Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
IL SELF, LA VITA E IL LAVORO: L'ESPERIENZA DEI GRUPPI ISADORA DUNCAN
Pietro Barbetta
barbetta@mediacom.it
Direttore della Scuola di Counselling
del Centro Isadora Duncan - www.viamuratori.it - Professore
di Psicologia Dinamica presso l’Università di Bergamo, Didatta
di Psicoterapia presso il Centro Milanese di Terapia della
Famiglia, Centro Siciliano di Terapia della Famiglia, European
Institute of Systemic Therapies (Milano), Curso Intensivo
de Terapia Familiar (Santiago di Compostella); Svolge attività
di formazione, consulenza e supervisione clinica in Italia
e all’estero (Argentina, Brasile, USA, Inghilterra, Francia,
Spagna, Svizzera); E’ autore di numerosi saggi apparsi in
lingua italiana, inglese, spagnola e portoghese.
Nell’intervista
Abecedario di Claire Parnet a Gilles Deleuze (Parnet, 2005),
recentemente pubblicata su DVD, alla lettera b, l’intervistatrice
chiede a Deleuze di parlare del bere. Deleuze, che aveva bevuto
molto, sollecitato intorno alla questione del limite, dice:
“Cos’è il limite è complicato, lasciami pensare … in altre
parole l’alcolizzato è colui che non smette mai di smettere
di bere.” In questa definizione vi è una straordinaria evocazione
del pensiero di Bateson a proposito dell’alcolista. La sfida
simmetrica con la bottiglia, di cui parla Bateson, viene così
descritta da Deleuze: “Non smette mai di essere all’ultimo
bicchiere. Cosa vuol dire … E’ un po’ come nella magica formula
di Péguy: non è l’ultima ninfea che ripete la prima ma è la
prima che ripete tutte le altre e l’ultima. Allora, il primo
bicchiere ripete l’ultimo. L’ultimo è quello che conta. Allora,
cosa vuol dire l’ultimo bicchiere per un alcolizzato. Mettiamo
che si alzi la mattina, se è un alcolizzato della mattina
- ce ne sono di tutti i tipi - ed è interamente proteso verso
il momento in cui arriverà l’ultimo bicchiere. Non è il primo,
il secondo, il terzo a interessarlo, è molto di più …” (Deleuze,
in Parnet, 2005).
Deleuze aggiunge qualcosa di interessante a queste considerazioni,
qualcosa che, a mio avviso, spesso manca al clinico che si
occupa di alcolismo. Secondo una lettera pubblicata da uno
dei fondatori dell’Anonima Alcolisti, fu Jung il primo a sostenere
l’incurabilità dell’alcolismo attraverso il trattamento psicoterapeutico.
Jung aveva sostenuto che l’unico rimedio consisteva in una
vera e propria conversione religiosa. In termini batesoniani,
in un deutero-apprendimento. Come mai una persona si trova
di fronte alla necessità di una conversione? “C’è tutto un
aspetto sacrificale in questa disposizione al bere, alla droga.
Si offre il proprio corpo in sacrificio per qualche motivo,
forse perché c’è qualcosa di troppo forte, che non si potrebbe
sopportare senza alcol. Non è questione di sopportare l’alcol
è […] Sì, è la vita, è qualcosa di troppo forte nella vita.
Non è solo qualcosa di terrificante, è qualcosa di troppo
forte, di troppo potente nella vita.” (Deleuze, in Parnet,
2005)
Pare che Forel fosse stato il primo psichiatra a domandarsi
come mai lui non riuscisse a curare gli alcolisti in quanto
psichiatra, e lo chiese a un calzolaio, che invece ci riusciva
(Ellenberger, 1976, p. 335). Questi gli rispose che per curare
gli alcolisti bisognava essere astemi. Deleuze dice qualcosa
di diverso, egli descrive le ragioni interne per cui smettere
di bere sembra dover consistere in una vera e propria conversione.
La vita per colui che beve è “qualcosa di troppo forte”, se
pensiamo alle grandiose descrizioni di Rudolf Otto (1966)
a proposito del Sacro, ci accorgiamo che ciò che suscita il
tremore, la soggezione, ciò che è tremendo e numinoso, il
sacro appunto, altro non è che il rapporto tra le descrizioni
di Deleuze e le prescrizioni di Jung. Ciò che è sacro, in
questa prospettiva, è sempre un frammento, come il frammento
del legno della croce di Cristo di Santiago di Compostella,
come il numero corrispondente a una lettera dell’alfabeto
ebraico nella Gematria cabbalistica.
Il Self, in questo quadro, non è altro che un tentativo storico
di organizzare un controllo laico sulla vita, ciò che Max
Weber aveva magistralmente descritto nella formula ascesi
mondana. Qual è allora questo ordine del Self? E qual è il
rapporto tra la dipendenza, alcolica o da droghe, e la schizofrenia?
Quale il nesso tra ciò che in inglese viene chiamato propriamente
delirium, quello stato di alterazione percettiva indotto da
sostanze, e ciò che viene definito delusional disorder, il
delirio schizofrenico? Sembra trattarsi dell’idea che ci sia
qualcosa, il Self appunto, che, come parte, tenga sotto controllo
il tutto da una posizione trascendente. Uso qui prevalentemente
il termine inglese Self (maiuscolo) perché vorrei sottolineare
un aspetto storico-sociale decisivo nella costruzione della
moderna cultura del Self che alcuni studiosi fanno risalire
al Seicento, per più di una ragione. Foucault, per esempio,
proprio in relazione alla storia della follia nell’età classica,
osserva un punto chiave del pensiero di Cartesio che, come
noto, aveva trasformato questa istanza in disciplina filosofica.
