Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
SALUTE MENTALE, SERVIZI,COMUNITÀ E PARTECIPAZIONE: QUALE RAPPORTO?
Barbara Lucini
lilly_a@libero.it
Laurea Triennale in Scienze del
Servizio Sociale presso Università Cattolica del Sacro Cuore,
Milano; Tirocinio formativo assistente sociale presso Comune
di San Donato Milanese ( Milano), area adulti in difficoltà
e anziani (febbraio-maggio 2005); Tirocinio formativo assistente
sociale presso Consultorio familiare di San Giuliano Milanese
( Milano) (febbraio-aprile 2004).
La tematica
della salute mentale non può dirsi sicuramente una tematica
di recente attenzione. Fin dall’antichità, nel periodo dei
greci e dei romani, abbiamo assistito a molte discussioni
attorno alla definizione di salute mentale e che cosa debba
rientrare nel suo ambito di interesse. Questi confronti erano
animati dalla problematica dell’imputabilità e della sua presenza/assenza
nei casi di delitti. La legge della Roma antica si era già
espressa a questo proposito, indicando una prima distinzione
fra il concetto ‘fatuitas’ inteso come difetto d’intelligenza
e ‘furor’ come forma di follia. La definizione di salute,
che al suo interno comprende quella di salute mentale, è sempre
stata piuttosto controversa e soltanto recentemente, verso
la metà dell’ultimo secolo e grazie anche alle molteplici
ricerche sviluppate in tale direzione, si è giunti ad una
definizione di salute condivisa a livello internazionale da
molti Paesi, quale è quella proposta dall’OMS. Per l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, la salute è il completo benessere fisico,
mentale e sociale, quindi non consiste solamente in una assenza
di malattia o di infermità. Tale definizione contiene in sé
l’oggetto fondamentale su cui s’incentrerà tutta la successiva
analisi: l’interrelazione esistente fra salute fisica e salute
mentale.
Dalla metà degli anni ’80 s’iniziò a parlare di salute psico-fisica,
di quel connubio e di quell’armonia esistente (o che dovrebbe
esistere e che è tanto difficile da trovare in una società
complessa come la nostra) fra anima e corpo. La famosa citazione
di Oscar Wilde potrebbe venire in aiuto per una maggiore esemplificazione
del concetto espresso: “niente cura l’anima più dei sensi,
niente cura i sensi più dell’anima”. Potremmo ulteriormente
prendere ad esempio la corrente esistenzialista della filosofia,
la quale introduce il concetto di noi, in una duplice accezione:
un noi sociale, che si presenta ed instaura relazioni con
gli altri, ed un noi come sintesi fra io fisico ed io sociale.
Accade però, ed anche questo è un argomento di storica apparizione,
che avvenga una frattura fra ciò che noi pensiamo di essere
e fare e ciò che agiamo in concreto. E’ il caso dei cosiddetti
disturbi mentali, che generalmente vengono definiti come:
ogni sindrome di significativo rilievo clinico, meritevole
di interesse psichiatrico, connessa ad una disfunzione psichica
o biologica o comportamentale, che possa produrre disagio
o sofferenza o disabilità nel funzionamento sociale e che
si accompagna ad una importante limitazione della libertà.
La figura del malato di mente è cambiata nel tempo passando
da quella più religiosa che considerava il malato di mente
come colui che era posseduto dal demonio, a quella medioevale
del folle che spesso veniva raffigurato come il giullare di
corte ed infine a quella più strettamente medica, che considerava
la persona affetta da malattie mentali, come un paziente in
cerca di miracolose cure, che facessero scomparire i sintomi
e spesso non le cause della malattia mentale. Ora ci si è
accorti che non è più così e che non potrebbe essere più così:
pena l’anacronicità della nostra analisi sociologica e delle
basi delle nostre relazioni sociali. Quando si aiuta una persona
che presenta un disturbo mentale, la presa in carico diventa
totale: non è solo il suo disturbo a dovere essere posto sotto
attenzione ma è la persona in tutta la sua complessità a dover
essere aiutata in un difficile ma possibile percorso di reinserimento
sociale.
