Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
SALUTE MENTALE NELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO
Augusto Debernardi
augusto.debernardi@tiscali.it
Laureato in Sociologia all'Università
degli studi di Trento. Dal 1971: è stato componente dell’équipe
del Prof. Franco Basaglia all’Ospedale Psichiatrico Provinciale
di Trieste; diplomato all’INSERM di Pargi in epidemiologia
Psichiatrica; coordinatore dell’équipe sociopsicologica dell’Alloggio
Popolare Gaspare Gozzi di Trieste; componente dell’équipe
O.M.S. per la psichiatria; collaboratore Unità Operativa dell’istituto
di Psicologia del CNR per la prevenzione malattie mentali
ed autore di parecchie pubblicazioni; editor del Centro Studi
per la salute Mentale, Collaborating Center W.H.O.; fondatore
dell’U.O. per l’epidemiolgia psichiatrica ed autore di numerose
ricerche e valutazioni; specializzato in statistica sanitaria
e programmazione sanitaria; esperto nel settore della cooperazione
nel campo della salute mentale nella Repubblica di Argentina
e del Cile; Coordinatore Sevizi Sociale presso l’ASS Isontina;
direttore servizi minori Comune di Trieste; Collaboratore
dell’Associazione Oltre le Frontiere per le questioni dell’immigrazione;
collaboratore della CARITAS della diocesi di Gorizia per la
questione del manicomio di Nis (Serbia); Direttore di Area
Provincia di Trieste; Presidente dell’ITIS (Istituto Triestino
per Interventi Sociali); componete dello staff del direttore
generale ASS Triestina; Presidente Co.Ri. (Consorzio per la
riabilitazione); animatore dell’associazionismo in temi culturali
e dell’integrazione europea. Fino al 1971: collabora con l'ARIP
di Parigi (Association pour l’intervention psycho-sociologique);
è assistente all’Istituto di Psicologia Sociale e di Psicologia
del Lavoro dell’Università degli Studi di Torino; componente
in qualità di sociologo al Segretariato per la Psichiatria
della Provincia di Cuneo; consulente del Centro di Orientamento
Scolastico e Professionale di Cuneo dove tra l’altro ha lavorato
alla taratura degli strumenti testistici; consulente per la
P.O.A. per l'Istituto Psico Medico Pedagogico di Latte di
Ventimiglia.
Io partirei
(il condizionale la dice lunga) da un’affermazione di Franco
Basaglia “io sono uno psichiatra, non un antipsichiatra”.
Questa affermazione la dice ancor più lunga, anzi lunghissima
… perché rimette al centro ciò che riconosce: il potere. Riconoscere
il potere che ‘ci’ viene attribuito, usarlo per dichiarare
o denunciare il nostro non sapere (non so cosa sia la follia,
diceva Basaglia) e per dire invece che riconosco il ‘malato’
ed i suoi bisogni, i suoi diritti, vuol dire assumere tutte
le contraddizioni esistenti. Una testimonianza concreta o
una citazione: Sergio Zavoli, nel reportage RAI “I giardini
di Abele” chiede a Basaglia - allora direttore dell’ospedale
psichiatrico di Gorizia - cosa sia più importante per lui,
la malattia od il malato. Basaglia non ha dubbi, nessun dubbio.
La sua risposta fu (ed è): il malato. Ciò vuol dire stare
dalla parte del debole; vuol dire ‘deistituzionalizzare’ -
proprio perché non si può fare altrimenti - tutti gli aspetti
annessi e connessi dei saperi propri e di quelli limitrofi:
l’amministrativo, il finanziario, l’economico, il lavorativo,
il relazionale, l’affettivo, la sessualità, la creatività,
la partecipazione, la libertà, l’identità etc. etc. …
Se non si parte da una centralità (sociale, praticamente sociale,
la società concreta) o meglio da un baricentro (sempre sociale)
concreto la quaestio “cosa è o sia la salute mentale o il
suo opposto” diventa un esercizio di emissione di fiati, suoni,
grafie. Per esempio, avete mai chiesto ad uno psichiatra cosa
è per lui la malattia mentale? Cosa o chi è il ‘matto’? Ma
si pensa che Michel Foucault ne abbia mai dato una definizione?
Mi sarebbe piaciuto domandarglielo. Un giorno lo chiesi a
Guattari … si mise a ridere di gusto e poi diventammo piuttosto
amici, anche se ci frequentavamo in rare occasioni come quelle
che ci consentivano i convegni, i seminari sul tema. Come
un giorno in Grecia, (non per turismo) in un momento sociale
o storico in cui diventava centrale la categoria della complessità.
