sociali antichi operano un ristabilimento spettacolare: una quadruplice restaurazione – dei valori, della famiglia, del potere, dei ruoli – illustra questo ritorno della cultura nella contro-cultura, della società nella comunità. Ritorno della società che comporta un ritorno alla società: dopo tre anni, i comunardi decidono di porre fine alla loro esperienza.

    Come possiamo interpretare questa esperienza in termini di “legami sociali” e di “rileanza”?

    La mia tesi è che questa comunità, come la maggior parte delle associazioni di questo tipo che sono fiorite dopo il ‘68, costituisce il sintomo di una reazione contro uno dei tratti essenziali della società contemporanea, società di “delianza” segnata dalla disaggregazione dei gruppi sociali di base, con carenze di rileanza (nella natura dei legami sociali). Al centro di tale sistema sociale nascono e si sviluppano desideri di rileanza: gli individui isolati desiderano essere collegati, cioè legati di nuovo e legati differentemente. Carezzano un sogno comunitario ed elaborano un progetto di rileanza (o più esattamente un progetto di contro-rileanza); decidono di creare una famiglia comunitaria, concretizzazione della loro aspirazione alla rileanza sociale (stricto sensu: ricerca utopica di un mondo isolato, idilliaco, significante, conviviale). La contro-cultura, qui, può essere analizzata come una struttura di rileanza simbolica per contestatari in rottura le tradizioni societarie. Le manifestazioni esteriori che essa ispira e che la esprimono – i vestiti “hippies”, i capelli lunghi, la droga, la musica, il viaggio – testimoniano i legami che “rilegano” i suoi adepti. Ma quando il progetto prende corpo, che la sperimentazione comunitaria di nuovi legami sociali è lanciata, questo processo di rileanza mette l’utopia a dura prova. I comunardi scoprono la natura paradossale del legame sociale comunitario che vuole rilegarsi tra loro, si slegano del mondo esterno; volendo collegarsi con sé, scoprono la loro solitudine esistenziale, la loro delianza fondamentale. L’utopia messa alla prova diventa prova iniziatica per i suoi seguaci, occasione di sviluppare le loro capacità di rileanza: di rileanza con sé (uno Io rafforzato poiché diventato capace di affrontare e superare l’angoscia di separazione), di rileanza con gli altri (capacità di condividere le solitudini, negoziare, dialogare, di confrontarsi con l’altro), di rileanza col sistema macro-sociale (presa di coscienza delle realtà politiche ed economiche) e col sistema micro-sociale (apprendimento dell’autogestione). Niente a vedere dunque, ma all’opposto, con eventuali aspirazioni a legami fondenti. Con queste capacità affilate dalla sorte, i comunardi si sentono maturi per sciogliere la loro comunità, per assumere la delianza che ciò rappresenta, per partire, forti della loro maturità acquisita, alla ricerca di nuovi legami sociali, eventualmente comunitari.

    Nient’affatto insuccesso, dunque, nonostante le apparenze ed a scapito di spiriti superficiali e/o tristi. Certamente l’utopia di una rileanza diretta, immediata, è arretrata dinanzi all’esigenza di rileanza istituita. Certamente quest’ultima non è sopravvissuta alle sue contraddizioni interne. Ma la rottura della rileanza comunitaria non ha comportato la fine della tentazione comunitaria, i legami creati e sperimentati nel corso di questo processo sono stati tessuti, secondo gli interessati, con un filo più solido di quelli che formano la trama della rileanza comune, l’aspirazione alla rileanza comunitaria, a un modo comunitario di rileanza è uscita rafforzata dalla prova: è questa volta liberata dal desiderio infantile di legami sociali fondenti. Il concetto di rileanza, con le sue molteplici sfaccettature, permette di comprendere e relativizzare i diversi desideri di rileanza così come la loro dinamica.

    SULLA DELIANZA

    Se il bisogno di ri-leanza si fa anche sentire nella società contemporanea, se aspirazioni di ri-leanza si realizzano un po’ ovunque, è perché prima sono state vissute, sotto varie forme, situazioni di “de-lianza”. In realtà, il sistema sociale della modernità può essere caratterizzato come un sistema socio-scientifico di divisione e di delianza. Constatazione che merita alcuni momenti di riflessione da parte nostra.

    La società che “ragiona”: una società di delianze

    Le qualificazioni utilizzate per caratterizzare la società contemporanea sono variegate: società di consumo, società d’organizzazione, società burocratica, tecnocratica, repressiva, sviluppata, industriale, tecnica, automatizzata, programmata ecc. Tutte rinviano in un modo o in un’altro ad una caratteristica che mi sembra fondamentale: si tratta di una società di ragione, che fonda il suo sviluppo sul ricorso alla ragione, su ciò che crede di essere razionale e/o ragionevole. In questo senso, può, mi sembra, essere definita società che ragiona, allo stesso modo che la si battezzi “follia che ragiona” un “delirio sostenuto da ragionamenti” (Robert).

    Fra questi “ragionamenti” fondamentali, c’è uno che ci è inculcato dalla nostra più giovane età, sotto forma di norma culturale pregnante: dividere per guadagnare. Che si tratti di Orazi contro Curiazi (dividere per superare), di Machiavelli contro i devoti del suo principe (dividere per regnare), di Descartes contro i segreti della Vita (dividere per comprendere), di Taylor contro gli scioperi operai (dividere per produrre), sempre è messa davanti come scorciatoia a volte deformante di miti, di rappresentazioni semplificate, di ricette compartimentali, l’utilità di dividere per dominare.

    Questa società “che ragiona”, fondata sul principio di divisione, di sbriciolamento, di “delianza” può essere analizzata in riferimento alla teoria dei sistemi, in particolare dalla teoria dei sistemi socio-tecnici aperti [30].

    Da quest’angolazione, appare come un sistema socio-scientifico, composto da due sottosistemi con le loro proprie dinamiche ma strettamente interconnessi: un sottosistema scientifico ed un sottosistema sociale.

    Il sottosistema scientifico: la ragione semplificante

    Il paradigma della scienza occidentale classica, costruzione razionalista derivata dalle opere di Descartes, implica l’eliminazione della soggettività, l’esclusione del soggetto. È fondato su un mito, che predomina la maggior parte delle scienze sociali: il mito dell’uomo razionale e realista, senza pregiudizi sulle condotte appropriate grazie all’ “informazione oggettiva” [31]. La separazione tra il teorico e l’esperto, tra il ricercatore e l’uomo d’azione, trova la sua fonte in questa distinzione che ispira il razionalismo ed il liberalismo: l’opposizione tra i miti e i pregiudizi da una parte, la rappresentazione realistica del mondo d’altra parte. Il sociologo, in questa prospettiva, è il prodotto della produzione di una società in cui trionfa lo spirito che ragiona.

    Ma questa compartimentazione non è la sola in causa. Il modello razionalista delle relazioni tra ricerca ed azione, ispirato dalla pratica delle scienze dette esatte, si traduce nel settore delle scienze umane in generale, della sociologia in particolare, in quattro spaccature cruciali [32].

