Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
VERSO UNA VISIONE SOPRANNATURALE DELLA FOLLIA
(Traduzione Marina Brancato)
Mabel Franzone
mabel.franzone@wanadoo.fr
Dottorato in Lingua Spagnola,
Università degli Studi di Censier, Parigi III, Diploma di
Studi Approfonditi Latino Americani IHEAL, Parigi III, Laurea
di Studi Latino Americani IHEAL, Parigi III; dal 2002 membro
dell'Istituto Internazionale di Letteratura Ibero-Americana
IILI-Pittsburgh, dal 1993 membro del Centro di Studi sull'Attuale
e il Quotidiano CEAQ, Parigi V, e del Centro di Ricerche Interdisciplinari
sulla Cultura e le Civilizzazzioni Ispano-Americane.
A mia
sorella Mary e alla mia amica Brigitte - folli d'amore - in
memoriam. A loro cui non ho saputo dare l'aiuto né il sostegno
di cui avevano bisogno.
Pensare la follia diversamente
La nostra scelta è di porre quest’articolo sotto il segno
della speranza, un modo di evocare la follia per farla uscire
dagli schemi dell’esclusione e della vergogna veicolati dalla
Modernità europea. In effetti, basta leggere Michel Foucault
e la sua Storia della follia nell'età classica (Foucault,
1972) per cogliere il grado dell'orrore che vive chi è considerato
"folle". Foucault se ne rende conto benissimo: il tono è dato
fin dal primo paragrafo del primo capitolo, dove spiega come
il ruolo svolto dalla lebbra nel Medioevo fu lo stesso assunto
in seguito dalla follia, cioè l'esclusione (Foucault, 1972,
p. 13). Un'esperienza personale mi lascia pensare che nulla
sia cambiato: mi è capitato di dover accompagnare un'amica
all'ospedale Sainte Anne di Parigi. Si trovava in attesa di
divorzio. Logicamente presentava alcuni sintomi di "depressione",
di lacerazioni con la "realtà", desideri di morire, indifferenza
per il suo ambiente poiché troppo concentrata sul suo dispiacere,
sulla sua rottura. Ciò è ben noto: la situazione di separazione
si accompagna ad impulsi di morte, ed è tale che sembra si
sopportino tutte le sofferenze del mondo. Per alcuni, il malessere
è piuttosto fisico e mentale, per altri il mentale prende
proporzioni rare. Ma dobbiamo tenere conto del fatto che il
male è soprattutto emozionale, e quindi molto difficile da
incanalare.
All'ospedale, ci diedero due soluzioni: o la si lasciava lì
"sul campo" per imbottirla di medicine, o si dava il recapito
telefonico di suo marito affinché il gruppo medico potesse
chiedergli l'autorizzazione a ricoverarla. Lasciarla ricoverare,
abbrutire con rimedi da cavallo, che in realtà non tranquillizzano
per niente, ma lasciano il soggetto senza reazione, abitato
da allucinazioni, da una sete irrefrenabile e da incubi senza
fine. Cioè quando l’essere è sul cammino del non essere. Ci
davano due possibilità, entrambe coercitive e con un solo
e simile risultato: il ricovero. Ciò che Foucault stesso chiama
"sorvegliare e giudicare". Ho dovuto farmi garante della mia
amica, firmare un documento, mentre lei stessa ne firmava
un altro liberando l’ospedale da qualsiasi responsabilità.
Ciò accade quattro anni fa ed ancora oggi ne ridiamo, felici
che abbia potuto "salvarsi". E non si tratta di un caso isolato,
ascolto spesso gente dire scherzando che si ha timore di andare
all'ospedale, quando si è depressivi o depressi.
Il sistema degli ospedali psichiatrici era identico in Argentina.
Mia sorella, depressa a seguito di un dispiacere d'amore,
dovette fuggire per evitare gli elettroshock. Mi ricordo che
arrivò un giorno in camicia di notte a casa, dopo aver attraversato
con vestiti intimi tutta la nostra piccola città ultraborghese.
Era più che abbastanza perché divenne la bestia nera della
società immobile di questa provincia oligarchica. Gli rimproveravano
d’essere "anormale", di "non controllarsi", di non comportarsi
come "una persona giudiziosa", "di non comprendere il proprio
marito", di non accettare la "realtà".
Ed è attorno a questo concetto di realtà che si gioca tutto:
la libertà e la normalità. Infatti, la difficoltà che troviamo
a separare chiaramente ragione e pazzia risiede nell'ambiguità
che ricopre il termine "realtà". La follia, si dice, si rivela
quando colui che si considera come malato esce dalla realtà.
Vive oltre di essa, nutrendosi di visioni o finzioni, le sue
parole diventano un delirio uscente dalle "rotaie" dell'obiettività
"sana" (Tribolet, 2005, p. 5). Ma molto spesso la pazzia va
insieme con una grande intelligenza e ipersensibilità. Certamente
il termine "intelligenza" per essere definita urta contro
la stessa difficoltà della nota "realtà". Mia sorella, psicologa
di formazione, rivelò di disporre di una logica matematica
avanzata, ed in occasione dei suoi ultimi anni d'università,
un epistemologo ne fece la sua assistente di corso. È tutto
ciò che posso dire considerando la sua intelligenza.
A volte mi chiedo se tutto non gira che attorno a queste due
parole. Riprenderò qui una tematica propria del contemporaneo,
quella di un ritorno possibile delle vecchie tradizioni e
dei vecchi parametri culturali, per scoprire ulteriori pensieri
sulla follia. Cioè invocare un'unità, termine portatore in
se stesso di una pluralità di voci collegate forse da qualcosa
che oltrepassa, qualcosa che vada oltre la ragione propria
del pensiero "unico". Esplorare altri tipi di pensieri avrebbe
il merito di tentare di comprendere ed ascoltare inizialmente
il discorso sulla follia, facendo arretrare il più lontano
possibile i limiti della psiche, impegnandosi sulle vie inesplorate
del cuore. Vedere, quindi, il "malato" come una totalità,
rispettandone il grande mistero dell’essere con ciò che egli
ha di trascendente e d’incomprensibile. I misteri del cuore
umano sono insondabili.
Il delirio
Serge Tribolet [1] ci ricorda
che, per il senso comune, il delirio è qualcosa d’insensato,
privato di ragione. La definizione psichiatrica è diversa:
"disordine del contenuto del pensiero". Le idee deliranti
sono descritte come idee false e senza base alle quali il
paziente presta una fede assoluta "non sottoposte alla prova
ed alla dimostrazione, non rettificabili con il ragionamento".
Le idee deliranti sono generate o mantenute da meccanismi
psichici che costituiscono diverse modalità d'apprensione
della realtà. Questi meccanismi del delirio sono l'interpretazione,
l’allucinazione, l'immaginazione. In funzione della prevalenza
dell'uno o l'altro di questi meccanismi, la psichiatria distingue
i deliri d'interpretazione (paranoia), i deliri immaginativi
(parafrenia) ed i deliri d’allucinazione (schizofrenia). Un
delirio può comparire durante molte situazioni psicologiche,
malattie psichiatriche o malattie d'origine organica. Negli
ultimi casi, i principali sintomi sono visivi sotto forma
d’allucinazioni. Il malato vede personaggi, animali, delle
creature venute da nessuna parte, che siano ibridi mitologici,
fatati e ugualmente ibridi. Mi chiedo allora dove si situano
i casi che hanno segnato le letterature, come quelli sollevati
da Jorge Luis Borges nel suo Libro de Los Seres Imaginarios
(Borges, Guerrero, 1983). Qui sono citati "un animale sognato
da Kafka", "gli angeli di Swedenborg", il mostro Achéron "visto"
dal giovane Tundal, gli angeli della visione di Ezechiele
della Bibbia, ecc.. L'elenco è lungo e possiede la virtù di
comprendere visione e rivelazione come parametri di conoscenza,
poiché presenta nel cuore dell'immaginario lo stesso status
degli esseri delle mitologie del mondo intero e quelli generati
da individui, cioè quelli prodotti dall’inconscio collettivo
e individuale. Mi chiedo cosa ci resta di Gérard de Nerval
o di Antonin Artaud ed anche di Augusto Strindberg o di César
Vallejo. L'elenco di quelli che scrissero e soffrirono sotto
l'impulso della brillante paranoia del divino è lunghissimo.