Sebbene non sia esclusa dalle sue considerazioni filosofiche,
la follia viene trascurata a vantaggio del sogno. La follia
è un cattivo esempio di dubbio, il sogno invece è un buon
esempio. Per un buon esercizio meditativo non devo confrontarmi
con un termine esterno quale è il folle, devo ricordarmi del
sognatore che io stesso sono stato e che sarò nuovamente.
Come se Cartesio accettasse di confrontarsi con l’apollineo,
ma tenesse assolutamente fuori dal proprio Discorso il dionisiaco.
La follia è l’assolutamente altro, il sogno è forse una deformazione
di qualcosa di reale.
Il problema non è in effetti che io mi sforzi di considerarmi
un folle che si considera un re; e nemmeno che mi chieda se
non sono un re (ovvero un capitano turingio) che crede di
essere un filosofo rinchiuso a meditare. La differenza con
la follia non è stata provata: è constatata. Non appena i
temi della stravaganza sono evocati, ecco che la distinzione
scoppia, come un grido: sed amentes sunt isti […] “Ma costoro
sono dei folli” (terza persona del plurale, essi, gli altri,
isti) (Foucault, 1972, p. 648). In altri termini Cartesio
contrappone il dormiens, che sono io, al demens, che è l’altro.
Il metodo del dubbio si esercita sul dormiens che sono io,
e mi rende del tutto stupefatto, il mio stupor è quasi in
grado di persuadermi, “sono nell’incertezza della mia propria
veglia. Ed è in questa incertezza che io mi decido a proseguire
la meditazione” (Foucault, 1972, p.646). Riguardo al demens
non c’è alcun esercizio del dubbio metodico: “non sarei meno
folle se mi regolassi sui loro esempi” (Descartes in Foucault,
1972, p. 646). Il movimento di Cartesio, nel togliere di mezzo
qualsiasi possibilità di confronto con la follia e il delirio,
mette al sicuro la propria meditazione e, con questa, il soggetto
in quanto condizione di una certezza apodittica che si trova
solo a patto di un rifiuto del confronto con l’altro. Di qui
la possibilità di fondare una soggettività trascendente in
grado di tenere sotto controllo i propri pensieri, di produrre
certezze apodittiche e idee chiare e distinte, in grado di
manipolare il mondo indefinitamente ai propri fini. Ciò che
Heidegger chiamava il pensiero della tecnologia dispiegata:
l’impossibilità di trattare l’argomento della follia se non
in termini medici.
Bateson affronta la questione della trascendenza del Self,
non si confronta in modo diretto con Cartesio, né con la tradizione
filosofica occidentale. Piuttosto osserva le conseguenze pratiche
della mentalità occidentale applicata alla vita quotidiana.
Tuttavia l’osservazione che: “[…] non è possibile che in un
sistema che manifesti caratteristiche mentali una qualche
parte possa esercitare un controllo unilaterale sopra il tutto”,
non può non richiamare la critica foucaultiana a Cartesio.
L’esempio di Bateson è noto: immaginiamo di tagliare un albero.
L’uomo occidentale vede questa operazione come un’azione finalistica
dell’io che taglia l’albero. L’io, unico centro di controllo
dell’azione del taglio dell’albero, viene invece decostruito
da Bateson nella seguente maniera: “Più correttamente si dovrebbe
scomporre la questione come segue: (differenze nell’albero)-(differenze
nella retina)-(differenze nel cervello)-(differenze nei muscoli)-(differenze
nel movimento dell’ascia)-(differenze nell’albero), ecc. Ciò
che viene trasmesso lungo il circuito sono trasformate di
differenze … una differenza che produce una differenza è un’idea
o unità d’informazione” (Bateson, 1972, p. 349).
Secondo Bateson il Self è un espediente semplificatorio. Attraverso
la postulazione di un io si postula un’entità trascendente
al sistema, che lo controlla e agisce finalisticamente, in
modo da ottenere dal sistema ciò che vuole. La vicinanza di
queste considerazioni alle analisi svolte da Nietzsche a proposito
del soggetto sono impressionanti. In più punti Nietzsche osserva
come l’io o, come scrive in Aurora, “il cosiddetto ‘io’ ”
(Nietzsche, 1981, p. 106) altro non sia che un’illusione della
possibilità di controllare la vita, come se la vita possedesse,
nel suo essere vissuta, una sorta di pilota, di nocchiero,
di kybernetes che garantisce, da un piano di trascendenza,
la possibilità di esercitare su di essa un potere e un controllo
definitivi. La critica, esplicita oppure implicita, è ovviamente
rivolta al cogito cartesiano e alla messa in sicurezza dell’esistenza
attraverso la trascendenza del controllo. Nietzsche osserva:
“La nostra opinione circa noi stessi, che abbiamo trovato
per questa falsa strada, il cosiddetto ‘io’, lavora però,
d’ora innanzi, sul nostro carattere e sul nostro destino”.
Qual è dunque questa “falsa strada” di cui parla Nietzsche?
Quella dell’ “io penso”, oppure quella dell’ “io voglio” (Nietzsche,
1977, pp. 39-40). Chi però è riuscito a usare la migliore
metafora per descrivere il processo di costruzione sociale
di questo Self è, a mio avviso, senz’altro lo stesso Foucault.
Il Panopticon di Bentham, nella descrizione di Foucault, è
un progetto di carcere modello. A pianta circolare, con al
centro una torre di controllo abitata da un sorvegliante che,
attraverso le feritoie, vede, senza essere visto, la sagoma
del carcerato che si trova in una della tante celle che si
dislocano circolarmente lungo tutto l’arco del perimetro di
ogni piano del carcere. Le finestre, in vetro opaco, permettono
al sorvegliante di controllare continuamente la sagoma del
carcerato. Il carcerato, che non vede il sorvegliante, non
saprà mai, in alcun momento, se il sorvegliante lo sta o meno
osservando, ma in qualunque momento lo può presupporre. L’idea
di un carcere di questo tipo è un’idea pedagogica: l’interiorizzazione
del sorvegliante. Chi è dunque questo sorvegliante di cui
parla Foucault se non il cosiddetto “io” di Nietzsche, ovvero
il Self, pensato come entità trascendente che tiene interamente
sotto controllo il sistema, del quale parla Bateson? In effetti
il carcerato si può considerare del tutto riabilitato quando
ha interiorizzato pienamente il sorvegliante, quando cioè
è diventato finalmente il portatore del Self-control. Non
è un caso che questo progetto venga da un filosofo anglosassone,
Jeremy Bentham, e segni il coronamento di un’epoca in cui
il mondo puritano, sorto dalle correnti più rigorose e intransigenti
del protestantesimo, pone con gran forza la questione del
Self.
