Santé mentale et imaginaire social à l'âge de l'inclusion sociale
Orazio Maria Valastro (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.4 Octobre-Décembre 2006
SOGNO, IMMAGINI E DISAGIO PSICHICO: UNA CURA PER L’ANIMA
Ferdinando Testa
testaferdinando@libero.it
Psicoterapeuta, psicoanalista
junghiano (Centro Italiano di Psicologia Analitica, Catania);
è impegnato da anni nel lavoro clinico-riabilitativo con i
pazienti psicotici, in strutture socio-sanitarie per la cura
e l’inserimento lavorativo; studioso dell’immagine e delle
sue implicazioni nel mondo dell’arte e della terapia, è autore
di numerosi articoli e relazioni in ambito scientifico; ha
curato per Moretti&Vitali i volumi L’Immagine nell’Arte, nella
Tradizione, nella Psicologia Archetipica (1997), I Territori
del’Alchimia, Jung e oltre (1999), La Psiche e gli archetipi
dello Spirito (2003), e per Vivarium ha curato Psicosi e Creatività
(2003); è presidente dell’Associazione Culturale 'Amici della
Collina' che si occupa del pensiero immaginale e archetipico;
è stato docente a contratto di Psicologia dinamica presso
l’università di Enna; vive e lavora a Catania.
Il modello
analitico junghiano nella cura delle psicosi si pone indubbiamente
come una strategia terapeutica che parte dalla realtà psichica
del paziente come una base sicura per esplorare la dimensione
psicopatologica fatta di deliri, allucinazioni, paradossi
e metafore, rispettando l’autenticità del rapporto umano,
come condizione indispensabile in ogni processo di cura e
di trasformazione. L’attenzione alla realtà psichica del paziente
nella concezione junghiana non è da intendersi avulsa dal
contesto socio-relazionale, secondo una visione anacronistica
ed a-storica come spesso si ritiene, perpetuando una scissione
tra la sfera interna ed esterna, sociale ed individuale, piuttosto
che cogliere la complessità e la poliedricità della personalità
umana, considerata come sintesi di coscienza ed inconscio,
affettività e cognitività, individuale e relazionale, pensiero
e sentimento, sensazione ed intuizione secondo le ipotesi
tipologiche avanzate da C.G.Jung (1982).
Questa premessa risulta necessaria ed importante in quanto
contribuisce a sgombrare il campo terapeutico e psichiatrico
da una visione della psicoanalisi junghiana ritenuta spesso
a torto metafisica, mistica, a-scientifica e non in grado
di curare la dimensione psicopatologica, rimuovendo il lavoro
personale e concettuale di Jung che da buon psichiatra e poi
da psicologo analista, si è occupato durante la sua vita delle
psicosi. Tutto ciò è stato arricchito con i suoi lavori scientifici
e col materiale comparato derivante dalla dimensione simbolica
e mitica così importante in una welthaschung del disagio mentale
grave, impregnato di simboli ed immagini archetipiche che
hanno invaso la coscienza, destrutturato l’Io rimasto ancorato
nel labirinto della follia. Pertanto, di fronte al mondo della
psicosi, possiamo dire con il linguaggio metaforico, il viaggio
dell'Io si è arenato e incastrato nei frammenti di una personalità
scissa, frantumata ed il Sé come se si fosse ritirato in un
labirinto sempre più popolato da un minotauro che tormenta
il pensiero, la ragione, le emozioni e i sentimenti di chi
vive di relazioni sociali distorte, fantasie letteralizzate,
metafore scambiate per realtà tangibile e paure ad affrontare
la realtà esterna e la dimensione del sociale.
In tale ottica, il lavoro con le immagini patologizzate, la
conoscenza e l’elaborazione da parte del terapeuta della dimensione
transferale e controtransferale all’interno del setting terapeutico,
l’utilizzo di strategie riabilitative legate alla sfera delle
immagini (l’arte terapia, il disegno, la pittura, il gioco
della sabbia, l’analisi dei sogni) contribuisce a conoscere,
comprendere e curare. E’ importante che tutto ciò coesista
accanto ad una analisi della dimensione istituzionale e gruppale
di cui la psicosi vive ed è organizzata, contagiandosi questa
ultima di una dimensione sociale rappresentata dalla realtà
e dalle dinamiche interrelazionali. Queste modalità di intervento
e di approccio rappresentano fasi consecutive e progressive
di un progetto terapeutico riabilitativo che muovendosi lungo
l’asse di una continuità affettiva e cognitiva permette di
restituire al paziente diritto di cittadinanza, dignità e
dimensione teleologica a chi ha smarrito l’unità della proprio
Sé nei meandri di disfunzioni organiche ed esistenziali.