Queste cornici della pazzia non fanno che allontanare le manifestazioni
distanti dalla sacrosanta ragione. Molti tra noi hanno già
avuto ed hanno allucinazioni, visioni ed una certa dose di
paranoia. Più pertinente è il trattamento dell'allucinazione
dato dai filosofi dell'antichità greca che non la riducono
ad un semplice sintomo della malattia mentale, senza tuttavia
confonderla con una mancanza di percezione, due errori della
psichiatria classica (Tribolet, 2005, p. 14). Infatti, i greci
parlavano di mania e, nel corso del Medioevo e del Rinascimento,
i filosofi non esitavano a parlare di pazzia. Quando la follia
viene esclusa dal campo della medicina s’inizia a parlare
di malattia mentale. Il concetto di schizofrenia fu proposto
nel 1908 per sostituire quello di demenza precoce utilizzato
nel XIX secolo. La sua origine etimologica è il termine greco
schizein - separare - e phrên - spirito. Quando nel 1952 è
introdotto l'impiego neurolettico, rimedio utilizzato per
la schizofrenia, le teorie biologiche propongono argomentazioni
a favore delle perturbazioni della neuro-trasmissione cerebrale.
La genetica cerca nei geni le cause di alcuni tipi di schizofrenia.
Ciò è interessante, poiché i cromosomi del DNA di tutti gli
esseri viventi sono identici a differenza che, nell'essere
umano, ci sarebbe un piccolo segmento che si trova soltanto
in lui nel quale risiederebbe il grande mistero della schizofrenia
che, è esclusivamente umana (Tribolet, 2005, p. 14). Col passare
delle epoche ed in alcune geografie diverse, si è tentato
di dare una definizione al termine di follia o di malattia
mentale o schizofrenia ed alcune delle teorie elaborate, ciascuna
dotata della propria cura, non è riuscita a comprendere ciò
che fosse esattamente. Questi dubbi sono stati sempre espressi
in letteratura, essendo la phantasia il terreno d'espressione
di dubbi ed errori. Ne abbiamo un buon esempio con il racconto
del brasiliano, Bahianais, Joachim Machado di Assis, "l'Aliéniste"
(Machado De Assis, 1962). Scritto nel 1882 ed incluso nel
lavoro Papeis Avulsos, questo racconto rientra nel periodo
più rigido della psichiatria, del XX secolo.
Il personaggio principale è don Simao Bacamarte, medico dedicato
alla ricerca scientifica desideroso di studiare profondamente
la follia nelle sue varie fasi - stabilendone una classificazione.
Si esprimerà in questi termini "la ragione nasconde la pazzia,
dunque, occorre rivelarla, segnare i limiti tra entrambi,
per curare l'una e proteggere l'altra." O ancora dirà tra
sé: "uomo di scienza, e soltanto di scienza, nulla oltre la
scienza non poteva che attenderlo." (Machado De Assis, 1962,
p. 37). È un resoconto su l’aliéniste - non sull'alienazione
- e sulla sincerità dello scienziato che si interroga incessantemente
sul senso delle definizioni e sulla loro applicazione. Esaminiamo
più da vicino questo racconto.
Dopo avere effettuato studi di medicina in Europa, Simao Bacamarte
si stabilisce nella città immaginaria di Itaguai in un Brasile
sospeso nel tempo. A quaranta anni, è un appassionato di fenomeni
psichici e desidera lavorare per "la verità dell'anima". Fonda
la Casa Verde o Rifugio dei matti e decide di chiudervi tutti
quelli che considera come malati mentali. Innanzi tutto il
progetto suscita la curiosità in tutto il paese in seguito
provoca una resistenza immensa. L'idea di chiudere i matti
e farli vivere sotto lo stesso tetto è considerata una "pazzia",
un sintomo di demenza. Diventa allora "l’aliéniste"(l’alienato),
quello che conduce gli altri al manicomio, il depositario
psichico di suoi compatrioti, che dichiara folli o sani di
spirito secondo la sua valutazione. Fra i primi "rinchiusi",
ci saranno "due matti per amore", come un certo Costa che,
avendo ereditato un’immensa fortuna, si mette a sprecarla
sia prestandone a chiunque sia facendo regali ai bisognosi.
Poi viene il giro degli incostanti, dei poeti dalle idee strane
e sublimi, dei superstiziosi e degli allucinati, degli ambiziosi,
dei parassiti, dei matti di lavoro, ecc.. Questo resoconto
suscitò in me la stessa sensazione quando consultai per la
prima volta un dizionario di psichiatria: trovavo in me ogni
sintomo di tutte le malattie. Vediamo come evolve l'aliéniste
di Machado di Assis.
Bacamarte constatando che tali internamenti non erano così
opportuni - mettere in reclusione tutta la città senza arrivare
in fondo al problema - decide di cambiare teoria ed applicare
l'opposto della precedente. Sarà considerato normale lo squilibrio
delle facoltà, l'anormale essendo l'equilibrio e la sua prosecuzione.
Rinchiude allora i "normali", "li cura" e li lascia in libertà.
Si chiede allora se il folle non sia che se stesso, e si chiude
(da cui la sua onestà) da solo nella Casa Verde con la sua
scienza e la sua pazzia. Vi morirà, isolato da tutti, senza
essere riuscito a sapere dove fosse la verità della scienza.
Troviamo in Machado di Assis l'uomo insolente e ribelle, che
esprime attraverso i suoi scritti una profonda malinconia.
Lascia incombere uno scetticismo leggero di fondo, con la
cui pendenza lancerà una sfida al potere, che stigmatizza
il dogmatismo scientifico e medico, che denuncia l'ipocrisia,
il cinismo e l'opportunismo dei "maggioritari". In uno dei
suoi personaggi, il barbiere, si troverà, il momento di una
riflessione, l'attrazione oscura per il potere contenuto nel
cuore umano e tutto ciò che veicola nella nostra rappresentazione
un manicomio: "è in questo momento decisivo che il barbiere
si sente impadronito dall'ambizione del potere; "gli sembra
allora che distruggendo la casa verde e riducendo a nulla
l'influenza dell'aliéniste, potrebbe arrivare a prendere un
alto incarico in seno al consiglio comunale" (Machado De Assis,
1962, p. 63). infatti, questa casa verde era l'immagine del
potere, capace di dichiarare gli abitanti di una città come
veri e propri cittadini o come degli “incapaci." E ciò che
in realtà è messo in dubbio è l'essere umano nella sua totalità.
Gli uomini appaiono come un genere spregevole, agiscono soltanto
secondo il potere che gli è stato concesso. Così, l’onesto
aliéniste si presenta come l'unico idealista.
Se vi è qualcosa da prendere in considerazione in questo racconto
che, peraltro, supera ogni stile, ogni epoca, è la sincera
ricerca - e quasi tenera ed innocente - del significato della
follia da parte di questo medico. È anche l'avvertimento del
pericolo che si corre trattando della follia come qualcosa
di collettivo. La prospettiva ci sembra giusta, poiché la
diagnosi della pazzia e la cura decretate dipendono esclusivamente
dai pensatori che detengono il potere. Pertanto non si può
sfortunatamente negare che esiste un certo tipo di malati
in tutta la loro singolarità e la loro mostruosità drammatica.
Ma la follia e le forme che assume - schizofrenia, paranoia,
o qualsiasi altra denominazione - dipende da scuole di pensiero.