Come hanno osservato Berchovitch (1975) e Paden (1998), il
puritanesimo, fin dalle sue origini, e in particolare dal
momento in cui si stabilisce come modo di pensare e sistema
di vita nel New England, sente il forte bisogno di tenere
sotto controllo il Self, che viene rappresentato quale fonte
primaria del peccato e del tradimento. Perché ciò avvenga
è necessario che il Self venga sostantivato, si trasformi
cioè da un pronome che rappresenta una mera funzione sintattica
indicante la riflessività impersonale, in una cosa che può
essere nominata e accompagnata da un articolo e, perché no,
da un pronome possessivo: il mio Self. E’interessante osservare
però come nel mondo puritano il Self non fosse affatto considerato,
per il solo fatto di esistere, come entità autonoma, qualcosa
di positivo. Tutto al contrario, il Self era la fonte di ogni
malvagità, o addirittura il demonio stesso. Proprio per questo
motivo l’analisi del Self diventava fondamentale. Si trattava
però di un’analisi profondamente critica, il controllo sul
Self presupponeva una comunità di uomini retti, che fornisse
i criteri di verità attraverso i quali il Self veniva imbrigliato
e controllato rigorosamente. In primo luogo si trattava di
bandire qualsiasi istanza immaginaria, una sorta di iconoclastia
dell’animo umano. Ad esempio venivano banditi gli specchi
che, riflettendo l’immagine di sé, potevano fornire lo spunto
per un’illusione di autoaffermazione profondamente peccaminosa.
Questo tipo di tecnologia del Self sembra avere agito sulla
costruzione storico-sociale della trascendenza del soggetto
che può controllare pienamente le proprie azioni, ben più
in profondità della filosofia cartesiana del cogito. Questa
può bensì avere dato un contributo al pensiero occidentale
nella direzione di ritenere possibile il pieno controllo delle
proprie azioni in conseguenza del metodo che, nel produrre
la prima certezza apodittica, produce poi idee chiare e distinte,
tuttavia la diffusione di pratiche sociali che miniaturizzano
e scompongono i gesti della vita quotidiana rendendo produttiva
ogni nostra azione hanno le loro origini e radici in una trasformazione
profonda della mentalità. La microfisica del potere, così
come la intende Foucault, è costituita precisamente dall’analisi
e dalla descrizione di queste pratiche sociali quotidiane
e del determinarsi e trasformarsi, attraverso tali pratiche,
di tutti quei saperi che costituiscono il grande arazzo della
modernità.
Ma non è questo il modo in cui l’occidentale vede la sequenza
degli eventi che caratterizzano l’abbattimento dell’albero;
egli dice: “Io taglio l’albero”, e addirittura crede che esista
un agente delimitato, l’ ‘io’, che ha compiuto un’azione ‘finalistica’
ben delimitata su un oggetto ben delimitato (Bateson, 1972,
p.349). Quando Bateson scrive ciò, a proposito della sua descrizione
dell’azione di abbattere un albero, ancora una volta si distacca
nettamente dalla teoria sociologica dell’attore sociale che
non può non presupporre qualcosa come un “io” che calcola,
in modo strategico l’efficacia delle proprie azioni. Adesso
forse appare più chiaro il perché della forte polemica con
Haley [1], e in particolare
della famosa frase batesoniana: “l’idea del potere corrompe
sempre”. A mio avviso l’elemento corruttivo consiste precisamente
nell’ipotesi di trascendenza del Self. L’io, quale elemento
trascendente e capace di controllare l’intero sistema e l’intero
processo si pensa come un manipolatore assoluto: “lavora però
- come ha osservato Nietzsche -, d’ora innanzi, sul nostro
carattere e sul nostro destino”. Quindi e innanzitutto non
si tratta di un’idea sbagliata che non ha conseguenze. L’idea
del potere è un’idea che corrompe, cioè che ha conseguenze
nefaste sul nostro agire.
L’osservazione necessita di un dispositivo e il dispositivo
costituisce la texture dell’osservazione, comprese le pratiche
sociali che intervengono su quanto viene osservato. La schizofrenia
della psichiatria tedesca dell’Ottocento passava attraverso
l’analisi al microscopio dei tessuti cerebrali dei pazienti
deceduti, quella della prima metà del Novecento attraverso
le pratiche dell’universo concentrazionario manicomiale: terapie
elettroconvulsivanti, sedativi, letti di contenzione, quella
del secondo dopoguerra attraverso la psichiatria territoriale,
le psicoterapie di comunità, ma anche le teorie dei neurotrasmettitori
e la somministrazione dei neurolettici. L’osservazione contemporanea
della schizofrenia è guidata dai farmaci antipsicotici atipici
di nuova generazione: clozapina, olanzapina, ecc. Farmaci
che riducono al minimo gli effetti collaterali e che agiscono
sui cosiddetti sintomi positivi del disturbo. Lo schizofrenico
contemporaneo, sotto l’effetto dei nuovi farmaci non delira,
non ha allucinazioni, o poco, si alza la mattina per andare
a lavorare e va a letto presto. Non esce mai per desiderio,
non lo desidera. Uno splendido puritano del New England, uno
splendido lombardo. Il bevitore invece cerca di curarsi con
un pharmakon alternativo, così il tossicomane. Un fai da te
per procurarsi il delirio, ma anche per avere la forza di
lavorare. Imperativo puritano irraggiungibile. Potere e, direbbe
Deleuze, lavoro: “Si ritiene quasi che bere, drogarsi, ecc.
