Santé mentale et imaginaire social à l'âge de l'inclusion sociale
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.4 Octobre-Décembre 2006
LA SALUTE SOCIALE: LIBERTÀ REMITIFICANTE E DESIDERIO D'ISTITUENTE
Orazio Maria Valastro
valastro@analisiqualitativa.com
Dottorando di Ricerca all'IRSA-CRI
(Institu de Recherches Sociologiques et Anthropologiques -
Centre de Recherches sur l'Imaginaire) presso l'Università
degli Studi ''Paul Valéry'' di Montpellier, prepara una tesi
su "Narrazione di sé e immaginario sociale: biografia e mito
biografia nella creazione auto poietica di sé"; Laureato in
Sociologia (Università degli Studi René Descartes, Parigi
V, Sorbona); Esperto in Formazione Autobiografica e nelle
Scritture Relazionali di Cura (Libera Università dell'Autobiografia
di Anghiari), Cultore in Campo Autobiografico (Libera Università
dell'Autobiografia di Anghiari), Perfezionato in Promozione
Sociale e Prevenzione dell'Esclusione (Università degli Studi
Carlo Bo, Urbino) e in Teoria e Analisi Qualitativa nella
Ricerca Sociale (Università degli Studi La Sapienza, Roma);
Specializzato in Mediazione Sociale (Scuola Internazionale
di Mediazione Sociale, Società Italiana di Sociologia); Fondatore,
Direttore Editoriale e Responsabile della rivista elettronica
in scienze umane e sociali "m@gm@"; Collaboratore e Membro
del Comitato Scientifico della "Revue Algérienne des Etudes
Sociologiques", Université de Jijel-Algeria; Sociologo e Libero
Professionista, Studio di Sociologia Professionale (Catania),
collabora con Enti Locali, Istituti Professionali di Stato
e realtà della Cooperazione Sociale e del Terzo Settore, in
attività di ricerca sociale, formazione, progettazione e realizzazione
d'interventi in contesti sociali e culturali, nel settore
dei servizi alla persona e le politiche di lotta contro l'esclusione
sociale; associato AIS (Associazione Italiana di Sociologia);
Socio Fondatore e Vice-Presidente Associazione Le Stelle in
Tasca.
L’ultimo
numero trimestrale del 2006, dedicato alla salute mentale
e all’immaginario, ci permette di riflettere sulle pratiche
cliniche e sociali di cura, di prevenzione e promozione del
benessere personale e sociale, interrogandoci al tempo stesso
sulle rappresentazioni dell’umanità e del suo divenire. Collocando
questa riflessione nell’era dell’inclusione sociale, demarcata
dalle moderne politiche sociali di lotta all’esclusione, distinguendola
pertanto dall’età classica caratterizzata dalla reclusione
e dall’esclusione delle persone più fragili delle nostre comunità,
possiamo considerare l’evoluzione della nozione e del modello
della salute mentale e le sue implicazioni nel modo di concepire
e pensare la salute, il bisogno di vigilare e contenere l’esistenza.
Il paradigma della salute mentale come chiave di lettura della
società contemporanea pone in primo piano la sofferenza, quelle
sofferenze che non siamo più in grado di nascondere ed occultare,
il sentimento della nostra vulnerabilità nel rapporto con
la temporalità, le fasi della nostra vita e l’ineluttabilità
del nostro declino, nella relazione con l’alterità peculiare
degli altri e del mondo che ritroviamo in noi stessi. Malattia
mentale e disagio psichico diventano nozioni e soggetti subordinati
all’immagine del cittadino in difficoltà che soffre, il processo
di riforma delle istituzioni designate al trattamento della
follia trasforma l’alienato di ieri in un attore da includere
e integrare nel tessuto sociale, individuo consapevole ma
responsabile della sua salute. Diritti di cittadinanza e centralità
della persona, principi cardine dell’intervento professionale
nei contesti sociali e culturali, sostengono nuovi ed inediti
processi d’inclusione sociale delle persone in difficoltà
con disagio emotivo e fisico, sociale e culturale, sofferenze
psichiche e disagi esistenziali.