Lavorare con la clinica, la sofferenza, il dolore, l’angoscia
di esistere che i pazienti psicotici portono sotto forma di
sintomi, immagini, sogni, deliri, allucinazioni e di ciò che
e racchiuso nelle pieghe di una vita allontanatosi da Eros
e approdata nelle braccia di Thanatos, è una scommessa ardua
per ogni operatore della Psiche che oltre ad affidarsi alla
dimensione e alla ricerca farmacologica, può e deve integrare
la propria funzione esplorando nuovi sentieri che partendo
dalla realtà psichica del paziente allargano e completano
l’orizzonte con la dimensione sociale e l’inserimento lavorativo.
In tal senso, allora, l’intervento a cui fa riferimento il
modello analitico, sperimentato ed aggiornato quotidianamente
nella prassi clinica, e non solo nella stanza analitica, nel
confronto teorico e dialettico con i diversi orientamenti,
si pone come obiettivo la restitutio ad unum, quest’ultima
intesa in una concezione globale dell’unione del soggetto
con se stesso e col mondo esterno di cui fa parte. Nella dimensione
concettuale e terapeutica della psicologia analitica il lavoro
con le immagini si pone come una sorte di spartiacque che
caratterizza la specificità e l’identità della clinica junghiana,
terreno di incontro col mondo delle psicosi, avvicinandosi
al mondo dei deliri e delle allucinazioni come aspetti fenomenologici
dove la dimensione personale si interseca con quella archetipica
e il senso della propria esistenza ha potuto trovare un contenitore
forse unicamente attraverso la voce dei deliri e delle immagini
patologizzanti.
In tal senso, le immagini accompagnano lungo il viaggio della
vita, albergano nei ricordi delle storie prive di fiducia
e di amore e possono condurre alla follia oppure rappresentare
una ancora di salvezza in un mare tempestoso su una nave senza
nocchiero. Questa l’esperienza d’incontro con le immagini
dello psichiatra zurighese C. G. Jung nella sua autobiografia
“Ricordi, Sogni e Riflessioni”, esperienza fortemente inquietante
e collegata al suo lavoro con i pazienti schizofrenici: “Finché
riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare
le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente
calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora
sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio. Forse
avrei anche potuto scrollarmele di dosso, ma in tal caso sarei
caduto inesorabilmente in una nevrosi, e alla fine i contenuti
mi avrebbero distrutto ugualmente. Il mio esperimento mi insegnò
quanto possa essere d’aiuto - da un punto di vista terapeutico
- scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro
le emozioni.” (Jung, 1987)
Sperimentare e poi acquisire, attraverso l’immersione nelle
acque profonde ed agitate della dimensione interiore, la consapevolezza
di come la conoscenza della dimensione immaginale nel terapeuta
possa accanto ad una adeguata e costante formazione e supervisione
condurre il paziente verso la possibilità della trasformazione
e del processo di individuazione, sembra porsi come una delle
molteplici conseguenze da trarre dal pensiero di Jung così
importante e fondamentale nella psicoterapia della schizofrenia,
dal momento che le emozioni congelate o vulcaniche nella dimensione
psicotica hanno prodotto una scissione col mondo delle immagini
e delle rappresentazioni simboliche, avendo come conseguenza
la destrutturazione della dimensione cognitiva. È in questa
area che il terapeuta della psicosi deve penetrare, seguendo
le proiezioni inconsce (immagini patologizzate e simboli psicotici)
del paziente e con la sua consapevolezza psichica derivante
da anni di lavoro e di formazione analitica, correre il rischio
di farsi toccare e trasformare, riuscendo a reggere alla rabbia
e all’odio devastante che si incontra ogni volta che gli attacchi
al legame fanno la loro comparsa sulla scena terapeutica,
in attesa che un simbolo creativo, un sogno, un disegno, una
immagine transferale e controtransferale indichi l’albeggiare
di un nascente pensiero nato dalle ceneri di una fenice, una
coscienza integrata e non più inflazionata dalle forze pulsionali
dell’inconscio: “Ars requirit totum hominem (l’arte esige
ed impegna tutto l’uomo) è detto in un trattato. La partecipazione
reale, che va ben oltre la routine professionale, non è soltanto
richiesta ma imposta in casi del genere, a meno che si preferisca
porre in forse tutta quanta l’opera intrapresa per eludere
il problema personale, che si intravede con crescente evidenza.