renda possibile qualcosa di troppo forte, anche se c’è un
prezzo da pagare, è chiaro, ma in ogni caso è legato a lavorare,
lavorare. E poi quando tutto si rovescia, quando bere impedisce
di lavorare, quando la droga diventa un modo di non lavorare,
è il pericolo assoluto, perde qualsiasi interesse. E ci si
accorge sempre più che si credeva l’alcol o la droga necessaria,
e invece non lo è affatto. Forse bisogna esserci passati per
accorgersi che tutto quello che si credeva di poter fare grazie
alla droga o all’alcol, si poteva fare anche senza. […] Io
ho avuto l’impressione che mi aiutasse a produrre dei concetti.
E’ strano … a fare dei concetti filosofici” (Deleuze, in Parnet,
2005).
Dunque il potere, ma anche il lavoro. O, come direbbe Foucault,
il potere in quanto esercizio di tutte quelle pratiche che
servono a tenere in vita, a rendere corpi docili: la riproduzione
sociale. Di fronte a ciò si affacciano sia l’alcolismo - e
la dipendenza da droghe - che la schizofrenia, ma in due modi
differenti. La dipendenza è un modo, maledetto, per procurarsi
quel delirio che, senza la sostanza, non viene. Da una parte
si pensa che ci darà la forza di lavorare, di produrre. Cioè
di eseguire l’imperativo della modernità. Dall’altra ci darà
il coraggio di affrontarla, questa modernità puritana e inesorabile
che ti costringe a pratiche ripetitive e irriflessive, non
solo in quanto operaio metalmeccanico della catena di montaggio,
come nei film di Chaplin e di Lang, ma anche come ingegnere,
architetto, medico. Oggi persino i cosiddetti “creativi” altro
non sono che scimmie ripetitive e monotone di un’epoca in
cui ancora D’Annunzio, Modigliani e Toulouse-Lautrec inventavano
pubblicità.
E la psicoterapia? Quanto la psicoterapia sia diventata, in
gran parte del lavoro nei servizi, uno strumento di controllo
sociale rigido, quanto le idee degli psicoterapeuti appaiano
oggi, nel loro complesso, vecchie e ripetitive, incapaci di
confrontarsi con le trasformazioni che investono in primo
luogo la famiglia è misurabile dalla maggiore influenza avuta
dai modelli strategici e comportamentisti. In questi mesi
in Francia si assiste a una battaglia portata avanti dagli
psicoanalisti e dagli psicoterapeuti sistemici contro l’offensiva
delle TCC, come chiamano loro le terapie cognitivo-comportamentali,
che presentano modelli d’intervento terapeutico improntati
a rigidi protocolli di valutazione, simili ai protocolli medici.
In Italia, gruppi e associazioni corporative si scagliano
in modo aggressivo contro nuove forme di intervento, come
il counselling, mostrando una verve inquisitoria che non potrà
che sfociare nella definizione di un mansionario rigido. Nelle
università italiane la psicologia, anziché venire considerata
tra le scienze umanistiche e sociali, viene aggregata sempre
più all’intelligenza artificiale e alle neuroscienze. Le metafore
biologiche e ingegneristiche la stanno facendo da padrone
e la mente diventa sempre più un campo di battaglia, un terreno
di conquista.
A chi, anche tra coloro che devono curare gli alcolisti, non
verrebbe voglia di bere nel pensare che anche noi siamo sottoposti
allo stesso meccanismo di riproduzione sociale che induce
gli alcolisti a bere e i tossicomani a prendere droghe? Insomma,
il bere e il drogarsi sono modi artificiali per cercare di
uscire dal meccanismo puritano così bene descritto da Max
Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Si tratta di un paradossale tentativo di sottrazione, che
ha come risultato una parodia: invece di non smettere mai
di smettere di lavorare, non si smette mai di smettere di
bere. Se l’alcolista è un Self ripudiato, ma che nel suo riprodurre
continuamente il suo stato di delirium fa tragicamente il
verso al capitalismo, lo schizofrenico al Self non accede
neppure, non ha bisogno di farsi ripudiare, non ha bisogno
di indurre il delirio attraverso l’uso di sostanze. Su questo
punto il mio pensiero su Gregory Bateson non può fare a meno
di richiamarsi alla tradizione ermetica, analogica e metaforica
che declina nel Seicento, questa dottrina delle analogie e
delle connessioni nascoste cui è stata sostituita, come ha
osservato Foucault (1967) un’epistemologia delle idee chiare
e distinte. Se l’io trascendente che Bateson descrive come
errore epistemologico dell’occidentale medio ha qualcosa a
che vedere con la metafora foucaultiana del Panottico di Bentahm,
allora l’ipotesi che entrambe queste figure di controllo derivino,
almeno in parte, da una tradizione di pensiero che pretende
di cancellare l’immaginario può orientare un’ipotesi di ricerca
critica su un aspetto della modernità.