    Per prima una spaccatura tra la ricerca fondamentale (detta anche – e questo non è un caso – ricerca “pura”) e la ricerca applicata. La prima è consacrata esclusivamente all’acquisizione della conoscenza; si disinteressa delle conseguenze pratiche e sociali delle sue indagini: se lo “scienziato” se ne preoccupa, lo fa in quanto uomo privato, in quanto cittadino, non in quanto ricercatore. La ricerca applicata, a sua volta, riguarda fini pratici, non direttamente scientifici, che sono definiti dalla società globale o da un cert gruppo sociale in privato: il suo compito scientifico consiste, più spesso, nel determinare i mezzi adeguati per raggiungere questi fini. Questa distinzione, derivata delle scienze esatte, si basa su due postulati impliciti: una concezione statica, fissista della società, ed una percezione di questa come pericolosa per il ricercatore (le finalità sociali minacciano la “purezza” delle procedure e dei risultati della ricerca). L’illusoria “indipendenza” del ricercatore fondamentale (illusoria perché si acquisisce rinunciando a studiare una parte importante della realtà sociale) e la sottomissione non illusoria dell’ “applicatore” ai suoi clienti sono due atteggiamenti che si nutrono reciprocamente: l’una e l’altra camuffano spesso una comune pratica di conservatorismo sociale, nella misura in cui evitano di affrontare i difficili problemi del cambiamento sociale nelle sue contraddizioni concrete, quotidiane, umane.

    In seguito, una spaccatura tra il ricercatore e le strutture sociali (gruppi, organizzazioni, istituzioni) che studia. Per essere scienziato e “fare” scienza, si tratta “di trattare i fatti sociali come cose”. Qui rendiamo di passaggio giustizia a Durkheim: quest’ultimo non ha mai preteso che occorresse trasformare o ridurre i fatti allo stato di cose, di “reificarli” come amano dire e fare i suoi epigoni tecnocrati-in-sociologia. La sua intenzione era principalmente epistemologica. Su questo piano, tuttavia, essa è alla base della seconda spaccatura segnalata. Le manifestazioni di questa sono multiple e raffinate: vocabolario esoterico, lingua astratta, erudizione elitaria, laboratorio sofisticato; sul terreno, l’evitare ogni contatto troppo personalizzato con il gruppo, il ricorso a metodi “non imbarazzanti” per il gruppo studiato (come se potesse esisterne...). L’obiettivo riconosciuto e valorizzato è quello della distanza, garanzia presumibilmente indispensabile dell’obiettività scientifica.

    Poi una spaccatura tra i progettisti e gli esecutori di una ricerca, che riflette la divisione tayloriana del lavoro industriale. Questa spaccatura è illustrata dai titoli universitari che stigmatizzano questa gerarchia socio-professionale: dottori e maestri di ricerca da una parte, assistenti e addetti di ricerca d’altra parte. Molto spesso, troppo spesso, i “ricercatori” – cioè coloro che procedono al reale lavoro di ricerca -sono molto poco associati alla concezione della ricerca, alla formulazione delle ipotesi, al negoziato dei contratti. Si è potuto qualificarli “O.S. della ricerca”.

    Infine, spaccature psicologiche interne alla persona del ricercatore, tra la sua persona privata, la sua persona professionale e la sua persona civica, tra le sue osservazioni e le sue sensazioni, tra il suo spirito ed il suo corpo. Queste spaccature sono rafforzate da una proliferazione di divieti, norme interiorizzate che riflettono il credo della volgata sociologica insegnata nelle istituzioni cosiddette scientifiche: non lasciarsi turbare dai sentimenti, non esprimerli, non influenzare i soggetti, non identificarsi con i fini del gruppo, in breve non entrare in relazione, né con gli altri, né con se stessi... Lungi da me l’idea di sostenere che queste norme siano inutili o nocive. Desidero soltanto attirare l’attenzione sul fatto che, seguite alla lettera, con zelo e senza sfumature, possono comportare un considerevole impoverimento delle ipotesi e dei risultati.

    Questo modello razionalista tende in effetti a produrre una conoscenza atomizzata, parcellare, riduttrice, “s-legata” in qualche modo. Così sembrerebbe essere una certa sociologia della ragione positiva e quantitativa, analitica, elaborata sulla base d’indagini con questionari o interviste, di sondaggi di opinione. A ciò altri “razionalisti” tentano di opporre una sociologia della ragione negativa e critica, più qualitativa e sintetica, alla quale fissano come obiettivo lo svelamento delle realtà - funzionamento o movimento - latenti del sistema sociale. Ma questa seconda corrente raggiunge la prima in una stessa definizione della loro relazione all’azione. Per loro, la conoscenza sociologica, per il solo fatto della sua esistenza, porta in se stessa una trasformazione potenziale, costituisce un’azione che basta a se stessa. Questa posizione minimalista è sempre più contestata da numerosi sociologi, che ritengono indispensabile, se non per sviluppare questo potenziale d’azione, almeno interrogarsi sulla realtà ed sul senso di questa azione, sugli effetti - eventualmente perversi - che essa può avere sul sottosistema sociale.

    Il sottosistema sociale: le razionalizzazioni che slegano

    Le diagnosi che riguardano il nostro sistema sociale vanno tutte nello stesso senso, viviamo nell’era della ‘folla isolata’ per Reisman, del ‘formicaio di uomini soli’ per Camus, della ‘solitudine collettiva’ per Martin Buber.

    Sbriciolata, esplosa, disgregata, spezzettata, serializzata, tale appare la nostra società agli occhi degli osservatori più attenti. Tutti questi epiteti rinviano ad un fenomeno di base: quello della disintegrazione comunitaria, dello smembramento dei “gruppi sociali primari” – la famiglia, la parrocchia, il villaggio, l’officina – al centro dei quali si realizzava tradizionalmente la socializzazione dei futuri adulti. Alla base di questo movimento apparentemente irreversibile: la ragione e le sue applicazioni nei settori più diversi, sotto forma di “razionalizzazioni” scientifiche, tecniche, economiche e sociali (industrializzazione, urbanizzazione, produzione e consumo di massa, organizzazione “scientifica” del lavoro ecc.).

    Ma questa ragione è irragionevole: porta in essa il germe di ciò che può essere percepito come una nuova malattia, la delianza, conseguenza della rottura dei legami umani fondamentali.

    Questa rottura, di cui soffrono gli esseri del nostro tempo, è polimorfa.

    Non sono più collegati con gli altri, se non è per mezzo di macchine: la catena per i produttori, la televisione per i consumatori.

    Non sono più collegati con loro stessi: la frenesia della carriera, del consumo, dell’informazione sovrabbondante non lasciano loro più il tempo di interrogarsi su loro essere profondo, sul senso della loro vita.

    Non sono più collegati con la terra: gli spazi verdi sono divorati dal bitume delle città cementificate.

    Non sono più collegati con il cielo: Dio non sembra rispondere agli appelli angosciati che gli sono indirizzati.

    Slegati, disconnessi, separati, segnati da queste carenze di “rileanza” [33], appaiono come il frutto sociale del loro spirito, della loro scienza. La delianza sociale è il bambino perverso della ragione scientifica.

    Le nuove tecnologie accentuano in modo drammatico questi fenomeni di delianza sociale, culturale, umana. Sono portatrici di una doppia realtà contraddittoria, paradossale: sviluppano la rileanza tecnica ma sciolgono la rileanza umana; moltiplicano le possibilità di informazioni e di comunicazioni ma peggiorano il problema dell’informazione e della comunicazione.

    Questa malattia di delianza - precedente alla comparsa di nuove tecnologie, ma resa più acuta dalla loro crescita esponenziale - si sviluppa in cinque direzioni: socioeconomica (l’occupazione), sociotecnica (il lavoro), sociopsicologica (le comunicazioni), sociorganizzativa (il potere), socioculturale (le solidarietà sociali).

    Una delianza socioeconomica: l’occupazione minacciata

    Il lavoro-occupazione costituisce, nel nostro sistema socioeconomico, una struttura di rileanza fondamentale. Il lavoro, infatti, collega la persona dei lavoratori:
    - esteriormente, a tutto il sistema di produzione (rileanza socioculturale),
    - internamente, a suo istinto di creazione (rileanza psicologica).

    Avere un’occupazione è avere un senso socioeconomico, un’esistenza socioculturale, un’identificazione socioculturale. Perdere la propria occupazione è vivere la rottura di una doppia rileanza, soffrire una doppia delianza.