Occorre in ogni caso raggiungere il limite delle possibilità
soggettive, perché in caso contrario anche il paziente non
può percepire i propri limiti” (Jung, 1983).
La conoscenza e l’elaborazione della dimensione controtransferale
a cui chi lavora in tale campo deve essere allenato, può fare
del terapeuta un’abile traghettatore o come Ulisse approdare
nell’amata Itaca dopo aver esplorato terre sconosciute spesso
popolate da figure bizzarre e da immagini mostruose come in
certe forme di schizofrenie. Quante volte in ambito psicotico
i pazienti non vogliono mai guardare, né alzare lo sguardo
(penso a certe forme acute di schizofrenia paranoide dove
il sociale è percepito come un occhio vigile ed attento) ma
pur fissandoti non vedono, non guardano, ma si perdono negli
occhi dell’altro senza incontrarsi mai? E quante volte si
assiste a forme di auto-aggressività (penso a certi casi di
mutilazione corporea in episodi acuti di schizofrenia), non
per aprire una feritoia verso l’altro ma per auto-punirsi
e torturare un corpo morto che tenta di imprimere energia
e contatto ad una vita scelta nella solitudine incistata in
se stessi? E quante volte la presenza di aspetti ostili e
distruttivi vengono proiettati verso l’altro che diventa un
ricettacolo colorato per quello che illusoriamente si desidera
non per quello che veramente appare, attuando il meccanismo
dell’identificazione proiettiva così pericolosa e presente
in ambito patologico, come patologie dei disturbi di personalità
di tipo bordeline.
Il lavoro con tale dimensione immaginale e simbolica, nella
cura delle psicosi acquista una valenza terapeutica-riabilitativa
per comprendere le oscillazioni della psiche interna del paziente,
fornendo delle ipotesi operative anche per quanto riguarda
la sfera esterna e relazionale; occorre sottolineare che l’utilizzo
della dimensione simbolica e delle tecniche immaginative non
deve intendersi in maniera afinalistica e spontaneistica,
ma deve essere contestualizzata all’interno del setting terapeutico
e nell’analisi controtransferale e della dimensione transferale
del paziente, dal momento che la relazione terapeutica diventa
la cartina di tornasole per verificare ed indirizzare il lavoro
terapeutico: “Ma con l’insorgere del transfert si modifica
la struttura psichica del medico senza che egli stesso sulle
prime se ne renda conto egli viene contagiato al pari del
paziente, il quale tanto per il medico quanto per se stesso
è distinguibile solo con difficoltà da ciò che lo tiene in
possesso. Ma deriva per entrambi un confronto immediato con
le tenebre che celano l’elemento demoniaco. Questo intreccio
paradossale di positivo e negativo, di fiducia e di timore,
di speranza e di sfiducia, di propensione e resistenza caratterizza
il rapporto iniziale. Questa situazione è difficile e penosa
per entrambi le parti e il medico si trova non di rado nella
condizione dell’alchimista, il quale spesso non sa più se
egli è colui che fonde nel crogiolo della stanza arcana metallica,
oppure se è egli stesso ad ardere nel fuoco come una salamandra»
(Jung, 1983).