Bercovitch (1975) sottolinea come all’eliminazione degli specchi
dalla cultura puritana del New England corrispondesse, nel
Rinascimento italiano, una vera e propria diffusione dello
specchio, concepito come strumento in cui l’uomo rimira se
stesso quale massimo capolavoro del creato, immagine e somiglianza
di Dio. Gli studi di Yates mostrano come, proprio negli ambienti
accademici inglesi, il dibattito sull’arte della memoria avesse
assunto il tono di una vera e propria battaglia ideologica
legata al ridimensionamento, se non addirittura all’eliminazione,
dell’elemento immaginario dalle tecniche rimemorative. Ciò
aveva contrapposto, al volgere del secolo XVI, la filosofia
di Giordano Bruno, e del suo allievo scozzese Alexander Dicson,
agli accademici di Oxford che, anche in conseguenza delle
posizioni sulla grazia divina emerse dalla Riforma protestante
- in particolare in merito alla dottrina del libero arbitrio
- intendevano far avanzare una vera e propria riforma del
pensiero che partisse da una revisione radicale dell’arte
della memoria. Si trattava di una nuova tecnologia basata
sul metodo step by step, ispirata alla dottrina logica di
Pietro Ramo: “Ramo accantona immagini e immaginazione e irrobustisce
la memoria con l’ordine astratto. Bruno fa di immagini e immaginazione
la chiave di un’organizzazione significante della memoria”
(Yates, 1972, p.223). Si tratta dunque di un conflitto delle
interpretazioni intorno a che cosa significa pensare. Con
le applicazioni del metodo di Pietro Ramo al pensiero si assiste
a una vera e propria riforma della memoria, e più in generale
della mentalità. Riforma che viene descritta in modo efficace
da Paolo Rossi: “Alla metà del Cinquecento, Pietro Ramo distacca
la memoria dalla retorica (alla quale apparteneva per tradizione
antichissima) e la trasforma in una delle parti o elementi
costitutivi della dialettica o nuova logica. Il metodo esercita
una funzione classificatoria. La logica è una topica universale.
Il problema del metodo si identifica con quello della memoria”
(Rossi, 1991, p. 51).
In Inghilterra si assiste a una duplice manifestazione culturale,
a una sorta di scontro tra modi di pensare. Da un lato l’influenza
di autori come Bruno e John Dee, l’esperienza del teatro elisabettiano,
l’opera di Shakespeare riprendono gli elementi più salienti
della cultura immaginativa rinascimentale: il sogno, il delirio,
la follia, ben rappresentati nell’opera shakespeaeriana -
si pensi all’Amleto, al Re Lear, alla Tempesta -; dall’altro
l’influenza calvinista e puritana, ispirate a un rigorismo
morale estremo che deve necessariamente trasformarsi anche
in un rigorismo culturale e intellettuale. Appare plausibile
che una concezione della memoria e del pensiero di tipo logico-razionale
abbia avuto conseguenze funzionali alle nuove concezioni teologiche
e della religiosità quotidiana emergenti dalla Riforma e fosse
particolarmente adatta a una dottrina dell’esame di coscienza
che partisse dalla disamina degli inganni impliciti nel Self,
cioè nell’idea di un essere umano che ha bisogno di mettere
sotto controllo il Self, di renderlo asservito alla necessità
divina e umana attraverso una rigorosa pratica di autocontrollo.
Là il mondo dell’analogia, qui il mondo della distinzione
rigorosa.
Nell’opera Le parole e le cose, Foucault (1967) descriverà
questa svolta epistemologica, a cavallo tra il Cinquecento
e il Seicento, precisamente come il passaggio da una dottrina
delle analogie a una dottrina delle distinzioni. Quali erano
dunque gli elementi salienti di questo pensiero analogico
e immaginativo? La tradizione ermetica - che aveva ispirato
gran parte dei sistemi di pensiero del Rinascimento italiano
a partire dalla traduzione del Corpo ermetico da parte di
Marsilio Ficino - poneva la questione del pensiero nei termini
di un’interrogazione intorno al mistero. Il Discorso di Ermete
Trimegisto: Poimandres, per esempio, esordisce così: “Un giorno,
in cui riflettevo sugli esseri e il mio pensiero si era innalzato
a grandi altezze, mentre i miei sensi corporei erano tenuti
a freno, come accade a coloro che cadono nel sonno, dopo essersi
abbondantemente saziati di cibo o dopo aver sopportato una
fatica fisica, mi sembrò che una figura di smisurate dimensioni
mi apparisse dinanzi e mi chiamasse per nome e mi dicesse:
“Che cosa vuoi udire e vedere, che cosa apprendere e conoscere
con il tuo intelletto?” (Corpo ermetico, 1997, p. 13)
Possiamo osservare da questo passo come, già fin dall’inizio,
la questione del significato del pensiero sia posta in maniera
radicalmente differente da come viene posta in Cartesio. Il
pensiero ermetico si presenta, a partire da quello che allora
veniva considerato il corpus originario del sapere, come un’interrogazione.
Ma non solo, la dimensione onirica, al contrario di quanto
avvenga in Cartesio, non viene affatto considerata come un
punto di passaggio del dubbio metodico, destinato a essere
superato, bensì come una dimensione della rivelazione: “Ed
ecco mi appare uno spettacolo infinito: tutte le cose divennero
luce, visione serena e gioiosa, di cui mi innamorai dopo averla
vista”. L’infinito non è una deduzione necessaria del pensiero
che esercita il dubbio metodico, bensì una visione immediata,
di cui ci si innamora. Qui siamo sotto la soglia delle scissioni
mente/corpo, sogno/vita desta, io/altro. Il sonno - e il sogno
- il corpo e le emozioni entrano nella trama del pensiero
ermetico come in una texture dalla quale non possono essere
scotomizzate. L’io presente nel Corpo ermetico, quando c’è,
è un’io narrante, costitutivamente coinvolto nella trama della
conversazione con l’altro, immanente a questa trama, incapace
di qualsiasi trascendenza, è un io che ha delle visioni, che
ascolta delle voci, che si confonde con queste visioni e con
queste voci, un equilibrio temporaneo tra l’apollineo e il
dionisiaco. L’immaginativo è l’elemento costituivo principale
di questo modo di pensare così come lo è, nell’esposizione,
l’elemento dialogico. Il Corpo ermetico si presenta come un
dialogo continuo, così come l’opera bruniana, gran parte dell’opera
ermetica e dell’opera ermeneutica. Non è un caso che i due
termini abbiano il medesimo riferimento al dio Hermes che,
come ha sostenuto Kermode (1993), è il dio dei ladri, degli
imbroglioni e degli araldi.