    In questo settore, le previsioni sono molto dubbie. L’ipotesi più ottimista prevede una crescita economica ad occupazione costante e a disoccupazione accresciuta: le nuove tecnologie sono dunque all’origine di un grave problema di delianza socioeconomica.

    Una delianza sociotecnica: il lavoro “razionalizzato”

    A ben guardare, le nuove tecnologie costituiscono soltanto una tappa nel profondo movimento di razionalizzazione del lavoro sul quale si è costruito lo sviluppo delle società industriali.

    Ma queste nuove tecnologie presentano da quest’angolazione una dimensione originale: la razionalizzazione che è associata loro non è più soltanto d’ordine tecnico, è anche e soprattutto sociale, socio-tecnica. Le nuove macchine impongono all’uomo non soltanto il loro tempo, il loro ritmo, la loro cadenza, ma anche la loro logica, il loro linguaggio, il loro codice. S’interpongono tra lui ed il suo pensiero, la sua cultura, la sua libertà. Spargono un linguaggio astratta; una lingua di segni, un gergo esoterico. Così l’attività informatizzata ha potuto essere definita “geroglifica”, la sua trasmissione, il suo trattamento, la sua destinazione finale rimangono sconosciuti.

    Nulla di stupefacente, di conseguenza, nel constatare questo risultato paradossale della razionalizzazione: la razionalità assorbe e distrugge la ragione. La progressione irresistibile della razionalizzazione può essere riassunta in un’immagine: si è passati dalla parcellizzazione del lavoro industriale all’astrazione del lavoro informativo. L’informatizzazione del terziario si accompagna, in alcuni casi, ad una “taylorizzazione” del lavoro amministrativo.

    In questo contesto si produce una cesura dei legami emozionali tra il lavoratore ed un lavoro astratto: la delianza socio-tecnica si accompagna ad una delianza sociopsicologica.

    Una delianza sociopsicologica: il lavoratore isolato

    Tocchiamo qui una dimensione essenziale del fenomeno di delianza vissuto dai lavoratori: la rottura delle relazioni interpersonali, lo strappo del tessuto sociale con la conseguenza della nascita di una sensazione d’isolamento, di solitudine.

    Questo isolamento è multiforme: isolamento di fronte alla tastiera di un calcolatore, in cabine di controllo, anche durante le pause (occorre relazionarsi), isolamento legato al lavoro a turni (per gruppi distinti) o al lavoro a domicilio (grazie alla teleinformatica).

    Questo isolamento di fatto è fonte di una solitudine paradossale: gli uomini sono collegati da tecniche, non dal corpo; sono connessi ma non hanno più relazioni (faccia a faccia). Le tecniche di comunicazione uccidono la comunicazione. Ma man mano che crescono le rileanze tecniche, la rileanza umana, diminuisce (pensiamo a tutti questi risponditori automatici che invadono la nostra vita professionale e privata, o ancora allo sviluppo folgorante degli scambi “virtuali” tramite il Telefonino o Internet...).

    Le nuove tecnologie sviluppano le possibilità di comunicazioni funzionali (le note e le informazioni che circolano nel sistema di produzione), al momento stesso in cui rallentano le comunicazioni esistenziali (le più significative in materia di rileanza). Come comunicare prevale su che cosa comunicare.

    La razionalizzazione, ancora una volta, si rivela irrazionale: il successo dei club e di altri “gruppi d’incontro”, paradisi più o meno artificiali di scambi, di rileanza e d’iniziazione, non testimoniano la rimozione socioculturale imposta dalla logica cieca delle nuove tecnologie?

    Una delianza sociorganizzativa: il potere esploso

    Una caratteristica comune ai tre fenomeni di delianza già evocati: la sensazione di una perdita di potere reale o potenziale, che provano gli utenti di nuove tecnologie.

    Questa perdita di potere è reale, nella misura in cui la razionalizzazione comporta un declino dell’autonomia professionale non soltanto degli operatori d’intrattenimento, dei dipendenti d’ufficio, dei quadri in via di proletarizzazione: tutti perdono il potere che possedevano o credevano di possedere in seno alle vecchie strutture.

    La fonte di tutte queste delianze tra gli operatori ed i loro prodotti, tra i lavoratori, è da ricercare meno nelle innovazioni tecnologiche, che in un sistema d’organizzazione (sistema che struttura le relazioni di potere) fondato su una logica di divisione, di separazione, di delianza (divisione del lavoro, separazione del pensiero e dell’esecuzione, dispersione dei gruppi sociali, esplosione delle strutture di potere): in questo senso possiamo parlare giustamente di una delianza socio-organizzativa, realtà che sottintende i fenomeni così spesso evocati dalla crisi dell’autorità e dalla crisi di generazioni...

    Una delianza socioculturale: le solidarietà dislocate

    Questo tipo di delianza segna in particolare la classe operaia e le organizzazioni sindacali che desiderano canalizzarne l’energia.

    Le nuove tecnologie isolano i lavoratori, rompono il tessuto sociale, differenziano gli spazi e gli orari di lavoro, moltiplicano le categorie professionali: in ciò riducono le possibilità di azioni collettive, di situazioni fondenti dove per contagio si costruisce lo spirito di corpo, di solidarietà emozionale ed effettiva, di presa di coscienza delle relazioni di classe, in breve d’iniziazione alle lotte sociali. La classe operaia, nelle rappresentazioni dominanti veicolate dai nuovi mass media, cessa di essere una folla in lotta gomito a gomito per diventare una somma di lavoratori individualmente interrogati da sondaggi.

    Di fronte a questa delianza polimorfa, sorgono e crescono delle aspirazioni di ri-leanza, in particolare queste aspirazioni di rileanza sociale evocate un po’ più sopra: gli individui slegati, isolati, separati, aspirano ad essere collegati, ed a essere collegati differentemente. Queste aspirazioni emergenti costituiscono, mi sembra, una sfida sociale determinante per la nostra società, per le nostre politiche sociali... Sfida attualmente presa in carico dal movimento ecologista, i cui recenti successi elettorali meritano a tale riguardo d’incitare alla riflessione.

    Alla ricerca di una società ragionevole: per un sistema socio-scientifico d’alleanza e di rileanza

    Liberati dalla natura con l’uso della ragione e della scienza, gli uomini del nostro tempo diventano prigionieri della loro cultura razionalista e scientifica. Sempre più collegati dalle loro tecniche - l’automobile, la radio, la televisione, il telefono, la catena di montaggio, l’elaboratore - lo sono sempre di meno con le strutture sociali. La specializzazione scientifica si prolunga nel lavoro in briciole, la famiglia in residui, il villaggio in rovine. Disintegrazione atomica e disintegrazione comunitaria sono soltanto le due facce di uno stesso fenomeno. Emerge allora dalle profondità del corpo sociale un’aspirazione profonda - da cui la rivendicazione ecologica costituisce una manifestazione d’avanguardia - ad una rinascita di rileanza, a nuove alleanze tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e le scienze, ad una società (realmente) ‘ragionevole’, cioè, se apriamo contemporaneamente il dizionario ed le nostre orecchie, «dotate di (vera) ragione».

    I cambiamenti del sottosistema scientifico: ragione complessa e nuove alleanze

    La scienza, oggi, è ad una svolta. Un cambiamento radicale germoglia nel suo seno. Questo cambiamento si prepara tanto nel campo delle scienze dette “esatte” quanto in quello delle scienze dette “umane”.