Come siamo lontani dal caso dei quaccheri dell'Inghilterra
del XVII secolo citati da Michel Foucault. La loro visione
delle cose: "Non diamo denaro ad uomini vestiti di nero per
assistere i nostri poveri, per seppellire i nostri morti,
per predicare ai nostri fedeli: queste sante occupazioni ci
sono troppo care per scaricarle su altri” [2].
Poiché si tratta di questo, di assumersi in modo comunitario
tutte le nostre tragedie come esseri umani. Non di vivere
in un universo asettico nel quale nulla verrebbe a disturbare
il nostro sacrosanto ordine, le nostre occupazioni quotidiane,
il nostro venerato lavoro. Ci fu un'epoca in cui le sepolture
si facevano da sé. In America latina, fu così fino agli anni
settanta. Dopo il colpo di Stato [3],
ci siamo messi a fare come i paesi "sviluppati" che credono
che lì esiste la felicità, il progresso. In realtà, eravamo
nel treno dell’esilio della morte delle nostre vite. Fu lo
stesso con la follia. I nostri folli andavano e venivano liberamente
nelle città, come i nostri minorati fisici e mentali. Fino
ad allora le madri osavano uscire con i loro figli "minorati",
iscriverli a scuola, dare loro amore e struttura familiare,
senza trattarli come la scoria della società. Poi, non si
sa come, ci fu un'inversione. Gli avvenimenti delle grandi
dittature in America latina e la loro iscrizione logica in
un mondo di valori capitalisti? Il cambiamento fu troppo rapido,
come l'esilio dalla tragedia e dagli affetti, fino al parossistico
momento in cui si facevano scomparire coloro che erano "diversi."
L'ultima dittatura si concluse con 30.000 dispersi ed in questo
periodo le madri e le nonne giravano intorno ad un luogo reclamando
i loro bambini. Le chiamarono anche "le folli", tuttavia esse
diedero un impulso alla società argentina, una scorza d'umanità,
un inizio di tragedia, se necessario alla stessa vita. Grazie
alle "folli della Piazza di Maggio" numerosi settori del potere
furono messi in dubbio, dei soldati giudicati, iniziati dei
processi, sebbene il contributo fondamentale fosse il reinserimento
della morte nel panorama delle nostre vite.
Se la "pazzia" delle "folli della Piazza di Maggio" che, folli
di dolore reclamavano i loro figli, ebbero la virtù di avvicinare
alla morte e alla lesione emozionale più profonda che possa
sperimentare un essere umano - la perdita di un figlio - il
mediatore fu il corpo, il corpo penoso delle madri, il corpo
scomparso dei figli, corpi che si collegavano improvvisamente
al cuore, ristabilendo una relazione dimenticata. Dimenticati
poiché, nell'antichità, due fondamentali scritti spiegano
questa relazione embricata, innegabile. Si tratta d’Ippocrate
e di uno Pseudo-Aristotele.
Ippocrate sul riso e la pazzia: una relazione tra
il cuore ed il corpo
Effettivamente queste lettere le dobbiamo non ad Ippocrate,
ma ad un autore anonimo che le redasse oltre due mila anni
fa, ed in modo magistrale. Al punto che queste lettere hanno
sedotto la nostra immaginazione culturale, e, alla stregua
del problema XXX attribuito ad Aristotele, innalzato al livello
dei testi "originari" della letteratura occidentale, secondo
Jean Starobinsk (Iippocrate, 1989, p. 9). Lettere paradossali,
scuotono impercettibilmente il sistema delle cose apprese.
Rivelano i limiti, che dissipano la falsa chiarezza sostituendo
ad un mondo che parcheggia di senso un mondo di ambiguità
dove tutto è una cosa ed il suo contrario, che attenua ogni
differenza. Così dimostrano che né l’epistemè né la doxa conoscono
la verità sulla pazzia, lasciando aperto un abisso d'incertezza
dove i logos si perdono.
Sono come un piccolo romanzo in cui si racconta di tre viaggi
o movimenti con una fine che porta un cambiamento radicale
alle situazioni dell'inizio dell'opera. Primo movimento: Ippocrate
viaggia, chiamato a Adera; Democrito s’installa al di fuori
della città ed allo stesso tempo si perde nelle stelle, "traslocando"
due volte. Secondo movimento: quando Ippocrate viaggia in
"sogno" - la metafora che diventa allegoria - e tanto nel
senso letterale che in quello figurato, il medico si avvicina
al suo paziente. Ultimo movimento: dopo una spedizione che
si può qualificare come iniziatica, Ippocrate torna a Cos
con un'inversione tripla della situazione: il pazzo risulta
essere un grande scienziato; il terapeuta un ignaro e la demenza
una normalità. Queste lettere contengono solo una serie di
slittamenti, non descrivono l’essere ma il passaggio, il passaggio
della pazzia di un uomo alla pazzia collettiva e dalla competenza
del medico a quella del filosofo.
Il dibattito aperto da Ippocrate lascia intravedere due vaste
problematiche: Chi è pazzo? La risposta d’Ippocrate è che,
se esiste un vero malato, non è nient’altro che la collettività,
sempre preoccupata di occuparsi dell'uomo, di evitare che
esca dai limiti imposti. La seconda è: Chi è l'arbitro qualificato
per decidere la buona salute mentale e la pazzia? Non può
essere la massa, più del medico, ma semplicemente il filosofo.
Con il medico ed il filosofo si affrontano due ermeneutiche,
due terapie con due tipi di rimedi, di purghe (Hippocrate,
1989, p. 17).
Questa allusione al filosofo come terapeuta ritorna con forza
nei giorni nostri. Così, dopo il successo planetario del libro
‘Più Platone, meno Prozac’ di Lou Marinoff, abbiamo visto
svilupparsi la filoterapia. Filosofi consulenti pretendono,
invocando Socrate e la sua maieutica, di aiutare la gente
a risolvere i loro problemi ed angosce esistenziali. Questa
corrente s’inscrive nella linea di pensiero lanciata da Gerd
Achenbach all'inizio degli anni 80 in Germania e da Marc Sautet,
creatore dei caffè - filosofia in Francia (Chapuis, 2006).
Abbiamo un altro lavoro filosofico-medico con il libro citato
in alto e attribuito ad Aristotele.
Il problema XXX
Questa opera appartiene ad uno stile perfettamente ermetico,
ci parla di una profondità che è interamente nostra, forzandoci
ad un lavoro archeologico dell'immaginario culturale. Intitolato
La melanconia dell’uomo di genio, è un testo breve, che comprende
nello stesso tempo letteratura medica e filosofia in cui sì
da importanza anche alla fisiologia e alla creatività. In
realtà tutto si baserebbe sulla melanconia e la bile nera,
tale umore ha forza straordinaria nel modellare gli esseri
e renderli folli. Umore colpevole della depressione, nonostante
sia dei temperamenti depressivi e quando l'uomo si è allontanato
dagli dèi, immerso negli eccessi e nella lussuria, tra entusiasmi
momentanei, che si trovano le personalità d'ingegno. "Per
quale ragione tutti coloro che sono stati uomini d'eccezione,
in ciò che osserva la filosofia, la scienza dello Stato, la
poesia e le arti, sono ovviamente melanconiche ed alcune al
punto tale da essere afferrati da mali la cui origine è la
bile nera, come quelli che raccontano (...) gli scritti dedicati
ad Eracle” (Aristote, 1988, p. 83). Altri folli nominati nel
testo sono: Aiace e Bellerofonte, il primo diventato completamente
pazzo, il secondo cerca luoghi segreti nella solitudine più
assoluta.
Ma altri uomini di genio sono colpiti da questa bile nera,
come Empedocle, Platone e Socrate. A questi uomini famosi
occorre aggiungere tutti coloro che si dedicarono alla poesia.