Gregory Bateson e il suo modo di pensare intricato, a tratti
contorto, esprimono la presenza di un dibattito interiore
che non si dà pace e che ha in comune con la tradizione ermetica
un pensiero nello sfondo della dimensione del sacro. Potremmo
dire, usando il gergo heideggeriano, che si tratta di un pensiero
che interroga l’Essere. Si tratta certamente di un pensiero
in cui l’immaginario assume connotazioni salienti a partire
da un’idea della forma come “struttura che connette il granchio
con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro
con me”. Così descrive la sua esperienza di insegnamento a
un gruppo di studenti di arte: “Era una vera fortuna che insegnassi
a persone che non erano scienziati e che anzi avevano un’inclinazione
mentale antiscientifica […] essi non erano come Peter Bell,
il personaggio di cui Wordsworth cantava;
A primerose by the river’s brim
A yellow primerose was to him
And it was nothing more
(Una primula sulla proda del fiume/era per lui una primula
gialla/ null’altro era) (Bateson, 1979, p.22).
Anche Foucault, in gioventù e negli ultimi anni della vita,
si era posto numerose questioni critiche in merito all’immaginario.
Il suo modo di parlarne era connesso all’uso di termini quali
visione e sguardo. Negli anni giovanili, nel saggio sul sogno
già menzionato nei precedenti capitoli, avanza una critica
decisiva al metodo interpretativo freudiano proprio sulla
base dell’esigenza di una rivalutazione dell’immaginario,
quando ancora il suo punto di riferimento teorico principale
era Husserl, Foucault scriveva: “Una cosa merita di trattenere
per il momento la nostra attenzione. Nel suo insieme questa
analisi fenomenologica che abbiamo abbozzato sulla base di
Husserl propone per il fatto simbolico tutt’altra scansione
della psicoanalisi. Essa stabilisce in effetti una distinzione
d’essenza tra la struttura dell’indicazione oggettiva e quella
degli atti significativi; o, forzando un po’ i termini, essa
instaura più distanza possibile tra ciò che rientra nel campo
di una sintomatologia e ciò che rientra nel campo di una semantica.
La psicoanalisi al contrario ha sempre confuso le due strutture;
essa definisce il senso mediante la verifica dei segni oggettivi
e le coincidenze della decifrazione. Di conseguenza, tra il
senso e l’espressione, l’analisi freudiana non poteva riconoscere
che un legame artificioso: la natura allucinatoria della soddisfazione
del desiderio. Dal lato opposto, la fenomenologia permette
di riafferrare il significato del contesto dell’atto espressivo
che lo fonda; in questa misura una descrizione fenomenologica
sa rendere manifesta la presenza del senso a un contenuto
immaginario.
Questa critica alla Deutung freudiana non è molto differente
dalle considerazioni jungiane intorno all’analisi dei sogni,
forse non è casuale che sia stata fatta nell’introduzione
al volume di Binswanger, che aveva lavorato con Jung a Zurigo.
Il bisogno di Freud, e di molti freudiani, di tenersi lontano
dalla mistica e il timore che rivestiva per lui un confronto
privo di presupposti con il mistero e con il sacro, lo avevano
portato a un modello interpretativo del sogno che non poteva
che fondarsi su un’ermeneutica del sospetto: il sogno è la
cifra della sintomatologia neurotica sottostante. Con ciò
l’immaginario viene immediatamente appiattito sul segno significante,
senza che tra le due dimensioni venga posta alcuna differenza.
La fatticità del sogno e la possibilità evocata dall’immagine
onirica vengono immediatamente ricondotte l’una all’altra
per diventare l’oggetto di un’interpretazione normativa che
ci indica una patologia possibile. L’analisi delle sfumature
e delle trasformazioni nelle rinarrazioni non modifica affatto
questo impianto, non è la sfumatura in sé a ripararci dal
paradigma indiziario, al contrario. Si tratta della patografia,
che prima ancora che essere un metodo di analisi letteraria
è il metodo di interpretazione del racconto onirico. L’immaginario,
condizione eminentemente fluttuante ed evanescente, si trasforma
in immagine statica, in icona. Si fissa diventando l’indice
della nevrosi. Questo significa anche che la cura di sé si
trasforma in una specifica tecnologia del sé: “laddove era
l’es, ora è l’io”. La tecnologia dell’analisi consiste nel
rafforzamento dell’io.
Il confronto, svolto da Foucault alcuni anni dopo, tra Freud
e Cartesio (1972) assume un senso in relazione al rapporto
tra l’immaginario e la costruzione sociale dell’identità,
è un’analisi che ci indica la cesura tra il pensiero occidentale
e la sua critica. Freud, come Cartesio, sebbene attraverso
una metodologia in parte, ma solo in parte, differente lavora
in direzione di una messa in sicurezza dell’io. La critica
al modo di pensare dominante in occidente sta da un’altra
parte. All’epoca di Bateson e Foucault, chiedere loro di esercitare
una tale critica sul versante delle pratiche sociali era forse
chiedere troppo. Foucault ci ha provato attraverso l’analisi
di alcune delle forme storiche della cura di sé. Bateson attraverso
la sperimentazione di una forma di scrittura metalogica, in
un dialogo quasi-immaginario con la figlia, ha tentato di
rendere attuale la sua conversazione interiore. Entrambi hanno
tematizzato l’osservazione come differenza: la mappa non è
il territorio, lo sguardo e l’enunciato sono e rimangono irriducibili
l’uno all’altro. Esiste sempre un’irriducibilità del linguaggio
all’osservazione, della mappa al territorio, del Self all’altro,
del pensiero alla creatura. Ciò rende Gregory Bateson e Michel
Foucault così tremendamente incompatibili con l’epoca che
stiamo attraversando, così inattuali.