    Nel campo delle scienze della natura, questa “metamorfosi della scienza” è annunciata da Ilya Prigogine ed Isabelle Stengers, che hanno fatto di questo tema il sottotitolo del lavoro nel quale plaudono in favore di una nuova alleanza tra l’uomo e la natura, tra l’uomo ed il mondo che descrive, tra sistema osservatore e sistema osservato, tra cultura scientifica e cultura umanista, o tra le diverse culture scientifiche [34]... Nello stesso senso si situa lo sforzo di Edgar Morin per sfuggire al pensiero mutilato e mutilante, per reintegrare il soggetto nel paradigma della scienza, contemporaneamente dall’alto (l’osservatore-conoscitore) e dal basso (l’osservato-conosciuto); o, in altri termini, per sostituire al paradigma di semplificazione un paradigma di complessità, per nutrire quest’ultimo delle ambiguità, paradossi, contraddizioni, incertezze respinte da quello [35].

    Nel campo delle scienze dell’uomo è in gestazione ugualmente una metamorfosi del lavoro scientifico. Per limitarci alla sociologia, possiamo constatare che due eminenti sociologi francesi, Michel Crozier ed Alain Touraine, tutti e due appartenenti alla corrente della teoria che teorizza, arrivano nelle prospettive e con cammini diversi a conclusioni convergenti [36].

    Tutti e due tentano di definirsi rispetto alla problematica inevitabile dell’azione in, su e con i sistemi sociali; tutti e due vedono nello sviluppo delle capacità relazionali ed istituzionali dei gruppi, organizzazioni e movimenti sociali uno degli oggetti del lavoro sociologico. A fianco alla sociologia classica ad orientamento teorico, emerge così poco a poco una socianalisi (anche se riferimento semantico non vi è fatto), cioè una sociologia ad orientamento clinico, che prolifera in almeno nove direzioni [37]: l’intervento socio-tecnico previsto dall’Institut Tavistock di Londra [38], l’intervento socio-psicanalitico immaginato da Gérard Mendel [39], l’intervento psico-sociologico ispirato da Kurt Lewin e ripreso da Max Pages [40], l’intervento socio-analitico inventato da Elliot Jaques [41], l’intervento socio-pedagogico animato da Alain Meignant e René Barbier [42], l’intervento socio-clinico difeso da Eugène Enriquez e Vincent de Gaulejac [43], l’intervento socio-organizzativo caro a Michel Crozier [44], l’intervento socio-storico illustrato da Alain Touraine [45], l’intervento socio-analitico propriamente detto lanciato dai coniugi Van Bockstaele [46], a cui occorre riconoscere la paternità dell’espressione [47].

    La metamorfosi della scienza implica dunque molte nuove alleanze: non soltanto tra l’uomo e la natura, tra scienze dell’uomo e scienze della natura, ma anche tra le diverse scienze dell’uomo (sociologia, psicologia, economia, storia...), tra teoria e pratica, ricerca ed azione, sperimentazione ed esperienza.

    Il cambiamento del sotto-sistema sociale: aspirazioni di rileanza ed aspirazioni di nuove strutture di rileanza


    A queste necessità di “nuove alleanze” nel campo scientifico corrisponde la necessità di nuove rileanze nel campo sociale.

    I produttori, schiacciati dall’anonimato delle grandi organizzazioni burocratiche, i consumatori, sconvolti dinanzi ai tentativi della società dell’iper-scelta, i cittadini, persi nella folla isolata, partono brancolando alla ricerca di nuovi legami sociali, sperimentano nuove strutture di rileanza: comunità familiari, comitati di quartiere, botteghe solidali, scuole nuove, medicina di gruppo, alcolisti anonimi, associazioni e sette diverse. Le “rivoluzioni minuscole”, come le ha qualificate un giorno la rivista Autrement.

    Così, a lato di un vasto settore dove regna l’eteronomia, tende ad emergere un settore dove l’autonomia si offre uno spazio per radicarsi [48], in contrapposizione al processo irresistibile di delianze si tessono nuove rileanze...

    Riassumiamo

    La nostra società comporta due sotto-sistemi con le proprie dinamiche, strettamente interconnessi: un sotto-sistema scientifico ed un sotto-sistema sociale.

    Il sotto-sistema scientifico è segnato dal trionfo della ragione semplificante o del paradigma semplificativo, per riprendere l’espressione di Edgar Morin: tende a produrre una conoscenza atomizzata, parcellizzata, riduttrice, in breve della delianza intellettuale.

    Il sotto-sistema sociale, può essere descritto come quello delle razionalizzazioni che slegano: caratterizzato dalla disintegrazione comunitaria, dallo smembramento “dei gruppi sociali” primari – la famiglia, il villaggio, la parrocchia, l’officina - e da applicazioni irragionevoli della ragione scientifica, tecnica, sociale e culturale: produce delianza esistenziale in molteplici dimensioni (psicologica, sociale, economica, ecologica, ontologica, cosmica).

    Aspirazioni di rileanza

    Di fronte a questo doppio processo di delianza - intellettuale ed esistenziale - nascono aspirazioni a nuove ri-leanze, contemporaneamente scientifiche ed umane.

    Ri-leanze scientifiche: sono auspicate da diverse parti nuovi legami tra teoria e pratica, ricerca ed azione, tra discipline troppo spesso divise.

    Ri-leanze umane: sono rivelatrici di aspirazioni di questo tipo, l’attrazione esercitata dalle sette, le comunità, le lotte nazionali, il movimento ecologista, i gruppi d’incontro, in breve questa rinascita di una sorta di neo-tribalismo messo in evidenza da Michel Maffesoli [49].

    La delianza, paradigma della modernità

    La modernità, fondata sullo slancio della ragione, si è costruita - lo abbiamo visto - sul principio di separazione, o di divisione: dividere per comprendere (Descartes), dividere per produrre (Taylor), dividere per regnare (Machiavelli). Ragione astratta ed irragionevole, essa è diventata fonte di molteplici delianze: culturali, urbane, familiari, religiose, ecologiche ecc., in breve di quella solitudine esistenziale denunciata da diverse parti (Riesman, Camus, Buber...), di quella “de-solazione” stigmatizzata da Hannah Arendt. In qualche modo il paradigma di delianza sta al cuore della modernità trionfante, ad un tempo fattore del suo trionfo e generatore della fragilità di quest’ultimo.

    La rileanza, paradigma della post-modernità?

    Michel Maffesoli difende con forza la tesi seguente: se il paradigma di delianza struttura la modernità, la post-modernità, in rivalsa, dovrebbe essere caratterizzata dalla rivitalizzazione del paradigma di rileanza.

    Questa tesi l’ha esposta, sostenuta e perorata nei suoi numerosi lavori [50]. Non è lui che definisce la “rileanza” come “l’impulso stupefacente che spinge a ricercarsi, a riunirsi, a rendersi all’altro” [51] e che evoca “questa cosa ‘arcaica’ che è il bisogno di rileanza” [52]? Per lui, le manifestazioni di questa logica di rileanza in atto nella società post-moderna sono molteplici, varie e significative. Egli annovera in particolare fra esse il ritorno delle tribù, l’esacerbazione dei corpi e dei sensi [53], l’ideale comunitario [54], l’aumento dell’ecologia, la vitalità della socialità, l’idea ossessiva di essere insieme [55], le identificazioni soppiantanti le identità, il presentismo, il carpe diem [56], l’immoralismo etico, il lococentrico che s’innalza di fronte all’egocentrico, la barocchizzazione del mondo, la pregnanza delle immagini [57], il ruolo del look e della moda, l’esacerbazione della mistica e della religione [58], il regno di Dioniso che lo rilega succedendo a quello di Apollo che lo slega. Inserendosi nella movenza delle idee sviluppate da Gilbert Durand e da Edgar Morin, individua nella post-modernità e nella sua effervescenza la fine della separazione tra natura e cultura, l’emergenza del “divino sociale” [59], l’espansione della rileanza come forma profana di religione, una sorta di trascendenza immanente [60].