Parallelamente a questa evoluzione storica di concetto di
malattia mentale e della figura della persona malata di mente,
si è giunti ad un cambiamento culturale, sociale ed istituzionale
dei servizi, che operano a favore del reinserimento e del
miglioramento della qualità della vita di queste persone.
Certamente in Italia la legge 180 del 1978 meglio nota come
legge Basaglia dal nome del ministro che la promosse, ha portato
ad un cambiamento radicale nell’organizzazione dei servizi
alle persone che presentano malattie mentali ed in tutti gli
operatori, che in base a diverse competenze professionali,
personali e culturali intervengono in questo ambito. I vecchi
manicomi, oggetto di feroci attacchi da parte di movimenti
sociali ancora poco radicati nella struttura della società
italiana del tempo, sono stati gradualmente e non ancora del
tutto sostituiti da servizi socio-sanitari, dislocati su tutto
il territorio italiano. I riferimenti legislativi che hanno
promosso questo mutamento sono da rinvenire nella legge 833/1978
ed in particolare nel D.P.C.M. 29/11/2001 relativo ai Livelli
Essenziali di Assistenza. La struttura centrale in cui si
inseriscono questo tipo di servizi non è più l’U.S.S.L. ma
l’A.S.L. cioè un’azienda sanitaria locale. L’analisi dell’abbreviazione
è essenziale per comprendere tre concetti fondamentali: siamo
all’interno di una azienda con tutto ciò che può significare
(efficienza, efficacia, controllo qualità, utili, ecc.), siamo
in un ambito sanitario dove diventa necessario superare per
rispondere in modo più corretto ai nuovi bisogni post materialistici
(vedere Inglehart per un maggior approfondimento) che si presentano
in una società complessa come la nostra; infine il livello
locale pone attenzione alla relazione esistente fra utenti
e comunità.
In un contesto culturale così delineato diventa necessario
prendere in considerazione una nuova serie di risposte, che
possono non pervenire da un ambito strettamente istituzionale.
Risposte differenti possono nascere nell’ambito del terzo
settore o del volontariato. Ciò che però tengo sottolineare
è che non si deve pensare a queste risposte in modo dicotomico:
o la risposta istituzionale o quella da parte di servizi privati
o del volontariato. Come in ogni cosa e fin dall’antichità
è nel mezzo e nel dialogo che si ritrova la giusta risposta,
perché in questo caso le alternative rischiano di far perdere
proprietà essenziali e peculiari dei diversi tipi di intervento.
Per chiarire maggiormente ciò a cui mi riferisco tratterò
un esempio concreto.
Nel nostro servizio socio - sanitario, si presenta un ragazzo
ventenne con problemi di personalità. Sicuramente gli verranno
fornite tutte le cure essenziali per quanto concerne il suo
disturbo, ma l’intervento non si può o meglio non si dovrebbe
ritenere finito. Il professionista ha curato la malattia per
come si presentava ma rimangono ancora da affrontare le conseguenze
che questa malattia ha causato nella vita del ragazzo. I rapporti
familiari saranno sicuramente cambiati per assestarsi su un
nuovo equilibrio, le amicizie, l’attività di studio e lavoro
come quelle relative al tempo libero saranno certamente cambiate
e a volte potranno sorgere delle difficoltà. E’ in questo
esatto momento che non si deve scegliere fra interventi alternativi
ma interventi coordinati: si tratta di negoziare su più livelli
tutti gli interventi possibili che possono essere messi in
atto per aiutare la persona a vivere una vita migliore con
il riconoscimento dei diritti di partecipazione e la loro
reale possibilità di fruizione. A questo punto l’intervento
si dovrebbe articolare su una presa in carico congiunta: il
professionista psichiatra, la famiglia e/o le persone a lui
più vicine, l’assistente sociale, la comunità nella quale
vive e le organizzazioni di terzo settore e di volontariato.