Era diventato abbastanza di moda l’effetto butterfly! C’era
molta ironia, specie da parte mia in quel locale di Atene:
volevamo mettere in piedi il réseau mediterraneo, quello dei
paesi mediterranei, della salute mentale e la riunione era
in Grecia, dopo Siviglia. Le cose non andarono affatto nel
verso giusto, sperato, desiderato: il potere istituzionale
non ammette reti perché ha già tutto quello che gli occorre
nella sua gabbia ed il resto - corollario - è già in rete.
Al potere non interessa l’egemonia (culturale). Ma feci tesoro
dell’esperienza ed attraverso questa capii l’instabilità delle
reti!!!
Avevo (ed ho) sempre lo sguardo attento ed attratto dall’istituzione,
dal percorso istituzionale … perché il potere produce, o Dio
se produce. Produce di tutto: stereotipi, spettacolo, malafede,
menzogna-come-verità, continuo rinnovamento tecnologico, la
fusione economico-statale, il segreto generalizzato, un eterno
presente, il falso indiscutibile (G. Debord, 1967). Che senso
ha parlare di malattia mentale nella società dello spettacolo?
Nessuno. Nessuno in un mondo di immagini che ‘sono’ la realtà,
il mondo reale. Le semplici immagini divengono degli esseri
reali. Per il sociologo, per un analista - un pochino controcorrente
(sennò si prenda uno dei vari DSM 3-4-5-6 …) - cosa occorrerebbe
fare? (sempre il condizionale). Occorre parlare e vedere,
studiare ciò che passa fra il medico (psichiatra) ed il malato,
l’uomo che soffre, l’uomo reale. E’ vero, ci sono altri addetti,
ma la centralità del potere sta lì. Non dimentichiamo che
l’unico essere (ruolo) che può permetterti di saltare il lavoro,
quello che svolgi e ti dà da vivere, senza rimetterci (troppo)
è solo il medico: i meccanismi di regolazione/controllo sociale
ci sono eccome.
Non credo che un processo di ‘inclusione’ avvenga perché si
è diventati più buoni o buonisti: avviene perché qualcuno
discetta sul suo potere e riconosce - almeno - dei limiti
(suoi) e delle possibilità altrui, di altri saperi, ruoli,
ancillarità varie. Ma ho l’impressione che siano in ‘seconda
battuta’ anche se poi si resta … a vita, nel cronos totale
in quegli altri domini, magari diventati - nel frattempo -
strumento di immagine del reale-potere.
Si può essere più o meno ‘cattivi’ di fronte ad una sanità
che - prioritariamente per motivi di bilancio e basta - vuole
guarire e basta, nel breve periodo - il resto è cosa di altri
- e dunque di fronte allo psichiatra che vede il ‘caso’ e
poi lo indirizza, lo smista, lo tratta con altri, lo affida
a … Penso che anche lo psichiatra più democratico e buono
che ci sia avrà molta fatica a lasciarsi sfuggire pezzi del
mosaico del suo dominio. Piuttosto, attraverso le procedure
di diagnosi - separazione - non riconosce come sua competenza
il caso piuttosto che lasciar crescere un’autonomia profonda,
socialmente nuova.
Eppure è su questo sociale che l’inclusione avviene … attraverso
l’esercizio dei diritti soggettivi. Franco Rotelli, colui
che ora dirige Trieste come D.G. dell’azienda sanitaria e
non solo più del dipartimento di salute mentale dice una cosa
‘forte’ a proposito del non sapere cosa sia la follia … “e
non ce ne frega niente di saperlo”. Anche questo la dice lunga
e su questa lunghezza il confronto è aperto e sarà apertissimo.
Io mi accontento di lanciare qualche progetto, costruire opportunità
e di gioire se riesco ad esprimermi con l’espressione altrui.
Ma riesco ancora a ricordare qualche cosa nonostante l’età.