Malgrado ciò i conti non mi tornano. Le mie esperienze personali
e familiari mi dimostrano altro. Diritti di cittadinanza negati
segnalano forme di partecipazione sociale e culturale condizionate
dalle risorse e dalle opportunità personali e familiari, dal
contesto in cui viviamo, dove inclusione è sinonimo di costruzione
di nuovi rapporti e legami sociali compatibili al sistema
di relazioni e di potere nel quale ci collochiamo. Il disagio
psichico subordinato al paradosso dell’esserci, il risiedere
ed il manifestarsi della persona e della sua sofferenza psichica
riscattata dall’allontanamento e dal rifiuto dietro barriere
materiali e istituzioni che ci auguriamo non siano più concepibili,
cela nuovi ripari e difese contro l’angoscia sociale del diverso
e l’inadeguatezza nel sostenere l’interazione tra i soggetti
più deboli e fragili e le nostre comunità. Le nuove logiche
di cura e integrazione delle persone in difficoltà, avvolte
da concetti e definizioni come pari opportunità, integrazione
e interazione sociale, possono introdurre ciò nonostante un
elemento di speranza. Una prospettiva ed una sfida che possiamo
cogliere valorizzando opportunamente l’immagine dell’accompagnare
e rifiutando qualsiasi forma moderna di reclusione, indicatore
di una possibile trasformazione delle politiche d’inclusione
sociale rispetto a situazioni e condizioni sociali ed esistenziali
in cui è necessario ridare e restituire agli individui la
capacità di possedere delle nuove aspettative, rinnovate progettualità
di vita, ricostruendo una nuova e inedita possibilità di superare
situazioni di paralisi ed immobilismo vitale, favorendo occasioni
d’incontro e interazione con il sociale che non siano condizioni
di subordinazione e dipendenza degli individui ma siano piuttosto
presupposti per una ritrovata autodeterminazione.
In questi anni è maturata una consapevolezza che mi ha autorizzato
a dare voce e parole a queste esperienze e riflessioni, riconoscendo
in un approccio sociologico e antropologico, in grado di dare
accoglienza e cittadinanza al nostro vissuto, la possibilità
di scoprire e oggettivare una soggettività generalizzata e
diffusa in grado di restituire agli individui e alle comunità
la capacità di organizzare e gestire consapevolmente la propria
condizione ed esistenza su questioni diverse, comprese quella
della salute e della qualità della vita. Una postura differente
rispetto alla costruzione di un oggetto scientificamente plausibile
dove, spesso, oggettivare è sinonimo d’esclusione ed espropriazione
simbolica dei soggetti. La negazione del processo d’autonomia
delle persone è fatalmente connessa ad un’altra e correlativa
forma d’esclusione nel pensiero occidentale, l’occultamento
dell’immaginario, la difficoltà di riconoscergli e attribuirgli
un ruolo ed uno statuto scientifico. L’emergere del ruolo
determinante delle immagini e dei simboli ridimensiona l’oggettività
costitutiva delle verità scientifiche del nostro secolo, avvertendo
la realtà perenne del mito finanche nel formarsi della nostra
società tecnologica. Negazione e rifiorimento del mito sussistono
in una prossimità palese mostrando uno spirito scientifico
che si combina con una costellazione d’immagini e di miti.
Esclusione e marginalità sono correlate nella costituzione
di un sapere e di un’epistemologia contemporanea dell’immaginario,
originate paradossalmente dal culto dell’oggettività. La dissimulazione
e l’esclusione dell’immaginario che opera in seno alla società
non ci permette di rinvenire il simbolismo nella società e
nella storia, quando il simbolismo si costruisce con la storia
delle società e ogni società di costruisce a partire dal suo
simbolismo.
La società che è in grado di accogliere consapevolmente l’immaginario
che la muove è una società in buona salute, capace di affrancarsi
da un pensiero ecumenico insofferente ai regimi dell’immagine.
Praticare l’immaginario, non limitandosi ad un’attività di
disincanto o demistificazione nei confronti dei miti che fondano
la nostra società, equivale piuttosto a liberare la tensione
dinamica degli antagonismi delle immagini, autorizzandoci
a riconquistare l’alterità delle costellazioni immaginarie,
riequilibrando tramite il dinamismo delle strutture delle
immagini le nostre dimensioni biologiche, psichiche e sociali,
riconquistando la speranza insita nella funzione fantastica
nel cogliere e migliorare la condizione delle donne e degli
uomini rinnovando la nostra visione del mondo. L’esistenza
d’equilibri psichici sociali, plurali e differenti, presuppone
l’immaginazione simbolica come dinamismo prospettico, fattore
d’equilibrio psicologico e sociale che c’interroga sulla salute
a partire da un’antropologia simbolica, nel tentativo di riequilibrare
la visione di noi stessi, la nostra relazione agli altri e
al mondo, sostenendo una maggiore comprensione di quella molteplice
complessità, differenziata e politeista, capace di mettere
in forma un universo sistemico, stimolando la tolleranza e
riabilitando la nozione d’equilibrio.