    La coppia concettuale delianza/rileanza, paradigma “duale” della ipermodernità

    Per l’essenziale, condivido quest’analisi. D’accordo per riconoscere che la rileanza si situa al cuore di questa dinamica “post-moderna” cara a Michel Maffesoli e ad alcuni altri. Progetti e pratiche di rileanza come reazione dialettica agli eccessi della modernità che slega. Ma riconosco di non apprezzare molto questa teoria “della post-modernità”, che sembra suggerire – non fosse che semanticamente - che ad una modernità che declina succederebbe “una post-modernità” che collega. In sostanza la logica che slega, anche se genera molte reazioni dialettiche. Quindi sono piuttosto propenso a parlare della società emergente come un esempio di “iper-modernità”, termine costruito sullo stesso modello di quello di “ipercomplessità” sviluppato da Edgar Morin [61] e di “impresa iper-moderna” avanzata da Max Pages [62] per descrivere realtà in gestazione in seno anche alla modernità, e della sua cultura fondata su una logica di delianza.

    Al cuore di questa “iper-modernità”, credo di osservare l’emergenza di un nuovo paradigma, quello della coppia concettuale indissociabile delianza/rileanza, sintesi dialettica (o paradosso dialogico) della modernità che slega e della post-modernità che collega. Delianza e rileanza sono ontologicamente inseparabili, formano una coppia “duale” [63] come il giorno e la notte, Yin e Yang, l’amore e l’odio, il motore ed il freno, il divieto e la trasgressione, il centro e la periferia ecc.

    Le mie ricerche e riflessioni più recenti mi hanno indotto a considerare che più che il solo concetto di rileanza, era la coppia concettuale delianza/rileanza che poteva meglio spiegare le realtà umane contemporanee: la rileanza non può - teoricamente e praticamente - essere dissociata dalla delianza, il suo doppio antagonista e complice. La rileanza è una realtà “duale”, dialogica [64] e paradossale: con la delianza, che le è sempre legata, forma una coppia soggetta a logiche diverse e complementari, tutte e due necessarie all’esistenza della vita psichica, sociale e culturale.

    Finalmente, tenendo presente ciò che ho appena detto contemporaneamente sulla dualità del complesso concettuale delianza/rileanza e sulla nozione d’iper-modernità, ho voglia di slegare le due parti di quest’ultima e di avanzare - in modo un po’ caricaturale, ne convengo - l’idea che, nel suo ambito, un doppio paradigma è in atto: quello di rileanza per l’ “iper”, quello di “delianza” per la “modernità” sempre attiva. Il paradigma etico dell’iper-modernità sarebbe dunque quello di delianza/rileanza.

    Questo paradigma rifletterebbe le problematiche particolari delle società iper-moderne segnate dall’effimero, dal mobile, dal leggero, dallo sfuggente, dal surf, dalla dilatazione dello spazio (ciascuno potenzialmente collegato a tutti i punti del mondo) e dal restringimento del tempo (l’intensità del momento presente): slegare costrizioni disfunzionali, collegare coloro che provano il lucido bisogno di una tale “rileanza”.

    SULLA “LEANZA”


    Rimane allora la questione del terzo termine, della terza nozione sociologica che viene a completare il nostro triangolo concettuale: la “leanza”.

    Da dove scaturisce, e quale può essere il suo significato epistemologico?

    Il segreto della “leanza”

    È Jos Tontlinger che è stato il primo a notare [65] la stupefacente assenza, nei miei primi scritti, della nozione di “leanza”, antenato probabile comune dei termini “de-lianza” e “ri-leanza”. Questo termine costituisce logicamente la radice semantica di questi ultimi. Tanto la “de-lianza” quanto la “ri-leanza” suggeriscono l’esistenza di un legame antico (l’enigmatica “leanza”), che sarebbe stata distrutto e che si tratterebbe di trovare al fine di riconquistare la leanza persa (o resa un fantasma), atti di ri-leanza sarebbero posti, mossi da un desiderio di ri-leanza, di superare le de-lianze subite...

    Ma allora quale sarebbe questo stato precedente, questa situazione di pre-delianza, questa “leanza” originaria? Alla questione, Francine Gillot-de Vries, psicologo specialista dello sviluppo del bambino, apporta un principio di risposta ed apre un campo di riflessione potenzialmente fertile quando evoca [66] la “leanza” fisica e psichica che unisce di fatto “questo stato di benessere provato nel ventre materno” che va ad interrompersi al momento della nascita, in questa prima e brutale “de-lianza” fisica e psichica, in questa sorta di “de-lusione”, dialetticamente e dialogicamente legata all’evento del concepimento. La “leanza”, stato del feto fuso e fondente con la madre, crescita di un essere indistinto ma che tende a distinguersi, è dunque contemporaneamente fisico e psichico: fisico per rispondere alle leggi della biologia, psichico in ciò che costituisce una delle caratteristiche specifiche della maternità. Avanzando così l’idea di uno stato e di un processo di “leanza”, la psicologia non è in grado di arricchire la teoria sociologica di rileanza? Non potremmo considerare che, all’inverso della rileanza definita dalla creazione o dalla ricreazione di legami sociali mediatizzati, la leanza riguarderebbe principalmente legami umani immediati, non mediatizzati (o mediatizzati da una delle componenti del legame stesso: il corpo della madre, il cordone ombelicale)? In altri termini: il corpo materno costituirebbe una struttura di (ri)-leanza senza mediatore terzo. Senza dubbio, alcuni saranno tentati di parlare di rileanza fondente, espressione non esente dalle contraddizioni concettuali (nella misura in cui rileanza, in una prospettiva normativa, – tale è almeno la mia concezione – sarebbe caratterizzata dall’accettazione della separazione, delle differenze della solitudine... in breve di delianze inevitabili): a tale riguardo, il termine “leanza” sembra più pertinente per spiegare la realtà fisica e psichica vissuta durante la gravidanza dalla futura madre e dal futuro bambino. Dando seguito a quest’esperienza, la nascita non può trascurare di essere provata come una doppia scossa: la fine di un mondo e la creazione di un nuovo mondo, l’uscita dall’esistenza intrauterina e l’entrata nella vita, l’addio alla leanza e l’esperienza di delianza. Doppio choc che da allora nutrirà la nostalgia dei tempi passati, le permanenti ricerche di rileanza radicate in questo vissuto di de-lianza e il successivo bisogno di ri-leanza: tutta la vita dell’individuo non è segnata dal desiderio potente di trovare il paradiso perduto della leanza originale, dall’utopia dell’eterno ritorno a questa unione simbiotica, con l’insaziabile ricerca di questa relazione privilegiata per sempre in fuga (e nascosta) lungo una serie di passi coscienti ed inconscienti, attraverso il sesso, la religione, la natura, l’arte, le droghe, la meditazione ecc.? L’unione è sognata come beatitudine, la separazione temuta come minaccia. E tuttavia non cessiamo di allontanarci dall’una (la leanza) per affrontare l’altra (la delianza). La necessità di diventare un essere distinto (slegato), liberato dai legami che legano, è così pregnante dal desiderio di fondersi per sempre (desiderio di leanza... e dunque di ri-leanza).