L’importante quindi in questo ambito è mediare fra i diversi
bisogni che sorgono, nel rispetto del diritto di partecipazione
ed inclusione sociale che anche le persone che presentano
disturbi o disagio mentale devono vedere garantiti. A questo
proposito ritengo importante analizzare la teoria dell’appartenenza
di Hans Falck, studioso che si è interessato all’analisi delle
relazioni esistenti fra servizi sociali, società, comunità
collegate ai diritti di partecipazione. L’analisi di Falck
parte dal presupposto che nella nostra società contemporanea
ed occidentale (il riferimento ai valori di partecipazione
ed inclusione rende difficile estendere un’analisi sistematica
a culture differenti dalla nostra; la variabilità culturale
infatti, ci insegna che non tutti gli indicatori selezionati
possono essere adatti per tutte le culture). Falck stabilisce
che esistono differenti tipi di appartenenza: passando da
quella familiare, territoriale a quella comunitaria e sociale,
in un’ottica di crescente complessità. La teoria dell’appartenenza
concettualizzata sul finire degli anni ’90 è da ritenersi
rivoluzionaria per quanto concerne la visione delle relazioni
fra servizi sociali, operatori e comunità. In particolare
ciò che questa formulazione teorica propone agli operatori
socio-sanitari, ma anche a tutti coloro che a vario titolo
sono coinvolti in queste attività, è di ripensare al loro
ruolo professionale in una prospettiva comunitaria. Ciò che
viene chiesto a queste persone è di allargare le loro competenze
ed organizzare i loro interventi anche in considerazione del
fatto di operare con altri soggetti spesso differenti da loro,
per formazione, cultura, storia di vita. Per questo si è passati
da organizzazioni essenzialmente burocratiche e basate su
procedure rigidamente amministrative a organizzazioni orientate
al problema ed alla persona.
Il cambiamento che è avvenuto e che tuttora avviene in Italia
ma anche in quasi tutti gli altri Paesi Europei, interessa
più ambiti tra loro interrelati. L’ambito politico con il
passaggio dal welfare state alla welfare society o forse welfare
community, anche se questi sviluppi sono tuttora incerti.
L’ambito economico con l’avvento della globalizzazione e dei
mercati internazionali, che condizionano fortemente le relazioni
sia a livello di Paesi stranieri sia nel modo di concepire
il mercato all’interno di un singolo Paese. L’ambito sociale
non poteva essere esente da una rivoluzione dei suoi assetti
principali: è cambiata la famiglia, la scuola, il modo di
concepire il lavoro, le modalità di utilizzo del tempo libero.
L’ambito individuale: è cambiata la concezione che le persone
hanno del mondo e della società. Per un periodo di tempo abbastanza
lungo, partendo dall’epoca illuminista si è pensato che le
persone possedessero tutti gli strumenti ed i mezzi individuali
per ottenere ciò che desideravano nella vita. Poi altri fenomeni,
da quelli naturali a quelli umani hanno posto in evidenza
il fatto che le persone del ventesimo secolo vivono in un’epoca
storica caratterizzata dal rischio e dalla possibilità di
imminenti cambiamenti. Ritengo che anche sotto questo aspetto
l’immaginario sociale degli operatori sia cambiato. Si è passati
da una società fortemente tradizionalista ad una più innovativa,
improntata al cambiamento.
L’assunzione del rischio in una relazione, in particolare
con persone che presentano disturbi mentali deve essere in
primo luogo accettata e compresa come tale. Il rischio nella
società odierna non può non essere assunto come uno dei componenti
fondamentali di un qualsiasi intervento di aiuto in campo
sociale. Per queste considerazioni credo che gli operatori
e gli altri soggetti coinvolti in progetti di aiuto con persone
che presentano disturbi mentali, debbano essere formate sia
sul piano professionale sia su quello sociale verso l’assunzione
del rischio e le modalità di gestione e comunicazione. E’
su questa struttura sociale così articolata che si affaccia
la tematica dell’immaginario sociale degli operatori. Il disturbo
mentale è considerato e nei momenti di lucidità vissuto, come
fortemente invalidante, in quanto non permette di vivere la
vita in tutta la sua integrità. A poco a poco si viene esclusi
dalla scuola, dall’ambiente lavorativo, dalla partecipazione
alla vita comunitaria perché si viene considerati un pericolo,
un rischio per chiunque viva accanto a queste persone.