Ricordo che intorno alla fine degli anni ’70, con Basaglia
ancora vivo, lavoravo sul campo e facevo ricerca. Una di queste,
poi pubblicata nella collana del CNR-Istituto di psicologia
diretta da Raffaello Misiti (grande amico di Basaglia) edita
dal Pensiero Scientifico, aveva come oggetto il ‘servizio
di diagnosi e cura presso l’ospedale maggiore di Trieste,
o meglio il servizio di reperibilità che era stato avviato
ancor prima della legge 180 per contrastare sul nascere la
coercizione psichiatrica che ricorreva al ricovero obbligatorio
cioè coatto (poi fu TSO). Avevamo individuato un imbuto del
percorso di accesso al manicomio e là bisognava accedervi
per migliorare le cose. Ma questo era avvenuto perché avevo
coniato una nuova variabile, sempre all’interno del circuito
del controllo sociale o della regolamentazione procedurale:
l’agente del contatto.
L’agente del contatto è colui, cittadino, semplice familiare,
medico, sanitario, assistente sociale, guardia, vicino di
casa, amico, parente, moglie, marito, figlio/a etc. … che
per primo indirizza o fa accedere al servizio psichiatrico
l’interessato. Una specie di emettitore di diagnosi, un diagnosta
fai-da-te. Se ci si colloca in queste procedure si interrompono
le risposte preformate, cum grano salis. Ed è quello che accadde
e che fece diminuire quasi a zero i ricoveri coatti ancor
prima della famosa legge 180. Oggi, nell’epoca dello spettacolo
l’agente del contatto non c’è più. Chiunque sa’ che di fronte
ad un caso qualunque c’è sempre un’istituzione pronta a dire
la sua, a dire di essere competente. E’ assai rassicurante,
scientificamente accreditato ed accreditante. Tutto in astratto.
Nella realtà le cose sono assai più complesse e complicate,
difficili e spesso impossibili. Creare relazioni significa
semplicemente lavorare controcorrente. La società dello spettacolo
è veloce. Le relazioni necessitano di tempi e tempo.
Diventa così facile colpevolizzare i familiari, dire che le
case di riposo sono dei lager. Ed ancor più facile e doveroso
è tacere su chi invia nei posti vituperati a parole. Manca
l’operare-pratico, il praticamente-vero. Avete mai sentito
dire ad uno psichiatra che “qui ci vorrebbe un sociologo”
o che so un’altra figura? Di solito sentirete dire da loro
che la competenza è di un’altra istituzione, quasi sempre
del comune. Questa impersonalità di figura significa che il
discorso prodotto sta indicando che il caso necessita di un
altro ente di budget. Ecco la conseguenza dell’aziendalità.
Non solo. Poiché viviamo nella società dello spettacolo in
cui il corpo è diventato un involucro della scena dell’uomo
che può essere cambiato a piacimento e costruito a misura,
tutto quanto si riferisce a desso trova sempre quell’istituzione
presupposta competente. Anche se di mezzo c’è corpo e psiche.
La relazione corpo/spirito è saltata a favore della relazione
uomo/corpo. Il body builder è sempre all’opera; i bricoleurs
inventivi ed instancabili dell’artigianato dei corpi che sta
diventando l’industria del corpo in cui l’apparenza alimenta
il sistema sociale in maniera spettacolare. E qui la psiche
è scotomizzata, è apparenza.
E’ così apparenza che non stupisce più nessuno tenere una
riunione di alto livello ideologico (chiacchiere allo stato
puro sulle istituzioni, il potere, la salute mentale, la follia
etc. …) in una stanza di un sudicio, sporco, lercio, puzzolente
manicomio di un qualunque luogo del mondo. A nessuno verrà
mai in mente di prendere una scopa, degli stracci e di incominciare
a pulire. Il lavoro … che c’entra? L’ideologia spettacolare
allo stato puro è la menzogna che si fa realtà e verità. La
rete cibernetica come il corpo cibernetico è la maschera che
avvolge tutti. Così la sofferenza viene “non vista” (come
il lerciume del luogo di cui dicevo poco sopra) e considerata
irrilevante se non per dei discorsi di prammatica ai media
di turno.
Ma nel mosaico sociale c’è bisogno di infiniti tasselli perché
troveremo sempre una persona che non ci sta nel poligonetto
già riservato. Potremo dire che l’apparato psichiatrico può
fornire una “resilienza” sociale (funzione che permette di
affrontare gli shock relazionali) ma le varie relazioni che
si inverano nel campo sociale - anche attraverso l’espressività
artistica che può traslare moltissimo - sono quel nocciolo
forte che permette uno statuto pratico di cittadinanza e non
di stereotipia istituzionale. Un momento della vita di quella
che vorrebbe usare lo spettacolo e non esserlo perché semplicemente
vita, vera. Nell’epoca del trionfo del nichilismo-fai-da-te
è cosa complicata. Non a caso siamo nel magma della qualità.
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