    La comparsa di questo nuovo concetto di “leanza”, in particolare sotto l’impulso di psicologi, suscita un eco affascinante quando ascoltiamo le opinioni del sociologo e filosofo Edgar Morin [67]. Anche lui fa apertamente appello all’idea di “leanza”. Ma, fedele alle sue scelte epistemologiche, è tentato di assegnarle un senso metafisico-cosmogonico: per lui, questa nozione evoca il vuoto primitivo, un’entità primordiale caratterizzata da uno stato di indifferenziazione. Evocando la Kabala, (“il ritiro di Dio porta la rottura dei vasi di perfezione”), ci ricorda che all’inizio di questa è scritto: “All’inizio, Elohim separò la luce dalle tenebre”. Il nostro mondo dunque è molto segnato, fin dall’origine, dalla rottura e dalla separazione... atavismo che genera la nostra oscura aspirazione alla “ri-leanza”, a trovare qualche cosa non proprio identica, ma simile alla “leanza” originaria poiché il problema, secondo lui, è l’unione del distinto e dell’inseparabile: “Speriamo di ritrovare qualcosa da cui siamo ora separati, ma che ci renda inseparabili... La rileanza non abolirà la separazione, ma la trasformerà” [68].

    In ciò, le concezioni di Edgar Morin raggiungono la definizione normativa della rileanza sociale così come l’ho formulata varie volte: “La divisione delle solitudini accettate, lo scambio delle differenze rispettate, la riunione dei valori assunti, la sinergia delle identità affermate...”.


    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

    Opere

    Numerosi sono i lavori che trattano i diversi aspetti di rileanza. Il lettore interessato troverà un elenco di questi alla fine del secondo volume del libro più completo pubblicato sulla questione:

    Marcel BOLLE di BAL (a cura di), Voyage au coeur des sciences humaines. De la reliance, Parigi, Harmattan, 1996. Con contributi personali di René Barbier, Geneviève Dahan-Seltzer, Eugène Enriquez, Alain Eraly, Franco Ferrarotti, Vincent de Gaulejac, Francine Gillot-de Vries, Salvador Giner, Véronique Guenne, Vincent Hanssens, Monique Hirschhorn, Françoise Leclercq, Michel Maffesoli, Carlo Mongardini, Edgar Morin, Max Pages, René Passet, Guy Rocher, Renaud Sainsaulieu, Marc-Henri Soulet, Evelyne Sullerot, György Szell, Gabriel Thoveron, Liliane Voyé.

    Il primo libro destinato a questo concetto è stato: Marcel BOLLE de BAL, La tentation communautaire. Les paradoxes de la reliance et de la contro-culture, Bruxelles, Edit. De l’Université de Bruxelles, 1985.

    Fra i libri che trattano specificamente i temi della rileanza, si prenderà in considerazione più particolarmente, oltre quelli citati nell’articolo:
    Jean-Louis DARMS et Jean LALOUP, Interstances, communiquer à contre-sens, Louvain-la-Neuve, Cabay, 1983.
    Michel MAFFESOLI, Au creux des apparences. Pour une éthique de l’esthétique, Paris, Plon, 1990.
    Michel MAFFESOLI, La transfiguration du politique. La tribalisation du monde, Paris, Grasset, 1992.
    Michel MAFFESOLI, La contemplation du monde. Figures du style communautaire, Paris, Grasset, 1993.
    Edgar MORIN, Terre-Patrie, Paris, Seuil, 1993.
    Edgar MORIN, Mes démons, Paris, Stock, 1994.
    Edgar MORIN, Reliances, La Tour d’Aigues, Ed. de l’Aube, 2000.
    Renaud SAINSAULIEU, Des sociétés en mouvement. La ressource des institutions intermédiaires, Paris, Desclée de Brouwer, 2001.
    Evelyne SULLEROT, Pour le meilleur et sans le pire, Paris, Fayard, 1984.
    Gabriel THOVERON, Radio et télévision dans la vie quotidienne, Bruxelles, Ed. de l’Institut de Sociologie de l’ULB, 1970.

    Articoli dell’autore:

    Questo tema è stato sviluppato nelle sue diverse dimensioni con una cinquantina d’articoli. Non saranno riportati qui che i più significativi di essi.

    «Nouvelles alliances et reliance : deux enjeux stratégiques de la recherche-action», Revue de l’Institut de Sociologie, 1981/3, pp. 573_587.
    «Reliance : Connexions et sens», Connexions, 1981,n°33, pp. 9-36.
    «Société éclatée et nouveau travail social», Revue Française de Service Social », 1984, n°141-142, pp. 43-57.
    «Dédramatiser l’informatique: formation et stratégie de reliance», Bulletin de l’IDATE, Montpellier, mai 1986, pp. 155 ;160.
    «Aspirations au travail et expérience du chômage: crise, déliance et paradoxes», Revue Suisse de Sociologie, 1987/1, pp. 63-83.
    «Au cœur du temple: une expérience de reliance ou la tribu retrouvée», Sociétés, 1989/9, pp.11-13.
    «La reliance ou la médiatisation du lien social: la dimension sociologique d’un concept-charnière», in Le lien social, ( Actes du XIIIe Congrès de l’AISLF ) , Genève, Université de Genève, 1989, pp. 598-611.
    «Devoir-vieillir et vouloir-deveni», Revue Internationale d’Action Communautaire, Montréal, 1990, n°23/63, pp. 47-55.
    «De l’esthétique sociale à la sociologie existentielle: sous le signe de la reliance», Sociétés, 1992, n°36, pp. 169-178.
    «Maffesoli le réenchanteur: du creux des apparences au cœur des reliances» Cahiers de l’Imaginaire, 1992, n°8, pp. 143-156.
    «La reliance : enjeu crucial pour le travail social», i Marc-Henry Soulet (ed.), Essai de définition théorique d’un problème social contemporain,, Fribourg ( Suisse ), 1994, pp.41-57.
    «Pour une psychosociologie du syndicalisme», Revue Internationale de Psychosociologie, 1996, n°4, vol.III, pp. 151-162.
    «La consultance sociologique et socianalytique», in Claude Beauchamp (ed.), Démocratie, culture et développement en Afrique Noire , Paris , l’Harmattan, 1997, pp. 299-308.
    «Reliance, Médiance, Interstances: le R.M.I. de l’hypermodernité, Les Cahiers de l’Imaginaire, n° 14-15, ( Martine Xiberras ed.), 1997, pp. 119-126.
    «Transaction et reliance. La rencontre de deux concepts complémentaires», in M.F.Freynet, M.Blanc et G.Pineau (eds.), Les transactions aux frontières du social, Lyon, Chronique Sociale, 1998, pp.43-55.
    «Déliance, reliance, alternance: de la complexité initiatique ou de l’initiation à l’hyper-complexité», in Pierrette Lhez, Dominique Millet et Bernard Séguier (eds.), Alternance et complexité en formation. Education, Santé, Travail social, Paris, Ed. Seli Arslan, 2001, pp. 149-157.

    Per essere particolarmente completi, conviene citare quelli delle recenti opere dell’autore nel quale il lettore interessato potrà trovare ulteriori analisi articolate intorno alle nozioni di rileanza e di delianza:

    Wégimont ou le château des relations humaines. Une expérience de formation psychosociologique à la gestion (un séminaire de sensibilisation aux reliances), Bruxelles , Presses Interuniversitaires Européennes (PIE), 1998.
    La Franc-Maçonnerie, porte du devenir. Un laboratoires de reliances, Paris, Detrad, 1998.
    Les adieux d’un sociologue heureux. Traces d’un passage, Paris, L’Harmattan, 1999.
    Le sportif et le sociologue. Sport, individu et société, Paris, L’Harmattan, 2000 ( avec Dominique Vésir).