In tale ottica risulta evidente come ci siano molteplici correlazioni
tra il fare artistico e il fare terapeutico e che entrambi
implicano l’esperienza del creare e del distruggere come metafore
immaginali per approdare al terreno della comprensione e del
significato di quello che sta avvenendo. Questa è una conoscenza
che deriva dalla sintesi tra l’esperienza e la riflessione
concettuale, dal confronto tra le abilità terapeutiche e il
corpus epistemologico, accompagnata dalla messa in gioco da
parte del terapeuta e dalla sua capacità di reggere agli aspetti
distruttivi presenti nella patologia psicotica, rispettando
l’autenticità del rapporto umano e la realtà psichica del
paziente. In una dimensione terapeutica dove si privilegia
la visione simbolica, allora forse uno dei compiti che si
pone la psicoterapia delle psicosi è quella di trovare la
luce nelle tenebre angoscianti, facendo nascere l'albeggiare
della coscienza attraverso la formazione del simbolo come
elemento di mediazione tra l’ignoto e il noto, dal momento
che: "Il simbolo schizofrenico è un tentativo mal riuscito
di integrazione tra l'interno e l'esterno, l'inconscio e il
conscio. Infatti, in esso si manifesta non solo l'inconscio,
ma anche la difesa contro di esso, manca soprattutto l'Io
come forza integrativa, manca la sua capacità a distinguere
fra significato e significante, per cui il simbolo appare
spesso concretizzato. E manca l’orizzonte prospettico del
simbolo in cui si immette il divenire della persona.” (De
benedetti, 1984)
Al simbolo schizofrenico, terreno argilloso, spinoso, friabile,
seducente e pericoloso, portatore di una sofferenza non trasformativa
che segue i ritmi della coazione a ripetere, luogo in cui
Thanatos ha preso il sopravvento su Eros, il terapeuta deve
aggiungere con la propria presenza, una funzione simbolica
che si pone come Altro diverso da Sé (in senso cognitivo,
affettivo e relazionale) rispetto ad un mondo psicotico fatto
di apodittività, assolutezza del dogmatismo delirante e soprattutto
lasciare intravedere la disponibilità al dialogo, allo scambio,
alla ricerca e all’incertezza come valori alternativi al pensiero
onnipotente: “Il simbolo terapeutico è così una figurazione,
una libera associazione, una fantasia, un sogno, in cui non
solo avviene l’incontro ma viene anche integrato l’inconscio
del paziente con quello del terapeuta. Il simbolo terapeutico
dice al paziente quello che egli significa per il terapeuta”
(Gullotta, 1983). In questo senso mi sembra importante evidenziare
il ruolo dell'immaginazione all'interno della dimensione psicoterapeutica,
contribuendo a fare chiarezza epistemologica in un campo così
complesso, soggetto a molteplici connessioni che investono
ambiti di intervento variegati , come ben chiarisce Jung:
“Dovevo accettare la sorte, e dovevo tuttavia osare, impadronirmi
di quelle immagini, poiché altrimenti correvo il rischio che
fossero esse a impadronirsi di me: un motivo importante per
fare questo tentativo era il convincimento che non avrei potuto
attendermi dai miei pazienti una cosa che non avessi osato
fare io stesso. Mentre annotavo le mie fantasie una volta
mi chiesi: ‘che cosa sto facendo realmente? Certamente non
è nulla che a che fare con la scienza, ma allora che cosa
è?’ Al che una voce in me disse: ‘E’ arte’. Fui sorpreso,
non mi era mai passato per la testa che le mie fantasie potessero
avere a che fare con l’arte”. (Jung, 1987)
Come sembra sintonizzarsi sulla stessa scia di pensiero con
importanti implicazioni in ambito terapeutico la formulazione
per quanto riguarda uno dei significati attribuiti alla funzione
dell’immagine: “Quando parlo di immagini non intendo la riproduzione
psichica dell'oggetto esterno, quanto piuttosto una concezione
proveniente dal linguaggio poetico, cioè l'immagine fantastica
che si riferisce solo e indirettamente alle percezioni dell’oggetto
esterno. Questa immagine si basa piuttosto sull’attività fantastica
inconscia” (Jung, 1988). Questa affermazione di Jung, derivante
anche dalla sua pratica clinica con la psicosi si pone come
spartiacque tra il mondo della percezione e quello dell'immaginazione;
i pazienti psicotici pur essendo inflazionati da immagini
arcaiche, archetipiche e destrutturanti, hanno perduto la
funzione di immaginare, ovvero di rifarsi ad una dimensione
creativa che esiste al loro interno, strettamente correlata
alla possibilità di progettare e immaginare il proprio futuro.