E’ la frammentarietà ciò che invalida queste persone. I disturbi
mentali molto spesso ricreano questa divisione fra loro e
noi, fra ciò che è interno e ciò che è esterno, fra il loro
mondo ed il nostro. Uno dei disturbi mentali più frequenti
ed associato anche alla giovane età, la schizofrenia ne è
un esempio. La stessa radice etimologica indica “mente scissa”
ed è su questa divisione che si instaurano i rapporti fra
operatori e persone che presentano disturbi mentali. In passato,
gli operatori che si occupavano di queste persone erano essenzialmente
professionisti formati in ambito sanitario e ciò identificava
e determinava il loro intervento ed il modo di affrontare
la tematica. Si sa per certo che la formazione ricevuta, sia
in ambito accademico sia non, orienta il modo di osservare
ed interpretare i fenomeni del mondo, è per questo motivo
che a mio avviso risulta necessario, nell’epoca in cui viviamo
estendere l’intervento con queste persone anche a professionisti
che non operano in campo strettamente medico.
L’immaginario sociale dei professionisti che operano in tale
ambito risulta influenzato dalle proprie esperienze personali,
dalla passata storia di vita, dalla cultura di appartenenza,
dalle precedenti esperienze e dalla formazione ricevuta ma
che attualmente continua in itinere. Questi indicatori possono
essere estesi anche all’immaginario sociale degli attori della
comunità locale che hanno visto una possibilità di azione
in una parte della vita comunitaria, che solo fino a pochi
anni fa era esclusivamente istituzionalizzata. L’immaginario
sociale di questi soggetti ha subito cambiamenti anche in
seguito all’entrata in vigore dei nuovi assetti legislativo
e politico-istituzionali affacciatisi sulla struttura sociale
dell’Italia degli anni ’90. I riferimenti legislativi per
comprendere l’attività di cooperative, associazioni e volontariato
sono rispettivamente i seguenti: legge 381/1991, legge 383/2000
ed infine legge 266/1991, emanate in modo differente dalle
varie Regioni. Nel prosieguo della trattazione vorrei sottolineare
l’importanza di tenere in dovuta considerazione, la variabilità
culturale presente in questi fenomeni. Prescindendo da essa
si rischia di non comprendere le azione intraprese fino ad
ora dagli organi istituzionali, le mosse degli attori del
terzo settore e del volontariato con le loro rivendicazioni
e peculiarità.
La mia esperienza di tirocinante assistente sociale presso
servizi socio-sanitari mi ha permesso di rilevare cambiamenti
su più livelli in questo ambito di intervento. La legge 328/00
letta ed analizzata in modo diacronico con la legge 142/90
permette di comprendere l’evoluzione strutturale dell’offerta
dei servizi alla persona. La stessa assistente sociale che
opera in questo tipo di servizi ha dovuto cambiare la sua
formazione, prevalentemente orientata all’approccio clinico
o sul caso per integrare modelli differenti di servizio sociale
quali il lavoro di rete, di équipe e/o di community care.
Con l’implementazione e l’applicazione nella pratica professionale
di questi modelli si è giunti ad un feed back retrospettivo
rispetto ai valori e ai principi della professione. I tre
mandati su cui opera l’assistente sociale, mandato professionale,
sociale, istituzionale sono fortemente cambiati. L’evoluzione
può essere analizzata grazie ad un assetto cognitivo quale
proposto da Lewin: il tutto non deve essere interiorizzato
e compreso come la somma delle singole parti ma come una integrazione
costante, con scambi omogenei fra le singole parti che compongono
il tutto.
Credo sia importante sottolineare come a fronte di una crescente
integrazione fra differenti servizi e professioni, vi sia
anche il forte riconoscimento di un’esigenza di specializzazione
che però, non può essere demandata ad altri, ma che il nuovo
o futuro professionista deve assumere su di sé. Da un lato
potremo trovare un professionista (assistente sociale, operatore
sanitario o socio-sanitario, medico, psichiatra) con una connotazione
fortemente specializzata, che possiede ottime capacità tecniche,
operative, metodologiche per lavorare nel suo ambito di intervento;
da un altro lato incontreremo un professionista capace di
empatia, di saper lavorare con e per le persone, organizzare
e gestire riunioni e lavori di équipe. Al contrario di quanto
si possa pensare, queste ultime sono sì attitudini ma anche
capacità che si acquisiscono nel tempo, dando agli altri la
possibilità di esprimere il loro pensiero, le loro opinioni
in un’ottica di circolarità comunicativa virtuosa.