    Tesi e memorie aventi la rileanza come concetto di base

    Bernard de BECKER, Croyance et reliance. Le cas du New Age, Université Catholique de Louvain, Louvain-la-Neuve, 1996.
    Marie-France FREYNET, Exclusion et lien social. Eléments pour une approche des médiations du travail social, Université de Tours, Sciences de l’Education, 1992.
    Marie-Pierre GAYERIE, Dynamique de la reliance sociale. Approches sur quelques formes personnelles de la socialité chez les jeunes, Paris, Université de Paris V, Sorbonne, 1992.
    Jean-Louis LE GRAND, Etude d’une communauté à orientation thérapeutique. Histoire de vie de groupe, perspectives sociologiques, Paris, Université de Paris VIII, 1987.
    Frédérique LERBET-SERENI, De la relation paradoxale au paradoxe de la relation. Le travail du versus. Contribution à une éthique de l’accompagnement, Université de Tours, 1997.
    Jacqueline ROFESSART, De l’appropriation à la gestion des espaces de travail. Stratégies adaptatives au sein d’une organisation, Bruxelles, Université Libre de Bruxelles, Faculté des Sciences Psychologiques et Pédagogiques, 1984.
    Dominique VIOLET, Analogie et complexité, Université de Pau, 1999.


    NOTE

    [NdT] La prima parte del titolo, composta di tre parole, è volutamente non tradotta. Si tratta di tre termini quasi intraducibili in lingua italiana. In verità, anche in lingua francese persiste un problema gnoseologico-concettuale intorno a queste tre parole, che sono state create per indicare un concetto basilare riguardante il vincolo esistenziale, emotivo e culturale che spesso viene indicato, seppur impropriamente, con il termine legame (lien), oppure con legame sociale (lien social). Naturalmente, nel testo non possiamo mantenere inalterate le tre parole ‘alla francese’, vuoi per causa dei plurali, vuoi per tentare anche noi in lingua italiana la definizione, con nuovi termini, di concetti che ormai sembrano usati (ed abusati) sia nel linguaggio comune sia in quello specialistico. Pertanto, cercando di lasciare il più possibile inalterati la parola e il suo senso, renderò nel testo il terzo termine “liance” (legame, legatura, collegamento...) con il neologismo “leanza”, che richiama implicitamente “legame”, “alleanza”, ma anche “esistenza”. Per il secondo (déliance: slegatura, slegamento...) e per il primo – il più pregnante di significato psicologico, culturale e sociale per l’esistenza umana – (reliance: rilegatura, ricollegamento...) userò rispettivamente le parole “delianza” e “rileanza”, dove quest’ultima indica una vera e propria ripresa concettuale e processuale-storica che, a partire dai sedimenti culturali e psicologici del primo termine (liance), derivi necessariamente dall’interposizione storica del secondo (déliance). Su questa dinamica in effetti girerà tutto il senso del saggio, almeno per quanto mi è sembrato di capire a livello personale. Spero che mi si perdonerà questo ricorso, forse abusivo ma indispensabile, ai suddetti particolari neologismi, ed in ogni caso lascio trarre al lettore la migliore interpretazione del testo, richiamando autonomamente alla mente le parole originali usate dall’Autore, e persino il miglior uso di ulteriori e differenti termini che riterrà necessario e opportuno utilizzare per suo conto.