L'immaginazione è quindi da intendersi come attività creatrice,
forza propulsiva che spinge e conduce l'individuo a mettersi
in gioco e a valorizzare la dimensione interna non solo come
portatrice di aspetti distruttivi e mostruosi, ma anche come
possibilità di immaginare e non fantasticare la possibilità
che ci possa essere uno spazio per la trasformazione del proprio
passato in una storia riscritta in un altro modo, con un altro
significato che sia quello dell'unione e non della frantumazione
schizofrenica. Avere la possibilità di sperimentare e percepire
il proprio spazio psichico anche come luogo dove le immagini
del sogno e della psiche possono esistere accanto a deliri
ed allucinazioni, significa incominciare a fare strutturare
nel paziente la nascita della funzione simbolica, modificare
gli aspetti cognitivi incistati in una patologia destrutturata
che non permette la formulazione di un pensiero unito alla
dimensione affettiva e far nascere la presa di coscienza di
essere in un mondo di relazioni e di sign??ificati semantici
ed affettivi condivisibili, per creare costruttivamente, dialogicamente
e dialetticamente il rapporto tra dentro e fuori, realtà psichica
e realtà sociale, Sé e altro da sé, individuale e gruppale.
Ma come ogni terapeuta della schizofrenia sa che occorre nel
lavorio con la Psiche stare con un piede dentro e uno fuori,
ascoltando la propria equazione personale facendosi costellare
dalle fantasie inconsce del paziente, per poi potere elaborare
ed avere coscienza di ciò che sta accadendo nella relazione
terapeutica e nella vita interna e con una grande attenzione
alla vita esterna del paziente. Questo gli permette di avere
la comprensione prospettica del processo dando un senso reale
a quello che sta avvenendo affinché la nascente coscienza
nel paziente possa dialetticamente dialogare con l'inconscio
senza esserne come nella psicosi sopraffatta a diventare,
metaforicamente parlando, un'isola che va alla deriva. Solo
l'integrazione di ciò è che racchiuso nell’ombra della propria
storia e nel trauma subito di non essere più amati può dare
luce e trasformare il disagio psicotico in una sofferenza
che ha parola, può essere raccontato e condiviso col terapeuta,
liberandosi, miticamente parlando, dell’uroboros (il serpente
che si nutre della propria coda) per passare dalla fusione
indifferenziata dell’idealizzazione onnipotente - impotente
alla differenziazione degli opposti, alla nascita dello Io
- Tu, alla coscienza che si autoriflette nella solidità psichica
di un corpo metaforico e di una relazione autentica.
Ma cosa succede nella stanza terapeutica, tra il paziente
ed il terapeuta quando dopo mesi di lavoro analitico si attivano
le immagini, incomincia a nascere una forma, una traccia dipinta
sulla tela dell’esistenza dei rapporti umani e prende corpo
il calore dell’intimità e non il fuoco vulcanico che desertifica
le zone dello incontro con l’altro; questo può succedere ai
pazienti psicotici che hanno subito e a volte scelto per tanti
motivi la strada del freddo, anzi come si raccontava con un
sogno: “Scalavo una montagna bianca di ghiaccio. Arrivavo
sulla cima e mi mettevo a riflettere”. Questo sogno raccontato
da un soggetto affetto da psicosi veniva portato nell’incontro
terapeutico dopo mesi di lavoro a cogliere i frammenti di
parole, emozioni avvolte in nuvole tenebrose e lasciate con
grande inconsapevolezza fuori dalla porta del setting, come
momento in cui il contatto con l’Altro diverso da Sé poteva
avvenire per poi allontanarsi e ritornare non nel gelo, ma
nel vuoto più assoluto, nel nulla dove le parole non hanno
esistenza e il pensiero ha abdicato di fronte all’irrealtà
e alle fantasie inconsce permeate dal connubio delirante onnipotenza-impotenza.
Mentre il paziente con non poca riluttanza aveva disegnato
il sogno, lasciando una traccia concreta e visibile nel rapporto
con l’Altro, e questo avveniva per la prima volta, mi rendevo
conto che nella pratica clinica, dopo aver vissuto quello
che Resnik chiama “l’impatto estetico” (Riesnik, 1998), ritornavano
alla mente le parole di Rilke, quando affermava a proposito
dell’arte in rapporto alla sofferenza: “La bellezza non è
niente altro che l’inizio del terrore” (Rilke, 1987), evidenziando
come la fascinazione di certe psicosi nasconde al proprio
interno il rovescio della medaglia rappresentato dal terrore
di non esistere e di essere disgregato nel proprio Sé, in
frammenti scissi e proiettati con angoscia in oggetti inanimati.