Il problema XXX è un sogno sulla creazione o sulla capacità
di creare. Ci dice che la creatività è principalmente un impulso,
una necessità sconosciuta ad essere diverso, un incitamento
imprevedibile a diventare "altro", “a diventare tutti gli
altri" (ek-statikoi). Come se potessimo essere profondamente
noi stessi soltanto uscendone, lasciandoci possedere, lasciandoci
essere altro. Così è eliminata l'alternativa tra l'essere
"superdotato" ed il "folle", messi sullo stesso piano e rivelando
in loro uno stesso elemento naturale, la melanconia. Tra i
due vi è solo una differenza di grado. In questo caso ci sarebbe
qualcosa di cui l'individuo non è responsabile, un appello
divino, un'arte. Fra queste arti, il migliore esempio è la
poesia, poiché l'uomo non è la causa di ciò che dice o canta;
la sua fonte di creazione si situa oltre di lui, non deve
spiegare le sue parole. Il poeta non è che un momento, un
istante, nella catena che va dai cieli, dalle Muse all'ascoltatore.
È la parola che crea il legame, la parola che parla, incarna
e rappresenta.
Dalla medicina alla letteratura: il linguaggio tra
limiti e rotture
Finora percepiamo all’incirca che la definizione della follia
può, secondo i periodi, essere più o meno elastica ed estendersi
a tutti gli esseri suscettibili di rompere i limiti imposti
da un sistema. Questi limiti possono essere di tipo ideologico,
politico-sociale ed anche dipendere dal settore del linguaggio.
Il primo tipo è stato illustrato nel paragrafo precedente
dall'evocazione delle folli della Piazza di Maggio, episodio
che ha avuto luogo in un'epoca recente e si concluse non con
il loro internamento ma con l'assassinio di molte tra loro,
ad esempio. Ma non si tratta l di casi isolati e non è appannaggio
di un unico periodo della storia. Nel XVIII secolo e durante
la rivoluzione francese, l'ospedale Bicêtre era diventato
il centro principale d’ospedalizzazione degli "insensati",
e raccoglieva gli alienati provenienti da altri ospedali o
"dalle case di forza". Ma vi si rinchiudeva anche gente perfettamente
sana di spirito, vittime del potere politico. "Bicêtre contiene
certamente criminali, briganti, uomini selvaggi... ma anche
una folla di vittime del potere arbitrario, della tirannia
delle famiglie, del dispotismo paterno..." Le celle nascondono
uomini, nostri fratelli e nostri simili, a cui l'aria è negata,
che vedono la luce soltanto attraverso stretti abbaini" (Foucault,
1972, p. 489). Due eventi distanti nel tempo ma che ci mostrano
che la pazzia è un concetto utilizzato e riutilizzato dal
potere per imporsi e strumentalizzare un'esclusione propria
del sistema che si vuole difendere. Rimane da analizzare la
rottura dei limiti imposti dal linguaggio.
Due considerazioni sulla lingua e il linguaggio ci permettono
di vedere sia una benedizione sia un penoso limite. Si tratta
di cercare tra i due un elemento che ci permetta di legare
questo dono umano, tra il grandioso ed il restrittivo. Tra
il linguista e lo psichiatra qualcosa sembra avere il ruolo
"d'individuazione", di qualcosa che andrebbe oltre l'individualità
per andare a toccare frontiere sconosciute, ciò ci fa passare
dall’Io all'universo, dissoluzione dei limiti. Per Giorgio
Steiner, la lingua è una matrice culturale, è la nostra finestra
aperta sulla vita. L'immagine del mondo di ogni essere umano
e la somma delle immagini nella società sono una funzione
linguistica. Questo pensatore ci dice quindi che varie culture
hanno vari modi di eseguire la cartografia del tempo e dello
spazio, di qualificare i movimenti ed i vari stati delle cose
e degli esseri, se gli indigeni hoppis possono avere una migliore
intelligenza di alcune immagini della fisica di Einstein rispetto
ad un individuo anglosassone, ad esempio, è perché la matrice
linguistica ha preparato i solchi di sensazioni necessarie
ed adeguate (Steiner, 2000, p. 112). Il canale inevitabile
delle nostre conoscenze è determinante nella nostra cosmovisione.
Per Serge Tribolet, il linguaggio è allo stesso tempo il nostro
vantaggio e la nostra prigione. Condannato a riferirsi agli
esseri ed agli oggetti che costituiscono il nostro universo
da parte del suo intermediario, sembrerebbe che il quadro
autorizzato dai limiti del linguaggio ci sia spesso troppo
stretto. I limiti del pensiero sono predeterminati dai limiti
del linguaggio. Il mondo degli umani è comparabile alla costruzione
di una casa le cui fondamenta e la cui architettura sono concepite
sul modello di una prigione dorata. Prigione per il pensiero
che non può superare le pareti, prigione senza finestre sul
mondo esterno. Il delirio è una fessura, uno strappo nelle
leggi del linguaggio, un'apertura verso il mondo esterno (Tribolet,
2005, pp. 94-95). Per Steiner, la finestra è aperta immediatamente
con il linguaggio, per Tribolet la finestra si apre con la
breccia della follia o del delirio.
Questa scissura non è libera da logica. È dotata di una sua
logica ma non quella del linguaggio corrente. Abbatte le pareti,
rompe l'armatura concettuale. Lacan ha saputo trovare una
logica nell'ambito del delirio di pazienti psicotici "queste
allusioni verbali, queste relazioni cabalistiche, questi giochi
d’omonimie, questo gioco di parole (...) questa trasfigurazione
del termine nell'intenzione ineffabile, questa immobilità
dell'idea nel semantema, queste ibridità del vocabolario (...)
questa duplicità nell'enunciazione, ma anche questa coerenza
che equivale ad una logica." (Lacan, 1966, p. 167) Ed è forse
questa logica, che appartiene soltanto ad essa stessa, uguale
ad essa stessa, dove l’irrazionale si collega al razionale,
il generale al privato, che ci permetterebbe di collegare
queste due visioni del linguaggio, il cui canale ci permetterebbe
di ascoltare l'altro e pensarlo a partire dalla sua logica
per smetterla con l’esclusione. Numerosi autori hanno lasciato
indizi testimonianti il loro accesso a queste regioni piene
di mistero.
Fra loro, Gérard de Nerval spiega una malattia del suo spirito:
"Proverò a trascrivere le impressioni di una lunga malattia
che è avvenuta esclusivamente nei misteri del mio spirito;
e non so perché uso il termine malattia, poiché mai, rispetto
a ciò che è stato di me stesso, mai mi sono sentito così bene.
A volte, credevo che la mia forza e la mia attività fossero
raddoppiate; mi sembrava di sapere tutto, di comprendere tutto;
l'immaginazione mi donava delizie infinite. È abbracciando
ciò che gli uomini chiamano la ragione, che occorrerà rammaricarsi
di averli persi?” (De Nerval, 1985, p. 103) Egli ci parla
inoltre di questi momenti in cui "abbiamo accesso al mondo
degli spiriti". Una porta ed un ponte si presentano, tra il
nostro mondo concreto, logico, razionale, "reale" e l'altro,
mondo oscuro, di cuori, di poteri magici, di logiche che abbracciano
tutto, di comunicazione con il divino. Un mondo dove il misticismo
è presente.
Delirio mistico
Marcel Réja, precursore nello studio delle manifestazioni
artistiche di alienati fin dal 1907 - come lo era stato nel
1892 J. Seglas studiando il linguaggio di questi pazienti
- trascrive questi versi disperati ed ardenti d'amore e di
necessità di amare.
"E poiché l'amore ci riunisce,
Restiamo uniti, restiamo insieme!
Sì mio Gesù adorato, mio Gesù ben gradito; sì, sei in me ed
io sono in te! Sì la tua carne è la mia carne; il tuo sangue
è il mio sangue, la tua vita è la mia vita!
O mia felicità sovrannaturale,
Mio piacere casto del cielo,
Mia estasi eterna!
Noi siamo uniti, teneramente uniti, santamente uniti, è il
paradiso!
Il nostro piacere è comune, poiché le nostre anime non fanno
che una sola!
Tu solo hai potuto consolarmi!