Nella mia già citata esperienza di tirocinante assistente
sociale in un servizio socio - sanitario, ho avuto la possibilità
di partecipare a diverse riunioni d’équipe: la frase affissa
all’ingresso della sala riunioni era la famosa citazione di
Voltaire: “Non sono d’accordo con ciò che tu dici, ma darei
la vita perché tu lo possa dire”. Gli operatori, ma anche
i volontari e coloro che a vario titolo sono coinvolti nell’area
dei servizi per la salute mentale dovrebbero tenere ben presente
quanto affermato da Voltaire anche in applicazione al rispetto
e riconoscimento del diritto di partecipazione alla vita comunitaria.
A questo proposito la comunità nonostante fenomeni quali la
globalizzazione o il continuo innestarsi di nuove tecnologie,
che rendono sempre più le persone individui e sempre meno
persone ontologicamente definite come sistema aperto, si può
connotare come un soggetto, che nell’ambito delle professioni
di aiuto viene definito aiutante naturale. L’associazionismo,
il volontariato sono espressioni di solidarietà e vicinanza
umana presenti nella realtà italiana fin dai tempi meno recenti.
Pensiamo ad esempio alla parola ed al concetto di ospedale.
Etimologicamente deriva dal latino ospitalis ed in passato
questi luoghi erano conosciuti proprio per questa funzione
di ospitalità: non vi erano ricoverati solo i malati ma anche
orfani, vedove, poveri, persone con disturbi mentali; soggetti
questi che vivevano in condizioni di disagio ed emarginazione
sociale.
E’ innegabile quindi, che il ruolo della comunità debba essere
riscoperto e riconosciuto alla luce di tutti gli apporti positivi
che essa può dare. Non è però da dimenticare, che la stessa
comunità di così grande aiuto sia per le persone che presentano
disturbi mentali, sia per i professionisti che operano in
tale ambito può essere la fonte, grazie a latenti dinamiche
di gruppo, di una emarginazione sociale degenerativa. E’ necessario
quindi che i professionisti si formino personalmente e professionalmente
per immaginare il proprio operato ed i susseguenti risultati
anche verso la comunità, all’interno della quale e grazie
ad essa, dovranno attuare i progetti di intervento programmati
e concordati con tutti i soggetti coinvolti.
Ritornando quindi alle capacità ed attitudini che un operatore
dovrebbe possedere, ecco che rientrano anche le capacità di
mediazione, negoziazione e di rimandare i messaggi ricevuti,
in un circolo di comunicazione virtuoso ed efficace. La formazione
che si richiede quindi, ai nuovi operatori in questo mutato
contesto culturale, sociale, istituzionale è di catulliana
memoria e si esplica nel lavoro di labor limae tra sapere,
saper fare e saper essere. Il concetto di labor limae è sublime:
si richiede che il risultato del lavoro sia impeccabile, semplice,
disarmante. Tutto questo si può ottenere solo grazie ad un
faticoso lavoro di progettazione, organizzazione, negoziazione.
Ecco quindi la metafora letteraria con il lavoro svolto dagli
operatori, volontari e soggetti istituzionali: più soggetti
coinvolti su più livelli proprio come le parole ed i verbi,
la struttura grammaticale che si identifica nel contesto istituzionale
e legislativo, la punteggiatura è la cultura di riferimento,
che dà ritmo e senso a tutto il lavoro. Infine, il significato
esplicito e simbolico di questa architettura si ritrova nell’esperienza
professionale dell’operatore, ma prima ancora nel suo vissuto
personale e nel suo proprio modo di comprendere e vivere le
relazioni umane.
Alla luce di questo nuovo assetto professionale, culturale,
sociale ed istituzionale è possibile delineare richieste molteplici,
che pervengono agli operatori dei servizi psichiatrici. Da
un lato abbiamo le richieste dei soggetti istituzionali che
chiedono cura, assistenza e per certi versi anche controllo.