All’interno di un setting terapeutico strutturato e di un
progetto terapeutico riabilitativo che si muove in un tempo
cronologico a termine, con obiettivi ben definiti e determinati,
non perpetuando una concezione a-temporale della riabilitazione,
con la consapevolezza dell’importanza di altre aree di intervento
(da quella familiare a quella socio-lavorativa), il lavoro
sulla dimensione psichica, con le tecniche immaginative, il
sogno-disegno del paziente può rappresentare un indicatore
prezioso fornito dall'inconscio ponendosi come una sorta di
auto-diagnosi della realtà psichica. Ciò permette di comprendere
che in questa storia si era intrapreso un lungo viaggio nel
mondo della psicosi e che occorreva attenzione, prudenza,
pazienza poiché ciò che era stato seppellito per tanto tempo
si affacciava a ritornare alla luce, in superficie.
In tale percorso, quindi, la rappresentazione grafica ed immaginale
non risulta finalizzata a se stessa in maniera arbitraria
e spontaneistica, ma immessa in una visione simbolica ed analitica,
si poneva nella storia del paziente come un valido strumento
all'interno del setting terapeutico per dare voce e sostanza
simbolica a nuovi e sani pensieri, non inflazionati dall’inconscio,
che si andavano strutturando accanto ai ricordi e al racconto
della propria storia patologica. Questo il commento al disegno:
“La pazzia è nera: un viso tutto nero come i denti di un vampiro;
con gli occhi neri che ti fanno stare male. Tutto questo è
successo a me”. Alla vista di questo disegno possono essere
di aiuto le parole di Jung che in una lettera al dott. J.
Allen Gilbert scriveva: ”Trovo talvolta che è un grande aiuto,
nel trattare casi simili, incoraggiare a esprimere i loro
particolari contenuti sia nella forma della scrittura, del
disegno e della pittura. In casi simili ci sono così tante
intuizioni incomprensibili per cui quasi non esiste un linguaggio
adatto; lascio i miei pazienti trovare le loro proprie espressioni
simboliche, la loro mitologia.” (Jung, 1988)
Come nella creazione dell’opera d’arte, nel processo terapeutico
il sogno si pone come una ipotetica tela immaginale e nel
disegno prendono corpo e sostanza le immagini bizzarre, paradossali,
incomprensibili e mostruose. Tale materiale occorre guardarlo
in trasparenza, attenzionando simboli ed immagini con gli
occhi del “fare anima” (Hillman, 1988). Allora il sogno vero
e autentico prodotto dell’inconscio si pone come immagine
clinica e terapeutica con cui entrare in confidenza, intimità,
vero impatto con cui la coscienza è costretta a confrontarsi,
pena il viraggio verso l’inflazione psichica, la follia. In
tale contesto terapeutico il disegno, l’attività pittorica
e la produzioni di attività immaginative inconsce rappresentano
una sorta di vas alchemico, contenitore psichico, in cui coesistono
e si esprimono gli aspetti proiettivi, dal momento che il
foglio bianco, la tela, diventano corpo metaforico e materia
che raccoglie ciò che la psiche ha immaginato, doppio contenitore
nella relazione terapeutica e atto creativo collegata alle
radici delle emozioni.
Il rapporto terapeutico diventava stabile e ricco di scambio
emozionale; la tristezza del passato incominciava a tingere
la disperazione del vuoto che aveva avvolto il paziente, la
dimensione psicopatologica gradualmente si sgonfiava lasciando
il posto ai ricordi sommersi e all'elaborazione della storia
familiare, alle immagini archetipiche patologizzanti e ai
sentimenti ambivalenti e idealizzati nei deliri e nelle allucinazioni
percepiti e vissuti come luoghi con cui identificarsi massivamente
utilizzando meccanismi arcaici come la scissione, la negazione
e l'identificazione proiettiva: il tutto per non crollare
nel terribile vuoto psicotico, ultimo baluardo rimasto in
un tempo trafitto da un amore materno possessivo, soffocante,
castrante verso un figlio a cui non era permesso diventare
autonomo ed indipendente. Il dolore umano legato all'elaborazione
del passato, conduceva il paziente ad avere sempre di più
consapevolezza di se stesso, percepirsi più umano e contemporaneamente
il rapporto con gli altri migliorava notevolmente. Il disegno,
anche in assenza dei sogni, diventava metafora e strumento
terapeutico, oggetto per esternalizzare le angosce, ma anche
momento in cui la dimensione delle crisi psicotiche veniva
affiancata dal tempo e dallo spazio, hinc et nunc, del lavoro
terapeutico e dalla consapevolezza di essere sulla giusta
sintonia, quella del benessere con se stesso.