Gilles Deleuze, coetaneo di Foucault, è sopravvissuto a entrambi
di oltre 10 anni. Ha attraversato un periodo storico assolutamente
nuovo, giungendo fino alle soglie di internet e dello zapping.
Epoca del definitivo declino televisivo, a vantaggio di nuove
forme di resistenza schizofrenica: la possibilità di avere
rapporti sessuali, amorosi e persino sentimentali attraverso
internet, la possibilità di passeggiare per le strade parlando
a voce alta con una voce che mi sta nell’orecchio, grazie
all’auricolare di un cellulare, ma anche a vantaggio di nuove
forme di resistenza alla schizofrenia, rendendo del tutto
remissivo e razionale un paziente potenzialmente altrettanto
schizofrenico di Louis Wolfson o di Daniel Schreber, attraverso
il risperidone o l’olanzapina. Tanto da permettere a un ministro
italiano della sanità di estrema destra - e certamente inconsapevole
del significato della schizofrenia, non in quanto di estrema
destra, ma in quanto politicante - di affermare che dalla
legge Basaglia non si torna indietro.
L’esperienza di lavoro che da alcuni anni stiamo conducendo
io e i miei colleghi presso il Centro Isadora Duncan è un
tentativo di affrontare, in tutta la loro complessità, le
tematiche relative alla post-modernità. Siamo contrari a un
post-modernismo semplicista e disimpegnato, un post-modernismo
senza preparazione culturale, da everything goes. Sentiamo
il bisogno di fare riemergere il pensiero congiuntivo nelle
pratiche sociali, cliniche e di consulenza. Il bisogno di
pratiche sociali critiche. Per questo il nostro intervento
di formazione degli operatori - a partire dalla nostra scuola
di counselling, fino alla formazione supervisione che svolgiamo
nei servizi - si presenta immediatamente come un approccio
non disciplinare, bensì di connessione tra l’antropologia
e il teatro, la psicologia clinica e la filosofia ermeneutica,
la mediazione culturale e la letteratura, la medicina e la
bioetica. La formazione, in questo senso, viene pensata come
una Bildung goethiana, piuttosto che come un addestramento
comportamentista, come un dialogo socratico, piuttosto che
come una lezione cattedratica, come un’interrogazione intorno
a domande legittime, di cui nessuno conosce ancora la risposta,
piuttosto che la presentazione già confezionata di modelli
e di tecniche d’intervento. L’idea è quella dell’atelier,
del laboratorio, piuttosto che quella dell’istruzione. Chiunque
dei nostri allievi può avere idee nuove e interessanti, purché
si crei un ambiente formativo che se ne accorga e le colga.
Ugualmente il nostro intervento con le persone e le famiglie
che si rivolgono a noi. Per questo abbiamo pensato a forme
di consulenza nuove, come i Gruppi Isadora Duncan, in cui
il teatro diventa una parte della terapia o del counselling.
I Gruppi Duncan consistono nel lavoro di un terapeuta, o di
un counsellor, a seconda delle circostanze richieste, che
lavora con un gruppo di persone che raccontano qualcosa che
le riguardi. Il racconto si trasforma, grazie alla presenza
di un gruppo di attori professionisti, in una narrazione scenica
che viene agita dagli attori in un momento successivo come
se fosse una prova di teatro. Questa modalità di lavoro con
i gruppi e con i gruppi di famiglie consiste in un’evoluzione
delle domande circolari come metodo di conduzione terapeutica,
elaborata negli anni Settanta dal Centro Milanese di Terapia
della Famiglia, e del reflecting team, inventato da Tom Andersen.
Le domande circolari creano un contesto conversazionale in
cui a un componente della famiglia viene richiesto di descrivere
che cosa succede quando altri componenti fanno qualcosa, ad
esempio: “Quando sua sorella litiga con suo padre, la mamma
cosa fa?”. In questo caso si crea una messa a distanza ironica.
La famiglia si vede descritta come in un racconto, da uno
dei suoi membri. Nel reflecting team la messa distanza ironica
è ancora maggiore, in questo caso è un gruppo di terapeuti
che conversano tra loro di fronte alla famiglia, con la famiglia
che li ascolta, dopo che uno dei terapeuti ha intervistato
la famiglia. I terapeuti raccontano il loro punto di vista
sulla conversazione con la famiglia e sulla famiglia a partire
dalla conversazione che si è appena svolta, creano uno spazio
narrativo nel quale la famiglia si rispecchia. Nella mia esperienza
questa tecnica è tanto più interessante ed evocativa quanto
più il gruppo dei terapeuti si rispecchia, a sua volta, nel
gruppo familiare. Per esempio, se il terapeuta conversa con
una coppia eterosessuale, avere una coppia di terapeuti eterosessuali
con cui fare il reflecting team produce uno strano rispecchiamento,
le gelosie sentimentali del marito verso la moglie potrebbero
rispecchiarsi nelle gelosie professionali del terapeuta uomo
verso la terapeuta, o viceversa e creare una strana sovrapposizione
che costruisce uno scambio di empatie multiple.
Nel caso dei Gruppi Isadora Duncan la messa a distanza è teatrale
e produce uno stato di contemplazione lirica, tanto maggiore
quanto maggiore è l’abilità degli attori che mettono in scena
immediatamente la narrazione della persona che partecipa al
gruppo. La persona si vede come a teatro. Accade che, mentre
il consulente e la persona che partecipa al gruppo ancora
conversano, già gli attori incominciano a muoversi, a prepararsi.