O mio piacere benefico,
Mia cara dolcezza circostante
Mia bellezza santa che onora,
E mio splendore che abbaglia,
Con quale nome, Gesù, chiamarti!
Gesù, Gesù, o mio amore,
Tutta la notte e tutto il giorno
Tu divinizzi questo soggiorno:
Non sento più la mia solitudine!”
(Anonyme cité par Marcel Réja. L’Art chez les fous. Op. Cit.
pp. 156-157-158.)
Marcel Réjà non presta loro alcun valore artistico se non
di meravigliosi slanci ed entusiasmi vigorosi che non superano
la fase di strette e morbose ossessioni poiché, a suo parere,
l'idea dominante diventa qualcosa di troppo imperioso. L'esasperazione
passionale conduce verso pantomime, a cui si sostituisce al
verbo. Quanto a noi; amiamo compararli a questi versi di St
Jean de la Croix: "... Miei sono i cieli e mia la terra, miei
sono gli uomini, i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli
angeli sono miei e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie.
Lo stesso Dio è mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto
per me. Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia?
Tutto ciò è tuo e tutto per te.” [4]
Tuttavia, St Jean de la Croix, che ammiriamo, fu "medico della
chiesa" e la sua poesia citata in tutti gli ambienti ed in
tutte le arti. Non si tratta di una percezione allucinata
così come la determinava Leibniz? Questo filosofo situava
lo studio della percezione nel campo puramente metafisico,
poiché la percezione riguarda l’essere. Questo ultimo è costituito
da monadi, unità spirituali o punti metafisici che contengono
nella loro essenza dalla Creazione l’insieme dei loro stati
futuri. Il concetto metafisico di monade interviene come il
"centro della percezione" [5].
Secondo Leibniz, si tratta di non restare nel campo delle
apparenze ma di andare aldilà del fenomeno, verso il suo fondamento.
Egli vede in ogni corpo "qualcosa come un’anima" cioè qualcosa
i cui attributi fanno parte della percezione e degli appetiti,
dei desideri. Nei versi trascritti, possiamo vedere desideri
di comunicazione con Gesù, una sensazione d’unione magistrale
con il divino, un’esperienza d'integrazione con gli uomini,
l'universo, con tutto ciò che esiste. Porte della percezione
che conducono verso altre dimensioni dell’essere e dell’Essere.
Qui vi sarebbe un principio animista, un ritorno alla primitiva
indifferenziazione del vero e del falso, la scoperta di uno
stato originale ideale dove il visibile e l'invisibile erano
soltanto uno. Diogène Laerce affermava: "le immagini mentali
dei folli sono vere". Se fosse il caso; allora sarebbe necessario
spiegare l'invisibile con segni ricercati nelle manifestazioni
fenomenali. Il fenomeno allucinatorio troverebbe così il suo
statuto "ontico". Ignorarlo significherebbe ritornare a considerarlo
come allucinazione, poiché è una percezione "disturbata" e
dunque falsa. Al contrario, ciò che si considera allucinato
è ciò che sfugge a tutti, poiché attua una capacità superiore
di discernimento, la facoltà di comunicare con l'invisibile,
con lo sconosciuto ed inconoscibile. Leibniz non sosteneva
già che "ogni percezione è allucinatoria" (Deleuze, 1988,
p. 119). E poiché percepiamo tutti...
Ciò che Socrate chiamava "demone", questa parte di sconosciuto
che è in ciascuno di noi. Si manifesta generalmente quando
ignoriamo ciò che facciamo e diciamo, quando dubitiamo dei
nostri sogni, pur percependo che un demone sconosciuto ci
parla, che ascoltiamo voci e che sentiamo anche qualcosa sulla
nostra spalla. "Io non posso rinunciare a queste visite che
mi lasciano sempre più solo e che mi allontanano sempre più
dagli dei della città" [6].
Ci permetteremo di mettere in relazione questa frase con Avicenne
e chi lo studiò in Occidente, Henry Corbin. Il filosofo parlava
"d’intelligenze intermedie" - gli angeli - come figure esemplari
del dramma intimo e personale, il dramma dell'apprendistato
di tutta una vita. Queste esistenze non sono definite una
volta per tutte, ma come un simbolo, sono cifre e silenzi
che prendono vita man mano che ogni coscienza sente il richiamo
del simbolo per la sua espansione, per comprendersi, cioè
per farne il segno della sua espansione (Corbin, 1986, p.
245). In altri termini, quando l'individualità si trasforma
in "individuazione", poiché l'invisibile viene ad incarnarsi
nelle nostre anime, prendiamo parte a ciò che esiste nell'universo.
I suddetti "deliri mistici" contengono questa componente,
poiché Dio si cerca nell'assoluto e non nella moderazione.
Un paziente di 26 anni ricoverato per deliri spiega la sua
esperienza in questo modo: "ciò che avviene in me è qualcosa
d’esterno." Questo qualcosa lo percepisco attraverso delle
voci, ho l'intuizione molto sviluppata. La considero una sovrapposizione
del pensiero e più realtà che io chiamo la "pluralità" [7].
Queste parole dicono molto più di una semplice storia, vi
è in loro un testo codificato, una trama logica che occorre
seguire alla lettera. Lasciano trasparire la sensazione di
un caos, di una grande confusione esterna, ma anche nel linguaggio.
L'uscita è una porta che solo la follia può varcare. Poiché
questa porta è quella che ci conduce verso altre dimensioni
e le cose ci appaiono eccessivamente imbricate, poiché oltrepassare
queste porte è la condizione della conoscenza, la conoscenza
primordiale, "spirituale", dell'universo invisibile. Follie
e delirio mistico: porte o il pericolo?
Leggere il delirio: follia e poesia [8]
Serge Tribolet nel momento in cui gli rendiamo omaggio attraverso
queste pagine, ci ricorda che oggi la medicina utilizza sempre
più mezzi, informatica e strumenti di qualsiasi tipo per stabilire
le diverse terapie e le loro valutazioni. Il medico è diventato
un assistente, un comandante in seconda, essendo la tecnica
sovrana. Dunque ciò che è da prendere in considerazione è
che ogni caso è particolare, ogni paziente. Una frase d’Ippocrate
dice: "La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fugace,
l'esperienza ingannevole, il giudizio difficile." [9]
L’occasione fugace ci ricorda il kairos greco, parola che
indica il breve momento dell'atto nella tragedia greca, momento
in cui il tragico eroe trasforma il corso della storia. Momento
opportuno, momento inevitabile che decide il destino. L'artista
è un essere dotato per riconoscere quest’atomo di tempo. E
la medicina dovrebbe essere una forma d'arte, per temere questo
momento d'umanità, che nessuna esperienza può offrire. Nel
lirismo della follia, non può essere tutto un’enorme esagerazione.
Un autore anonimo "folle" trova un'ispirazione veemente nel
dolore della solitudine e della coscienza della differenza;
una potente respirazione che assume una forma rigidamente
classica. Nei versi che seguono, vi è del buon senso, una
folle ispirazione divina:
"Voi v’incantate per provare il mio delirio
La mia anima è tutto, tutto eccetto la mia lira,
Ragazza del cielo che un giorno m’inviò dio,
Mi segue fino alle gogne,
Pregando per voi gli dei e i geni,
In un singhiozzo, un sospiro, un addio.
Riprendete il vostro liuto, figli di Apollo, coraggio!
Canta i suoi luoghi, le sue erbe, la sua ombra,
In questa cloaca in cui la ragione si tace,
Canta questi matti, di cui vedi il delirio...”
(Versi citati da Marcel Réja. L’Art chez les fous. Le dessin,
la prose, la poésie. L’Harmattan. Col. Psychanalyse et Civilisations.
Paris. 2000. p. 152.)
Un altro dolore anonimo dice:
"Pronta da qui, la vita dell'uomo si compone
Dell’essere, ragionevole o folle.
Di sembrare, ragionevole o folle.
Di credere, ragionevole o folle.