Il notevole contributo degli autori che hanno condiviso le
questioni sollecitate da questo numero tematico, una collaborazione
rilevante che innanzitutto mette in prospettiva saperi, pratiche
e conoscenze diverse, sostenendo ulteriormente il tentativo
della rivista di promuovere una collaborazione trasversale,
ci permette di cogliere due orientamenti dell’immaginario:
un immaginario simbolico dove prendersi cura di sé significa
autorizzarci a risvegliare e stimolare l’universo immaginale,
supporto esistenziale delle donne e degli uomini, entrando
in relazione con noi stessi e gli altri, riconciliando le
nostre visioni della condizione umana, della vita e della
morte, il legame con gli altri, il mondo e il cosmo, autorizzandoci
inoltre nel trasformare la nostra vita; ed infine, un immaginario
sociale, che ci aiuta a riconosce come ogni società istituita
presuppone un sociale istituente, rapportandoci al nostro
desiderio d’istituente come possibilità d’immaginare e rinnovare
il mondo.
Non mi sembra che viviamo in un’epoca più sensibile, comprensibile
o benevola, rispetto ad altre. Le politiche di lotta all’esclusione
ed i processi d’inclusione sociale non manifestano un nuovo
ideale cortese, manifestano piuttosto la possibilità di riconoscere
i limiti delle istituzioni operando nella consapevolezza del
potere istituzionalizzante. Il lavoro di de-istituzionalizzazione,
insieme alle pratiche di trasformazione, ci hanno rivelato
un cambiamento insito in questa prospettiva quando il mutamento
e l’innovazione dei saperi, delle pratiche e dell’organizzazione,
sottoposte al passaggio da un modello incentrato sulla malattia
ad un modello incentrato sulla salute, hanno generato il concepimento
d’istituzioni inventate che sembrano potenzialmente capaci
di differenziarsi dall’apparato istituzionale di origine.
Nel rapporto d’inerenza tra istituito ed istituente si situano
potenzialmente libertà e alienazione, contrastandosi in seno
a questi cambiamenti sociali, politici ed istituzionali, e
declinando la possibilità di condividere una cultura della
partecipazione nel riconoscimento dell’autodeterminazione
delle persone come forma concreta di contrasto all’emarginazione
e al disagio sociale nel settore della salute mentale.
Non possiamo fare a meno di considerare, nell’opposizione
tra i modelli gerarchici dell’istituzione e le logiche orizzontali
e trasversali delle reti, una delle molteplici configurazioni
che generano un’ulteriore sollecitazione verso un cambiamento
partecipato, sebbene siano determinanti e condizionanti i
saperi dominanti. Avendo tuttavia avviato, partendo da queste
nuove logiche, un processo di rielaborazione di quelle istituzioni
fondate sulla separazione della malattia mentale dal corpo
e dall’esistenza dei pazienti, luoghi di separazione degli
individui dal corpo sociale, e sebbene strutture moderne come
i centri diurni e le strutture semiresidenziali che si caratterizzano
come laboratori protetti rischiano al contrario d’invalidare
e ostacolare la ricerca d’autonomia ed equilibrio psico sociale,
sembra oggi possibile immaginare e inventare un’altra istituzione
che nasca proprio da questo processo alternativo all’istituzionalizzazione,
uno spazio sociale per la promozione della salute mentale
e del legame sociale. Un tale conflitto non concerne unicamente
uno scontro tra modelli, da quello incentrato sulla malattia
a quello incentrato alla salute, ma è altresì un'assunzione
di responsabilità verso il corpo sociale per rimettere in
discussione il presente e le istituzioni esistenti, siano
queste propriamente politiche o che portino sulla concezione
del mondo.
Una socio-antropologia del profondo ci sostiene ulteriormente
nel focalizzare e contrastare il tentativo della modernità
di trasformare l’esistenza quotidiana in esistenza razionale
nel mondo, una trascendenza del sé nel processo d’individuazione
con un’accezione negativa alla quale contrapporre la manifestazione
dell’invisibile e del mitico che s’incarna nelle nostre anime,
ridimensionando una visione propria alla cultura occidentale
incapace di riconoscere il valore della trascendenza delle
immagini degli individui e delle società. Ritengo pertanto
importanti e fondamentali i molteplici rimandi da parte degli
autori sulla funzione simbolica rispetto alla salute mentale,
sul ruolo dell’immaginazione creativa che riconosce nell’immaginario
non una funzione irreale e ingannevole ma una funzione creativa,
una concreta modalità per immaginare una trasformazione prendendoci
cura di noi stessi e della nostra storia, rielaborando un
nuovo ed inedito rapporto ed equilibrio tra realtà psichica
e realtà sociale. La questione del ritrovare una nuova armonia
collocandoci nella complessità che ci costituisce, rivalutando
la funzione dell’immaginario nella ristrutturazione di un
nuovo ordine interiore, insieme al processo creativo e di
ricerca di senso della funzione fantastica, c’interroga infine
sulla vocazione dell’immaginario come forma a priori della
speranza nella narrazione e nella poetica di sé in grado di
ripensare l’esistenza senza scartare, medicalizzare o anestetizzare
la sofferenza, costitutiva della nostra condizione umana ma
ridando equilibrio ed armonia alla sofferenza.
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