Altre richieste soprattutto etiche e deontologiche pervengono
dai diversi albi professionali a cui gli operatori aderiscono
e di cui fanno parte. Infine richieste meno formali e meno
organizzate delle due sopra descritte, provengono dai familiari
e amici delle persone con disturbi mentali e da tutta quella
rete, spesso invisibile ma molto articolata del volontariato,
delle cooperative e delle associazioni. Quelle appena descritte
sono richieste che per natura e sostanza si differenziano
molto le una dalle altre: c’è una richiesta di supporto e
sollievo dal carico familiare, di gestione dei periodi di
crisi, di cura medica, di promozione e sviluppo della partecipazione
alla vita lavorativa e sociale della comunità. Per gli operatori
e per tutti i soggetti coinvolti, ciò significa prendere in
carico una situazione, sociologicamente definita multiproblematica
e con la quale si devono confrontare le loro esperienze, la
loro personale storia di vita, la formazione, le aspettative.
E’ importante sottolineare che tutto questo, che apparentemente
sembra rientrare nella sfera della vita lavorativa, in realtà
per gli operatori coinvolti si estende anche alla sfera di
vita personale e relazionale. Un operatore o un soggetto che
a vario titolo lavora nell’ambito della salute mentale viene
continuamente investito da rimandi etici, mitologici ed antropologici
di varia entità e natura.
Conclusioni
Il presente articolo si era proposto e spera di averlo raggiunto
l’obiettivo di presentare nel modo più chiaro possibile, come
è cambiata la situazione sociale, politica ed istituzionale
in Italia nell’ultimo ventennio, in riferimento all’area della
salute mentale ed alle persone che presentano disturbi mentali.
E’ innegabile che essa sia un’area di sicuro fascino ed interesse
perché, nonostante le molte ricerche medico - biologiche -
psicologiche - sociologiche effettuate in questo ambito, i
disturbi mentali rimangono tuttora avvolti da un alone di
mistero. Questo da un lato porta le persone a sottovalutare
il problema della salute mentale, a volerlo nascondere perché
non si sa come affrontarlo, come gestirlo, come viverlo.
Dall’altro lato l’area della salute mentale pone in essere
molte sfide agli operatori ed a tutti i soggetti della comunità,
che a vario titolo sono coinvolti. E’ il cambiamento di cultura,
il vero motore dei mutamenti radicali, epocali, innovativi:
a mio avviso e dalla prima esperienza vissuta ho potuto notare
che andrebbe promossa e diffusa una cultura, (non tanto o
non solo specifica della salute mentale e non solo fra gli
operatori istituzionali) della partecipazione, della promozione
e dell’empowerment delle persone che presentano disturbi mentali.
Solo riconoscendo culturalmente che le persone si possono
liberamente autodeterminare, tenendo però in dovuta considerazione
gli imprevisti, le causalità (serendipity è un’esemplificazione
nella cultura anglosassone di quanto si sta esprimendo in
questa sede), che sempre animano la vita di tutti noi, è possibile
fare un ulteriore e più importante passo avanti nella promozione
di una cultura della partecipazione e solidarietà comunitaria,
che svolga un’azione di lotta pacifica all’emarginazione ed
al disagio sociale originati dalla presenza, in certe persone,
di disturbi mentali.
Infine, da quanto mi è stato possibile osservare, nel nostro
attuale contesto sociale esistono ed in parte sono già in
atto gli strumenti istituzionali e legislativi per promuovere
interventi, che abbiano l’obiettivo di migliorare la qualità
della vita delle persone che presentano disturbi mentali.
A volte si tratta solo di riconoscerli ed utilizzarli secondo
i differenti paradigmi teorici e le diverse metodologie proprie
di ogni soggetto coinvolto, in un’ottica di comunicazione
e negoziazione reciproca ed efficace.
Il rapporto quindi che esiste fra servizi e comunità nell’ambito
della salute mentale, si può definire di natura circolare
e virtuosa. Tutti i soggetti coinvolti necessitano di quel
giusto grado di riconoscimento al fine di potersi attivare
in modo autonomo e comunitario per una futura, possibile e
completa partecipazione alla vita comunitaria di tutti i soggetti,
anche i più svantaggiati.
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