Di credere di sembrare, ragionevole o folle.
Ed alcune volte di due, di tre ed anche
In questi quattro modi di esistere allo stesso tempo.
Ma quando l'uomo si accorge che egli non vive nessuno
Di questi quattro modi di esistere, l'uomo esiste?”
(Versi citati da Marcel Réja. L’Art chez les fous. Le dessin,
la prose, la poésie. L’Harmattan. Col. Psychanalyse et Civilisations.
Paris. 2000. p. 219)
Cosa nei versi precedenti permette di stabilire che si tratti
dei versi di un "folle"? I termini lasciano trasparire una
grande lesione emozionale, una solitudine immensa. Almeno
è ciò che possiamo percepire, non essendo medici. Il clinico
attende disperatamente la parola significativa. Per l’alienato,
la peggiore prova è soltanto quella del silenzio, benché la
sua osservazione sia sempre attiva e pronta a temere qualsiasi
altro indice che può rivelare uno spirito perso. Una volta
acquisita questa parola, egli deve classificarla secondo i
disordini delle idee e degli affetti. Il ruolo della letteratura
negli ospedali psichiatrici è d’incarnare, fra tutte le arti,
il criterio più sensibile della pazzia. Ha un ruolo psicologico
di sfogo emotivo. Essendo la funzione del linguaggio il mezzo
più ricco, più sottile, acuto o meno, sarà anche la pietra
angolare più delicata dei disordini della suddetta intelligenza.
"Signor Medico, ben triste è uno stato,
Al manicomio, dove il pentimento piange;
Dove il giorno è un secolo, ed ogni momento un'ora;
Dove l'esistenza è soltanto un combattimento eterno
Questa vita inutile è quella di Lemaire
Di cui il pentimento vero può ispirare pietà
Ah! Signor medico, dall'abisso dove cado,
Le mie lunghe grida di dolore si elevano fino a voi,
Vogliate essere per me, contro la sorte gelosa,
Rompete il suo pugnale, e degnatevi di sorridere!
Fate aprire la mia prigione Signore e che ne sia fatto uscire.
Che un nuovo Lazzaro emerga dal cerchio
E che di gioia debba spirare sulla soglia
Che il mio ultimo sospiro superi almeno la porta!”
(Marcel Réja. L’Art chez les fous. Op. Cit. pp. 148-149.)
La lesione emozionale, la penosa reclusione che implora il
medico, che ha il potere decisionale, iscrive questi versi
ad un denominatore comune di ricerca d'amore e di libertà,
di non contenimento. Il terapeuta rinchiuso che invoca il
diritto alla salute, questa impostura. Infatti, la nozione
di salute è relativa e si basa su criteri soprattutto soggettivi,
che emergono come uno stato variabile e dinamico di tolleranza,
d’adattamento e di compensazione rispetto al mezzo ambientale
totale. È la stessa retorica che anima la dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo e la carta dell'OMS. Ma il diritto non
tiene conto di altri concetti come il piacere, quelli dell'amore,
del timore, della tristezza... Questi termini non hanno diritto
di cittadinanza nei testi giuridici o legislativi. Il concetto
di salute si presenta allora come una deriva ideologica (Tribolet,
2005, p. 129), rischio già denunciato da Giorgio Canguilhem
in quanto mette da parte l’insensatezza della tendenza a considerare
il patologico non come una deviazione del fisiologico nell'individuo,
ma come una deviazione del corpo sociale.
Tuttavia occorrerebbe ritornare su alcuni parametri come quelli
evocati dai libri d’Ippocrate e d’Aristotele, quando l'uomo
"folle" era e rimaneva considerato come un uomo. Ma l'incompetenza
sociale raggiunge il suo apice quando nel 1810 la nozione
d'irresponsabilità penale è iscritta nella legge. Vengono
applicate delle pene, ma l'individuo non è più responsabile.
Ciò significa che il folle che commette un crimine non è più
un uomo? Eppure non è colpito da un'animalità sconosciuta,
ma il suo atto è la mostruosità propria dell'umano, terribilmente
umano, straripato dalla sua umanità. La follia non è un restringimento
dell’essere, è l'essere stesso ed essa deve essere riconosciuta
totalmente responsabile in tutti i casi, senza eccezione.
La follia si rivolge a ciascuno di noi, ci parla della nostra
umanità e, in questo senso, dovrebbe essere considerata come
un beneficio.
Non soltanto occorrerebbe ripensare la follia criminale e
la sua responsabilità ma anche al modo di reinserirla nella
società. Carlos Castañeda, antropologo che trascrisse gli
insegnamenti degli ex Toltèques, introduce una nozione particolare,
quella di "follia controllata".
Follia controllata
Secondo gli insegnamenti di Don Juan, guida di Carlos Castañeda,
il mondo è così come ce l'hanno insegnato da sempre. Inizialmente
i nostri genitori, quindi la scuola e la società s’incaricano
di mantenere la struttura di un sistema la cui conseguenza
più grave è la perdita del mistero della vita e della libertà
che deve essere nostra. La parte destra del nostro cervello
è quella che riceve questi insegnamenti anticipati, è il mondo
del tonal, della fisica e del concreto, della logica che conosciamo
ed è quello che mantiene il mondo così com’è. Ma vi sono altri
mondi, altre dimensioni che questo tonal non può percepire.
Per accedervi, occorre sviluppare la parte sinistra del nostro
cervello. Allo stesso modo, abbiamo costantemente un’infinità
di percezioni, percezioni non ragionate, perché sono innumerevoli,
troppo legate le une alle altre, indifferenziate. Queste minuscole
percezioni svolgono un ruolo determinante nella relazione
al mondo di ogni individuo, nella sua relazione al resto dell'universo
[10].
Di conseguenza, se il mondo è uno spettacolo montato da noi
stessi, la nostra unica funzione è quella del testimone. Leibniz
diceva "che garanzia abbiamo che il mondo non sia un sogno?"
Solo la perfezione di Dio garantisce il reale" [11].
Non vi è alcun atto che possiamo compiere che sia di un'importanza
capitale per il mondo. Una volta compresa questa premessa,
possiamo slegarci dei condizionamenti del tipo "essere utile
alla società" oppure "occorre produrre qualcosa per la posterità"
o "dobbiamo vivere in questa maniera" per prendere coscienza
di avere la libertà totale di scegliere il nostro cammino.
Sappiamo per certo che dobbiamo prendere in prestito questa
o quell’altra via, tuttavia ne scegliamo una che ci soddisfa
tenuto conto che ha lo stesso valore di qualsiasi altra e
che la nostra scelta è arbitraria. Questa capacità di fare
una scelta priva di senso è ciò che Toltèques e Castañeda
chiamano la "follia controllata", essendo questa la più bella
espressione della nostra libertà e la giustificazione dei
nostri atti. E cioè si tratta della più grande delle follie:
inventarci un cammino che, in fondo, non ha alcuna incidenza
né sul mondo né sugli altri. Siamo liberi di essere folli
e di scegliere il cammino che detteremo alla nostra follia.
D'altra parte, avere coscienza di questo gioco sacro significa
possedere il "controllo della chiarezza" riguardo a noi stessi,
dell'universo, verso la nostra breve esistenza temporale.
Verso la nostra realtà.
Quest'articolo è iniziato evocando la nozione di realtà. Un
lavoro dell'antropologo Carlos Castañeda intitolato Una Realidad
Aparte (“Una Realtà Separata”) dà spiegazioni di base semplicemente
su un'altra visione del mondo. Riconosco di avervi trovato
"qualcosa", una porta, un'apertura, un'uscita dalla prigione
occidentale, dai sistemi di credenza instaurati, tanto sociali
che religiosi e familiari. Ho sentito dunque un sollievo immenso
nel sapere che qualcuno nel mondo pensava differentemente
e ne provai una libertà immensa. Di conseguenza, ho potuto
fare cose che non avrei potuto poiché il sistema in cui viviamo
m’ispira letteralmente timore. I limiti del "reale" esplodono
per andare verso altri universi, forse verso altre galassie,
che danno all'essere umano facoltà innumerevoli, un gran potere
di percezione che include nel "normale" di queste facoltà
le visioni, le "rivelazioni" ed una grande quantità di parametri
"irrazionali" che bisogna come un “guerriero” far fruttare
e ricercare durante tutta una vita. Benché si tratti di un
cammino di solitudine assoluta, vale la pena, anche attraverso
la cura data alla follia.