Poi accade che i riflettori si accendano e l’attenzione si
sposti dalla conversazione con il consulente verso l’azione
teatrale, è in quel momento che gli attori diventano un reflecting
team drammaturgico. Il narratore vede se stesso raccontato
a teatro e, come nella descrizione di Aristotele, si assiste
alla catarsi delle emozioni. Il potere evocativo di questa
azione è estremamente interessante. A volte si assiste a una
sorta di principio di sincronicità perché il narratore scopre
nella scena teatrale aspetti che ricorda come realmente vissuti.
E’ come se gli attori, in un certo senso, divinassero. In
un caso, per esempio, una donna raccontava che dopo oltre
15 anni di convivenza con il fratello, finalmente questi aveva
deciso di sposarsi e di andare a vivere in un’altra città.
Finalmente lei era libera e poteva godersi la casa, tuttavia,
in questa nuova condizione di libertà, provava una certa nostalgia
per le abitudini consolidate in 15 anni di convivenza. La
messa in scena di questo racconto vede due attori che a lungo
si abbracciano prima del distacco, con segni di ritorno e,
mentre uno dei due se ne sta andando, l’altro gli grida di
lontano: “Hai lasciato qui il cappotto!”. Al termine della
scena la donna dice: “Ma come sapete che mio fratello ha lasciato
a casa mia il suo cappotto?”.
Nello stesso tempo i Gruppi Duncan sono un serio tentativo
di uscire da un orizzonte logocentrico che ha a lungo caratterizzato
la psicoterapia in occidente senza per questo abbandonare,
come in esperienze più semplicistiche, la complessa interazione
tra il corpo e la parola, la ragione e le emozioni, le pratiche
e la teoresi antropo-filosofica. Ancora non abbiamo avuto
l’occasione di sperimentare il lavoro dei Gruppi Duncan con
pazienti psichiatrizzati, oppure in comunità terapeutiche
per le dipendenze. Nel primo caso si tratterebbe, in un certo
senso, di aiutare i pazienti a delirare, questa almeno potrebbe
essere la descrizione di Gilles Deleuze riguardo a una simile
attività (Deleuze, 1998). Cioè a fare un’esperienza narrativa
e teatrale insolita che possa ricollocare il loro delirio
nella dimensione artistica. E’ ormai convinzione comune a
molti colleghi con cui mi è capitato di conversare in questi
anni, in Italia e all’estero, in ambito di terapia familiare
sistemica come in ambito psicoanalitico, che l’esperienza
artistica e letteraria rappresenta un’importante occasione
di cura di sé anche nelle psicosi più estreme. Gli esempi
non mancano. Nel caso delle dipendenze invece si tratta di
trovare un modo diverso per procurarsi il delirio. Non più
grazie a una sostanza che ha effetto chimico, bensì grazie
a un’esperienza evocativa e corporea, sebbene indiretta.
I Gruppi Duncan si differenziano dallo psicodramma classico
per molteplici aspetti. In primo luogo non richiedono un coinvolgimento
diretto del paziente nel lavoro di drammatizzazione teatrale,
la messa in scena spetta ad attori professionisti e i pazienti
assistono come spettatori alla scena. Questo perché noi crediamo
profondamente nelle potenzialità terapeutiche della messa
a distanza ironica. Il coinvolgimento, parte inevitabile della
terapia come di alcune forme di consulenza, non può sussistere
senza il distacco e il distacco richiede una cura altrettanto
intensa del coinvolgimento. L’idea dei Gruppi Duncan è emersa
in una discussione del nostro centro a seguito della lettura,
da parte di alcuni di noi, degli studi sui neuroni mirror
(Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Secondo alcuni interessanti
esperimenti si è evidenziato come nell’osservare un’azione
siano interessati gli stessi circuiti neurali di chi svolge
le medesima azione, in una sorta di rispecchiamento empatico.
Attraverso i Gruppi Isadora Duncan abbiamo cercato di agire
la metafora dei neuroni mirror come strumento di psicoterapia
e di counselling.
In secondo luogo i Gruppi Duncan non sono necessariemnete
autobiografici, anzi, sebbene si riferiscano alla vita del
paziente che racconta, essi ne propongono una decostruzione
gestuale. Il gesto ridiventa qui frammento, come un insieme
di organi senza corpo. E’ interessante che nella nostra scuola
di counselling, come nelle piccola scuola di teatro condotta
da Agnese Bocchi e Silvia Briozzo, i partecipanti - operatori
sociali in formazione nel primo caso, persone interessate
alle connessioni tra teatro e vita quotidiana, nel secondo
- si chieda ai partecipanti di concentrare le proprie azioni
sul gesto. “Quando vi incontrate, scambiatevi uno schiaffo.
Non un buffetto, uno schiaffo. Concentratevi sul gesto, voi
siete lo schiaffo.” Dunque se lo psicodramma conserva legittimamente
una dimensione biografica, un life script, una self narrative,
chi si forma alla pratica dei Gruppi Duncan impara a ritornare
al teatro della frammentazione per creare, ma solo successivamente,
nuove connessioni dai frammenti gestuali così presentatisi.
Come un viaggio di regressione nella fase che Melanie Klein
ha definito schizoide, come una messa in scena della decostruzione
del Self operata da Gregory Bateson quando ridescrive “Io
taglio l’albero” come un gruppo di differenze nel sistema
“differenze nei muscoli-differenze nei colpi d’ascia-differenze
nell’albero, ecc.” Dalla narrativa emergono dunque, anzitutto,
gli elementi di frammentazione, le linee spezzate. Né mai
il lavoro ha come obiettivo un malinteso “rafforzamento dell’io”,
che non può, soprattutto nelle dimensioni delle psicosi e
delle dipendenze, che essere vissuto come un’imposizione normativa.
Ciò che emerge da questo lavoro, direbbe Wittgenstein, “si
mostra”.
NOTE
1] Sulla polemica con Haley
mi sono soffermato a lungo in Barbetta (2003, 2004), si vedano
anche le considerazioni di Zoletto (2003).
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