Le parole di Jung a proposito delle emozioni sono a mio avviso
significative del processo terapeutico e del ruolo delle immagini
come cura della sofferenza de disagio psichico grave: “L’emozione
è infatti la fonte principale della presa di coscienza. Senza
emozione non c’è trasformazione delle tenebre in luce, dell’inerzia
in moto (…) E’ la mia psiche ricca di immagine che da al mondo
colore e tono. Non analizzo queste riproduzioni in modo riduttivo
(se non è assolutamente indicato), ma piuttosto tento di capire
o raggiungere il significato che il paziente tenta di esprimere.
Sarebbe un tipo più sintetico di comprensione.” (Jung, 1987)
Nel percorso terapeutico le immagini prodotte e create, divengono
con l’abile arte del terapeuta, del suo percorso formativo
e sottoposte ad una costante supervisione, presenze che accompagnano
il processo di crescita e di trasformazione dalla dimensione
psicopatologica del paziente all’accettazione del principio
di realtà e delle categorie di spazio e tempo, alla condivisione
di una progettualità finalizzata alla completezza del proprio
essere in rapporto con gli altri, il sociale, il mondo là
fuori.
Il terapeuta che si occupi di psicosi deve avere pertanto
la consapevolezza della carica energetica delle immagini che
hanno valenza creativa e distruttiva: questo è importante
sottolinearlo, dal momento che le immagini lasciate a se stessa
e prive del costante dialogo dialettico con la coscienza possono
sopraffare la coscienza, intrappolandola in una follia senza
ritorno. Solamente la capacità da parte del paziente e del
terapeuta di instaurare attraverso la dimensione transferale
e controtrasferale quel dialogo tra la dimensione conosciuta
e quella ignota con il processo elaborativo della coscienza,
la ricchezza del mondo interiore può affiorare, liberarsi
dalle prigionie di un passato traumatico e protendere verso
un futuro che non sia la negazione del presente ma invece
possa rappresentare una meta reale ed oggettiva con un nuovo
e diverso significato costruttivo e prospettico, ovvero riprendere
il senso della vita. Allora in tale senso si può ritenere
che: “La fonte primaria della cura è rintracciabile nel processo
che il paziente e il terapeuta hanno sperimentato insieme;
un processo nel corso del quale il terapeuta è stato capace
di mantenere un Sé e di recuperare ripetutamente una immaginazione
e una capacità di pensare anche nei momenti in cui è stato
bombardato da processi proiettivi ed introiettivi il cui vero
scopo era quello di attaccare l’immaginazione ed il legame
che si stavano ingenerando”. (Schwartz, 1996)
La capacità di mantenere intatta l’unione tra immaginazione
e pensiero nella mente del terapeuta nonostante una dimensione
personale e numinosa distruttiva, permette di far nascere
all’interno della relazione terapeutica la coniuctio tra riflessione
e amore come poli di un processo di consapevolezza psichica,
di integrazione tra coscienza ed inconscio e la psicoterapia
rappresenta uno dei possibili luoghi dove le dimensioni smarrite
possono ritornare e recuperare il senso smarrito, come ben
sintetizzano queste parole di un soggetto psicotico: “E’ proprio
la psicoterapia che ti apre l’intelletto; lavorando sul cuore,
si può anche lavorare sul cervello: prima uno sente e poi
pensa. Se non si parla dei sentimenti non si può tirare avanti,
si è solo un peso morto. I sentimenti vanno di pari passo
con la grinta di lavorare e provare affetto. Riacquistare
la capacità di amare, lavorare, di essere autentica, ritrovare
me stessa: a questo serve la psicoterapia. Ritrovando me stessa,
prima o poi debba ritrovare qualcosa, magari non tutto (…)
qualcosa che se n’è andato, deve ritornare. La psicoterapia
è una strada dove le cose possono ritornare; le cose buone;
l’amore, la pace, il lavoro, ovvero sentirsi sicura di se
stessa”.
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