Cosmovisione soprannaturale della follia
Seguendo questa logica di visioni del mondo differenti dalla
visione occidentale, la nostra intenzione è di dimostrare
che ci sono altri modi di considerare la malattia mentale
e come alcune comunità se ne prendono carico decolpevolizzando
il paziente. Magia, credenza e malattia sono tre aspetti che
circondano la vita dell'uomo. Per gli abitanti delle Ande,
queste nozioni sono restate così come erano state ereditate
delle culture pre-ispaniche. Mettono in relazione il passato
ed il presente, l'ieri e l'oggi di questo mondo sconosciuto
che è l'uomo andino. Comprendere la ricchezza contenuta nella
loro visione particolare del mondo, intrisa di connotazioni
magico-religiose che accompagnano ogni momento dalla loro
esistenza, c’introduce nella loro concezione particolare della
malattia e la corrispondenza terapeutica, attualmente conservata
grazie alla trasmissione orale. Nei paragrafi che seguono,
accenneremo alla medicina della Puna argentina, cioè il Nord-ovest.
In questa regione rurale ed isolata, la medicina ha conservato
le sue caratteristiche tipiche antecedenti l'arrivo degli
Spagnoli e della rottura dell'immaginario che ne seguì, più
marcata in altre regioni.
Nel concetto della gente della Puna (altipiani), le malattie
mentali sono considerate sovrannaturali, connotate da circostanze
misteriose o magiche, curate da colui che viene chiamato "medico
particolare", guaritore o stregone. Prodotta dalla rottura
d'equilibrio tra l'uomo ed il divino, la salute sarebbe al
contrario uno stato d'armonia" [12].
La malattia è effettivamente una cosmopatia poiché implica
una rottura d'equilibrio con la natura ed il mezzo ambientale.
Quest'equilibrio prende vita attraverso i suoi rappresentanti,
le divinità inferiori, le entità protettive che, come organizzatori
morali e sociali, abitano o governano tutta la creazione.
In particolare, gli incidenti geografici e le montagne, le
cascate o i precipizi sono considerati "animati" da un'entità
spirituale che concede loro vita e comprensione, da cui la
necessità di onorarli ed accontentarli tramite offerte. Questi
esseri proteggono l'uomo che correttamente li placa, ma lo
punisce in caso d'inosservanza dai suoi doveri. È allora impossibile
dissociare la medicina dai miti, dagli dei e dai demoni. Tutto
deve essere esaminato, leggende, racconti, poesie popolari,
danze, rituali, abitudini, feste e stessa lingua. Così Pachamama
e Supay (la madre terra ed il diavolo), di altri spiriti maligni
o benevoli della natura, e le forti impressioni ricevute in
occasione della comparsa improvvisa di "espantos e duendes"
(fantasmi e folletti) o anche di altri esseri dotati di caratteristiche
sovrannaturali sono i responsabili diretti delle affezioni
mentali che presentano gli abitanti soggetti ad un incontro
con "lo sconosciuto". Accenneremo in particolare alle malattie
dette "mentali".
Affezioni causate dal rapimento dell’anima da parte di uno
spirito malefico: Conosciute come "Pilladuras" (mascalzonate)
o "Tentaduras del Demonio" (tentazioni del diavolo), Supay
o il Maligno ed altri spiriti malintenzionati. Queste entità
s’impadroniscono dell’anima o "pensiero" o "spirito" della
persona, gli causano confusioni comprendenti stati psicotici
o d’alienazione mentale che può portare ad un’inevitabile
conclusione mediante il suicidio. Supay o il Demone può anche
essere responsabile dei malesseri riuniti nelle espressioni
"soffiato dal maligno" o "visto dal demone", che danno luogo
alla follia.
Il posseduto dal maligno non è solo, "è tentato" a causa della
presenza di altri spiriti maligni che impediscono la sua cura.
I guaritori comuni sono contrari ad avviare una cura, poiché
temono di affrontare questi esseri diabolici. È per tale motivo
che vengono chiamati specialisti dalla Bolivia, come ad esempio
i più conosciuti Laikas, Yatiris o Kallawayas, i soli ad essere
capaci in tali situazioni. Se non si può fare appello a questa
soluzione, viene utilizzato un mezzo più semplice: si fa prendere
coscienza al paziente della propria affezione e della propria
causa. Viene inviato sul luogo dove la sua affezione ebbe
inizio affinché, con un rituale preventivo-propiziatorio,
denominato "retribuzione", la Pachamama o Madre terra sia
invocata ed il suo intervento richiesto presso Supay affinché
restituisca lo spirito. Questa azione è chiamata "perdonarsi"
o "domanda del perdono dall'offesa" ed è lo stesso interessato
che interviene per il suo ristabilimento [13].
L'alterazione degli stati dell’anima, come conseguenza di
un'azione o di evento traumatico o di "paura": Le cause di
queste alterazioni fra cui gli stati morbosi di spavento,
di paura o di terrore, conosciute con il termine globale di
"paura", risultato di forti impressioni, emozioni intense,
grandi tensioni, angoscia e spavento. Nonostante le variazioni
regionali, i motivi all'origine della sindrome presentano
basi eziologiche simili e considerano la "paura" come responsabile
della perdita temporanea dello spirito o della sua fuga. Se
la persona non è consapevole, se non interpreta la causa della
malattia per ignoranza, può restare definitivamente colpita
da uno stato speciale d'alienazione mentale. Ciò può avvenire
nei casi di "antica paura" non curata in tempo o quando lo
spirito invaso si unisce a quello dei morti che vagano nei
dintorni dei cimiteri.
Affezioni causate da alcuni agenti fisici e ad alcuni fenomeni
astrofisici oppure atmosferici: In generale sono considerati
come responsabili di alcune affezioni l'aria, il vento, il
tornado, l'arcobaleno, il lampo, l'eclissi e le fasi lunari.
Nel caso del vento o Wayra, l'aria proiettata trasporta gli
spiriti o le emanazioni malefiche o malsane come i desideri
o le passioni delle persone male intenzionate incontrate.
L'aria o il vento sono considerati come veicolanti, che introducono
o causano grandi onde di vento, di terra, venute dalla montagna,
dai cimiteri e come propagatori di "mali" o "sortilegi". L'eclissi,
il fulmine, l'arcobaleno sono agenti responsabili di alcuni
disordini mentali, alterazioni o affezioni, temporanee o meno.
Entrerebbero in questa categoria altre malattie fisiche come
il labbro leporino, ritardi mentali e paralisi cerebrale.
Le circostanze che precedono una malattia, in generale mal
definite, sono generalmente attribuite a cause non razionali,
da cui il fatto che nella diagnosi o nell'eziologia attribuita
dal guaritore sia presente l'idea che il male o le diverse
affezioni siano d'origine sovrannaturale. Il guaritore stesso
determina la causa tramite una divinazione con le acque, la
coca, l'allume, o altri mezzi rivelatori delle circostanze
in cui la malattia è stata contratta. Le malattie che presentano
caratteristiche chiaramente psichiche manifestano sintomi
psicosomatici crescenti, suscettibili di trattamenti magico
- suggestivi che arrivano poco a poco al ristabilimento del
paziente con l'ausilio dell'utilizzo di terapie adeguate utilizzate
dai guaritori [14]. Esaminiamo
come sono designati questi guaritori.