    1] Roger CLAUSSE, Les Nouvelles, Bruxelles, Editions de l’Institut de Sociologie, 1963.
    2] Id., p. 9.
    3] Id., p. 22.
    4] Jean STOETZEL, Etudes de presse, 1951, pp. 35-41.
    5] Cfr. In particolare Gabriel THOVERON, Radio et télévision dans la vie quotidienne, Bruxelles, Ed. de l’Institut de Sociologie, 1971, et Colette CALVANUS, Les mass-media au niveau de la religion bordelaise, Bordeaux, Thèse de doctorat, 1975.
    6] Maurice LAMBILLIOTTE, L’homme relié. L’aventure de la conscience, Bruxelles, Société Générale d’Edition, 1968.
    7] Id., p. 108.
    8] Id., p. 109.
    9] Ibid.
    10] Nel linguaggio corrente, esse sono anche le sole a vedersi riconoscere questo diritto : i dizionari, al verbo « relier » non scorgono che l’assemblaggio di cose o la messa in relazione di idee.
    11] Edgar MORIN, Introduction à la pensée complexe, Paris, ESF, 1990.
    12] Edgar MORIN, La Méthode.I. La Nature de la Nature Paris, Seuil, 1977, pp. 55 e 105 ; veder anche, più recentemente, Id., IV, Les Idées, leur habitat, leur vie, leurs mœurs, leur organisation , Seuil , 1994.
    13] Infatti delle cose possono essere rilegate senza che si tratti, in senso stretto, di un mezzo di trasporto o di comunicazione per gli uomini : le pagine di un libro (ma si parla allora di rilegatura e non di rileanza), le doghe di una botte, i punti di una figura geometrica. Rilegare, pertanto, è preso in un senso leggermente differente.
    14] Il termine esiste in inglese, dove significa «fiducia, sostegno, appoggio». Niente a che vedere, dunque, con il senso che intendo dagli. Almeno direttamente. Perché questo uso anglosassone contribuisce a mettere l’accento su ciò che può costituire un fattore importante di rileanza: la fiducia, il sostegno. Attenzione, tuttavia, a ogni assimilazione frettolosa, abusiva, abusata con le apparenze di questo falso affratellamento.
    15] Le équipes responsabili della redazione di due dizionari in gestazione, uno sul vocabolario sociologico, l’altro sul vocabolario psicosociologico, hanno espresso l’intenzione di farvi riferimento (estate 2001).
    16] Eugène DUPREEL, Traité de Morale, Bruxelles, Presses Universitaires de Bruxelles, 1967, vol. 1, p. 300.
    17] Michel MAFFESOLI, Le temps des tribus, Paris, Méridiens Klincksieck, 1988, p. 104.
    18] Nel senso che Dupréel accorda a questo termine.
    19] Nel quadro di un vasto programma interuniversitario di ricerche sulle aspirazioni della popolazione belga, la nostra équipe ha condotto uno studio, dal 1975 al 1981, pluridimensionale e pluridisciplinare su «le aspirazioni della rileanza sociale». Questo studio, il primo del genere su tale argomento, costituisce l’atto di nascita dell’esistenza socialmente e scientificamente riconosciuta del concetto di «rileanza». Il primo rapporto generale di ricerca, pubblicato sulla responsabilità scientifica, di Marcel Bolle De Bal e Nicole Delruelle e intitolato «Lea aspirations de la reliance sociale» (Bruxelles, Ministère de la Politique Scientifique, 1978) comprende sei volumi:
    - vol. 1 : Reliance sociale, recherche sociale, action sociale (Marcel Bolle De Bal)
    - vol. 2 : Reliance sociale et grandes organisations (Nicole Delruelle e Robert Georges)
    - vol. 3 : Reliance sociale et chômage (Anny Poncin)
    - vol. 4 : Reliance sociale et enseignement (Anne Van Haecht)
    - vol. 5 : Reliance sociale et médecine (Madeleine Moulin)
    - vol. 6 : Reliance sociale, reliance psychologique et reliance psycho-sociale (Armelle Karnas e Martine Van Andruel).
    20] Cfr. Edgar MORIN, Introduction à la pensée complexe, Paris, ESF, 1990.
    21] Raymond LEDRUT, in Bulletin de l’AISLF, n° 4, 1987, p. 135.
    22] Renaud SAINSAULIEU, in Bulletin de l’AISLF, n° 4, 1987, p. 138.
    23] Raymond LEDRUT, «L’analyse, critique du lien social: Nietzsche et la situation actuelle de l’anthropologie», in Bulletin de l’AISLF, n° 4, pp. 35-45.
    24] Marcel BOLLE DE BAL, Reliance sociale, recherche sociale, action sociale, op. cit., pp. 48-56.
    25] Michel Crozier sottolinea con forza che ogni relazione con l’altro implica elementi di potere e di dipendenza . Cfr. In particolare Michel CROZIER et Erhard FRIEDBERG, L’acteur et le système social, Paris, Seuil, 1977, pp. 178 et ss.
    26] Edouard TIRYAKIAN, «Vers une sociologie de l’existence», in Perspectives de la sociologie contemporaine. Hommage à Georges Grevitch, Paris, PUF, 1968, pp. 445-465.
    27] Marcel BOLLE DE BAL, «De l’esthétique sociale à la sociologie existentielle, sous le signe de la reliance», Sociétés, n° 36, 1992, pp. 169-178.
    28] Jean MAISONNEUVE, Introduction à la psychosociologie, Paris, PUF, 1973, p. 155.
    29] Marcel BOLLE DE BAL, La tentation communautaire. Les paradoxes de la reliance et la contre-culture, Bruxelles, Ed. de l’Université de Bruxelles, 1985.
    30] Cfr. In particolare F.E. EMERY et E.L. TRIST, «Socio-technical systems», in Systems thinking, (Edited by F.E. Emery), London, Penguin Books, 1969.
    31] Jacques BUDE, L’obscurantisme libéral et l’investigation sociologique, Paris, E. Anthropos, 1973, 221 p.
    32] Su questo punto, cfr. Max PAGES, La vie affective des groupes, Paris, Dunod, 1968, pp. 446-459.
    33] Si tratta di carenze nella mediazione istituzionale e strutturale che devono assicurare la creazione di legami tra l’individuo e i sistemi di cui fa parte, legami che danno senso alla sua esistenza. La ricerca condotta dalla nostra équipe per una ventina d’anni mette in evidenza tre categorie di queste carenze : carenze legate alla disorganizzazione delle strutture socio-economiche (mercato del lavoro), carenze legate alla superorganizzazione delle strutture tecno-burocratiche (sviluppo delle istituzioni-cose), carenze legate all’organizzazione delle strutture sociopsicologiche (crisi dell’autorità).
    34] Il y a PRIGOGINE e Isabelle STENGERS, La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la Science, Paris, Gallimard, 1979.
    35] Edgar MORIN, La Méthode, Paris, Seuil, t.: La Nature de la Nature, 1977; t. 2: La Vie de la Vie, 1980, in particolare p. 373; t. ; La Connaissance de la Connaissance, 1986 ; t. 4. Les Idées, leur habitat, leur vie, leurs mœurs, leur organisation, 1991.
    36] Michel CROZIER e Erhard FRiEDBERG, L’acteur et le système, Paris, Seuil, 1977 ; Alain TOURAINE, La voix et le regard, Paris, Seuil, 1978.
    37] Cfr. Marcel BOLLE DE BAL, Les adieux d’un sociologue heureux. Traces d’un passage, Paris, L’Harmattan, 1999, p.137.
    38] Cfr. F. E. EMERY et E.L. TRIST, art. citato.
    39] Vedere in particolare Gérard MENDEL, Pour recoloniser l’enfant. Socio-psychanalyse de l’autorité, Paris, Payot, 1971.
    40] Max PAGES, La vie affective des groupes, Paris, Dunod, 1970, pp. 470-494.
    41] Elliot JAQUES, Intervention et changement dans l’entreprise, Paris, Dunod, 1972. Cfr. In particolare la prefazione di Jean DUBOST : « Sur la méthode socio-analytique d’Elliot Jaques ».
    42] Cfr. Alain MEIGNANT, L’intervention socio-pédagogique dans les organisations industrielles, Paris-La Haye, Moulin, 1972; René BARBIER, La recherche-action dans l’institution éducative, Paris, Gauthier-Villars, 1977.
    43] Vedere in particolare Eugène ENRIQUEZ e altri, L’approche clinique dans les sciences humaines, Montréal,, Ed. Saint-Martin, 1993; Vincent de GAULEJAC e Shirley Roy, Sociologies cliniques, Paris, l’Epi, 1993.
    44] Michel CROZIER e Erhard FRIEDBERG, op. cit.
    45] Alain TOURAINE, op. cit.
    46] Jacques e Marie VAN BOCKSTAELE, «Quelques conditions d’une intervention de type analytique en sociologie», Année sociologique, 1963, pp. 238-262 ; «Nouvelles observations sur la définition de la socianalyse», Année sociologique, 1968, pp. 279-295.
    47] L’oggetto sociologico in gestazione subisce così una mutazione comparabile a quella che ha marcato il passaggio dall’oggetto dinamico all’oggetto termodinamico : per quello, che implica un punto di vista nuovo sulle trasformazioni fisiche, « non si tratta più di osservare un’evoluzione, di prevederla calcolando l’effetto dell’interazione tra elementi del sistema. Si tratta d’agire sul sistema, di prevedere le sue reazioni ad una modificazione imposta ». Cfr. Ilya PRIGOGINE e Isabelle STENGERS, op. cit., p. 121.
    48] André GORTZ, Adieu au prolétariat. Au-delà du socialisme, Paris, Galilée, 1980.
    49] Michel MAFFESOLI, Le temps des tribus, Paris, Méridiens Klincksieck, 1988.
    50] In particolare in Temps des Tribus (T.T.), op. cit. Au Creux des Apparences (C.A.), Paris, Plon, 1990 ; La Transfiguration du Politique (T.P.), Paris, Grasset, 1992 ; La Contemplation du Monde (C.M.), Paris, Grasset, 1993.
    51] T.P., p. 41.
    52] C.M., p. 151.
    53] C.A., p. 66.
    54] C.M., p. 18.
    55] C.A., p. 28.
    56] C.A., p. 48 ; T.P., p. 18.
    57] C.M., pp. 21, 131, 165.
    58] C.A., pp. 27, 83, 84, 195, 215 ; T.P., p. 137.
    59] C.M., p. 104.
    60] C.A., p. 27.
    61] Edgar MORIN, La Méthode. III. La connaissance de la connaissance, Paris, Seuil, 1986, pp. 98-99.
    62] Max PAGES, Michel BONETTI, Vincent de GAULEJAC, Daniel DESCENDRE, L’emprise de l’organisation, Paris, PUF, 1979.
    63] Duale: numero intermedio tra il singolare e il plurale, che esiste in numerose lingue (greco, sloveno, ebreo ecc. ). Questo numero designa ciò che si indica con due, e forma tuttavia un insieme, due che formano un tutto, un’entità in due parti, i due occhi, le due mani, la felicità e la disgrazia, l’ombra e la luce, la vita e la morte, l’ignoranza e la conoscenza ecc. Il pensiero « duale », estraneo alla nostra cultura, è pertanto essenziale per ogni lavoro d’interpretazione e d’intervento sociologici. Per esso, ciò che oppone unisce, ciò che unisce oppone, ciò che lega scioglie, ciò che scioglie lega.
    64] Dialogico: «associazione complessa (complementare, concorrente, antagonista) d’istanze necessarie all’esistenza di un fenomeno complesso» (Edgar MORIN, , op. cit. 1986, p. 98); «unità simbiotica di due logiche che si nutrono l’una dell’altra, si fanno concorrenza, sono mutualmente parassitarie, s’oppongono e si combattono a morte» (Edgar MORIN, op.cit., 1977,p. 80).
    65] Jos TONTLINGER, «Du côté de la psychanalyse: reliance, déliance, liance, ou la vie secrète d’un concept original et originaire», in Marcel BOLLE DE BAL (ed.), Voyages au cœur des sciences humaines, op. cit., t. 1, pp. 189-195.
    66] Francine GILLOT-de VRIES, «Du côté de la psychologie: reliance et déliance au cœur du processus d’individuation», in Marcel BOLLE DE BAL (ed.), op. cit., tome 1, pp. 181-188.
    67] Edgar MORIN, «Vers une théorie de la reliance généralisée?», in Marcel BOLLE DE BAL (ed.), op. cit., tomo 1, pp. 315-326. 68 Id., pp. 324-325.


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