Il medico o guaritore
Il guaritore acquisisce la sua capacità "medica" in due modi:
a) con l'apprendistato o con gli insegnamenti trasmessi da
un altro guaritore. In questo caso, deve apprendere ad identificare
tutte le piante medicinali della regione ed anche quelle di
ambienti fitogeografici marginali e distanti. Deve inoltre
imparare a riconoscere in modo infallibile i rimedi ed i loro
dosaggi, da cui l'apprendistato dei concetti eziologici e
sintomatici che includono le idee della medicina regionale
in relazione alle forme patologiche. A volte la trasmissione
è realizzata di padre in figlio, ma può anche avvenire tra
semplici parenti o tra conoscenti. b) Tramite una circostanza
particolare: esiste la credenza secondo la quale nel momento
in cui una persona è toccata dal fulmine e dalle sue scariche
elettriche durante una tempesta, passa per due tappe. Nella
prima, si disintegra e nella seconda si reintegra. Una terza
tappa ha luogo se l'episodio non ha alcun testimone: in questo
caso, la persona toccata "resuscita" pur potendo essere seriamente
bruciata. Questa conclusione la presenta come "designata"
da Dio per essere guaritore.
La differenza tra i due modi di acquisire lo statuto di "medico"
risiede nel fatto che, nel primo caso, l'individuo sa trattare
le malattie sulle quali è stato istruito; nel secondo caso,
sarà "medico" di "tutto"; in tal modo ci si può rendere conto
quanto la medicina delle Puna argentine risponde ad un'eziologia
mistica (Palma, 1978, pp. 192-193), accompagnata da una concezione
globalizzata del corpo, dello spirito, della persona, della
società e dell'universo. Cioè di tutte le sfere della vita,
quelle che ci appaiono completamente integrate ed interdipendenti
le une delle altre. Nello stesso tempo, quando parliamo di
una prospettiva mistica, è che la forma produttiva di questa
medicina è ancora piena di senso, veicolante la vecchia relazione
degli uomini con la natura, e cioè quando ogni incidente geografico
ed ogni fenomeno meteorologico erano divinità regolatrici,
benefiche e terribili allo stesso tempo. Quindi i concetti
stessi di malattia e di malattia mentale appaiono integrati
in un tutto che la Comunità si assume. Come abbiamo accennato
sopra, considerando che l'agente della follia è esterno all'uomo,
c'è una discolpa che gli permette, tramite la pressione comunitaria,
di prendere coscienza del suo stato e di partecipare alla
sua cura. In tal modo vi è una dimensione reale dei poteri
magici della natura trasmessa all'uomo, articolati con concetti
che gli servono a temere una realtà, una realtà magica, naturalmente.
Il magico può contribuire a dare alla cultura occidentale
un’autocoscienza purificata da polemiche visioni già superate.
Se il processo d'anamnesi (communion) del mondo magico deve
essere considerato come recentemente iniziato (De Martino,
1999, p. 11) occorre continuare in questa visione perché maturi
e sia utilizzata in Occidente.
Conclusione
Il concetto che dovremmo prendere in considerazione è quello
di cosmopatia, cioè la malattia intesa come una frattura dell’equilibrio
con l'universo. Nelle Ande, ciò appare completamente articolato
poiché tutto è sottomesso alla Madre Terra, alla Pachamama.
Il benefico come il malefico, le opere d'arte, la caccia,
i raccolti, la salute e la malattia, tutto è regolato da essa.
Questo concetto ha per effetto il decolpevolizzare l'uomo
rendendolo più responsabile del suo ambiente e, con ciò ugualmente,
della sua salute. Ma in Occidente ci sono correnti ed individui
che, sul modello di Serge Tribolet, rimettono in questione
il sistema di reclusione ed anche la concezione di malattia
mentale.
La comparsa di questi movimenti di pensiero è qualcosa di
positivo poiché la follia [15],
come concetto, evolve e si trasforma in tempo di crisi culturale,
quando si è ai prolegomeni di qualcosa di nuovo, senza che
si sappia esattamente ciò di cui si tratta. Quando si osservano
i libri pubblicati e ripubblicati, si constata la necessità
di una tendenza ad assumere la follia come terreno di riflessione.
Molti di questi lavori ci parlano di un ritorno delle vecchie
filosofie, di quelle che hanno fondato l'Occidente, come scoperta
di pensieri considerati "antiquati" o "primitivi". Tutti comprendono
riferimenti più o meno magici, poiché tentano di includere
elementi "invisibili" nella realtà. Realtà stessa messa in
gioco, poiché si comincia ad introdurvi altri tipi di logica.
L'ampiezza del problema è significativa poiché vi si può leggere
una necessità di superare alcuni limiti precedentemente imposti
dai sistemi di pensiero, dai poteri socioeconomici ed anche
teologici.
A partire da questo punto di vista, si può comprendere e condividere
l'idea lanciata da Serge Tribolet, e cioè che la follia rappresenta
un vantaggio per l'umanità, non soltanto perché è in relazione
con la creazione, ma perché essa permette di ripensare l'essere
umano, alla ricerca di un altro posto nel mondo, aprendo la
sua riflessione verso l'universo di cui, finalmente, tutti
noi facciamo parte. Si tratta di iscrivere la malattia dello
spirito nell'ambito di un'ecologia o di un’ecosofia, cosa
che va nel senso della tendenza attuale della biologia, della
zoologia e delle altre scienze che pensano l'uomo ed il suo
ambiente. È in questo senso che esprimo qui il mio desiderio
più profondo che questo periodo sia fertile in riflessioni
che portino finalmente ad un cambiamento di status per gli
esclusi dell'umanità.
NOTE
1] Psichiatra d’ospedali
a Parigi, responsabile di un’unità d’ospedalizzazione all’ospedale
Maison Blanche. Titolare di un DEA di psicanalisi, dottorando
in filosofia alla Sorbona, insegnante, conferenziere ed autore
di numerose opere specializzate (Précis de sémiologie de troubles
psychiques, Guide pratique de psychiatrie, Droit et psychiatrie).
2] Voltaire. Lettres philosophiques.
Ed. Droz, I, p. 17. Cité par Michel Foucault. Histoire de
la Folie à l’âge classique. Op. Cit. p. 485.
3] Questo colpo di stato
durerà tra il 1976 e il 1983, il più sanguinoso della storia
argentina.
4] https://missel.free.fr/Sanctoral/12/14.htm
5] Leibniz. La Monadologie.
Ed. Delagrave. Paris. 1988. pp. 149-150. Citato da Serge Tribolet.
Op. Cit. p. 156.
6] Pascal Quignard si riferisce
ad Apuleio. Le Démon de Socrate. Rivages Poche/Petite Bibliothèque.
7] Questo giovane uomo, chiamato
Henri, est uno dei casi citati da Serge Tribolet. Op. Cit.
pp. 80-81.
8] Titolo del libro di Juan
Rigoli. Lire le Délire. Aliénisme, rhétorique et littérature
en France au XIX siècle. Prefazione di Jean Starobinski. Fayard.
2001. 649 pp.
9] Ippocrate citato da Serge
Tribolet. Op. Cit. p. 16.
10] Leibniz. Nouveaux essais
sur l’entendement humain. GF Flammarion. N° 582. Paris. 1990.
p. 42. Citato da Serge Tribolet. Op. Cit. p. 161.
11] Ibidem.
12] Concetto segnalato da
Juan Lastres e citato da María Cristina Bianchetti. Cosmovisión
sobrenatural de la locura. Pautas populares de salud mental
en la puna argentina. Ed. Víctor Manuel Hanne. Salta. 1996.
p. 13.
13] Ibidem. p. 132-133.
14] Ibidem. p. 137.
15] Non soltanto la pazzia,
ma tutti gli argomenti che costituiscono i pilastri dell'apparato
della conoscenza, come l'animalità, l'umanità, la femminilità
che vanno a ridefinire la posizione degli esseri viventi nel
mondo e fanno in modo che, l'uomo fra essi, cercherà un nuovo
posto, un nuova ontologia che deriverà forse verso un'ontogenesi.
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