La domanda odierna di orientamento
è, in primo luogo, una domanda di senso, andare alla ricerca
di un orientamento nel mondo, di un indirizzo per la propria
esperienza, per il proprio vissuto, per progettare il proprio
futuro. Sentire questa domanda come spinta profonda significa
non accomodarsi su pensieri già “masticati”, oltrepassare
ogni risposta che miri solo al risultato e all'utilità immediata,
di conseguenza anche l’orientamento si trova a dover cambiare
le proprie modalità di risposta. Quale infatti, in una società
mutevole a queste velocità, può essere la funzione dell’orientamento
di secondo livello se non quello di rafforzare il soggetto,
di renderlo empowered? In una società dotata di una certa
stabilità e prevedibilità modelli di orientamento tesi alla
risoluzione di momenti socialmente definiti come complessi,
in virtù di qualche passaggio fondamentale (e ritenuto tale
socialmente), potevano costituire una buona risposta, oggi,
nella “società delle transizioni” occorre dare nuove risposte
all’emersione di nuove domande.
La nozione di empowerment come
opportunità e condizioni adeguate alla diffusione del potere,
il potere di essere se stessi attraverso un’appropriazione
o ri-approriazione di sé in una dimensione transizionale,
facilita l’acquisizione di una maggiore consapevolezza della
propria storia di vita e sostiene la capacità di progettarsi
nel mondo e nella relazione con gli altri e le cose del mondo.
La pratica autobiografica emerge quindi come spazio transizionale
che possiamo concepire in quanto estetica dell’esistenza,
dove la narrazione e la scrittura della nostra storia operano
un effetto di transustanziazione che trasforma la vita in
opera d’arte, definendo uno spazio dell’immaginario capace
di reincantare se stessi ed il mondo.
La scrittura dei migranti, dunque,
può avere in ambito educativo - sia nella lettura e che nella
scrittura creativa - una funzione motivante, utile per altro
a potenziare l'autostima dei ragazzi stranieri e ad attivare
le loro risorse narrative per conseguire la finalità di educare
al decentramento, alla dislocazione al di fuori della propria
cultura, fuori di sé. Ma, - ed è quel che più interessa discutere
in questa sede - al di là dei temi affrontati e dei racconti
svolti, è la narrazione in quanto tale il motore della crescita
interculturale.
Tra le righe di uno scritto,
attraverso le rappresentazioni e le interpretazioni, è possibile
ritrovare schegge di un originale smarrito, ma non si può
ricostruire oggettivamente e interamente la vita veramente
vissuta. La scelta sintagmatica e paradigmatica, consapevole
e/o inconsapevole, nasce infatti da un’impalcatura, da schemi
mentali con cui l’uomo convive da sempre. Una storia e una
frase dicono molto di più di quel che dicono. La densità di
significazione e tutti i mondi che ci sono dietro ad alcuni
sostantivi, verbi, avverbi, aggettivi restano il più delle
volte un segreto. Il punto di vista narrativo si pone, dunque,
come potenziale chiave euristica ed ermeneutica in grado di
esplorare e recuperare patrimoni di esperienze di vita dei
soggetti. La scrittura consente al soggetto di raccontarsi
e di raccontare un io nascosto e rappresenta un tentativo
di strapparsi quella ‘maschera di ferro’ che nasconde le emozioni,
di andare ‘oltre la soglia’, di dare sfogo ad un’identità
più o meno autentica, di comprendere orientamenti e percorsi
di senso. Essa è l’esito di chi narra che, uscito dalla polarità
dello schema lineare della vita, affianca se stesso in modo
tale da avere uno sguardo sul sistema di insieme di cui è
parte.
Laboratori di cittadinanza attiva
inseriti nel contesto di un percorso articolato sia in attività
di ricerca e sensibilizzazione sulle reti sociali e le aspettative
dei giovani con genitori di origine straniera, sia in ulteriori
laboratori a carattere narrativo e creativo.
Far risuonare la situazione luttuosa
in un valore di memoria, in un valore morale: valorizzare
le sfumature, la ricchezza e la pluralità delle esperienze
e di insegnamenti che abbiamo ricevuto in quel meraviglioso
e variegato percorso che è la nostra vita. La profonda esigenza
di un rito volto a commemorare la persona quale era in vita
risponde alla cultura della nostra epoca, attribuendo in tal
modo un'importanza nodale all'individualità di ciascuno.
L’abuso d’informazioni ansiogene
nei sistemi democratici, al fine di controllare l’emotività
dei cittadini e d’impedirne comportamenti critici, ha evidenziato
l’importanza di un sentimento quale la paura nell’educazione
umana. Le storie di riscatto ed emancipazione che il cinema
ha raccontato negli ultimi anni si sono fatte carico di questo
limite imposto svelandone il tranello e mostrando allo spettatore
protagonisti consapevoli, liberi dalla paura, tesi alla salvaguardia
della propria autonomia e possibilità di scelta, piuttosto
che alla rigida difesa di una presunta identità. La lettura
di questi film come novelli romanzi di formazione ha messo
in luce alcuni luoghi comuni della narrazione, ma allo stesso
tempo ha così segnato l’attualità, in tempi di guerra globale,
del problema di uno sviluppo più cosciente del sé.
Di fronte alla crisi epocale
di una medicina contemporanea sempre più specialistica, tecnologica,
commerciale, si rende necessaria una profonda svolta etica
ed epistemologica della medicina stessa, che riaffermi la
sua dimensione antropologica, relazionale, umanistica. A tal
fine è nato, negli Stati Uniti ma ormai con qualche positiva
diffusione anche in Italia, un approccio - definito Narrative
Medicine - che pone al centro dell’atto medico l’ascolto delle
storie dei pazienti, la valorizzazione della relazione umana
oltre che tecnica tra medico e paziente, l’utilizzo di metodologie
qualitativo / narrative anziché, unicamente, quantitativo
/ analitiche. Un libro di prossima pubblicazione (Stefano
Beccastrini, “Lo specchio della vita. Medici e malati sullo
schermo del cinema”, Change, Torino) propone l’utilità del
sapiente utilizzo di quell’immenso archivio di filmiche storie
di malati e di medici che è il cinema per la formazione, giustappunto
in Medical Humanities e in Narrative Medicine, dei futuri
professionisti della cura.
L’articolo cerca di approfondire
il valore e l’utilizzo della narrazione nel processo di costruzione
identitaria. Viene delineata una delle funzioni principali
della narrazione che è quella di essere un’attività ordinatrice,
permettendo di cogliere il senso dell’esistenza che si dispiega
nel racconto, orientandosi in una società dove le moderne
grandi narrazioni sono crollate. Sono quindi presentate due
ricerche empiriche che si concentrano su dimensioni diverse
dell’identità, messa in discorso attraverso la narrazione:
la prima incentrata sull’uso del metodo narrativo nella ricostruzione
delle storie di vita di tossicodipendenti; la seconda è volta
a sottolineare il carattere formativo degli aneddoti che caratterizzano
la vita famigliare lungo il corso delle generazioni.
La narrazione di sé ha a che
fare con la ricerca della propria identità e con l’insolubile
paradosso del “sono sempre lo stesso ma sono anche diverso”.
E’ attraverso il confronto fra il mio “essere oggi” e “ l’essere
stato nel passato” che può rinascere una soggettività nuova.
Il discorso che si esprime a questo punto spesso è un discorso
fatto di frammenti, di accenni di eventi che non hanno collocazione,
di emozioni non filtrate al pensiero, di azioni inconsapevoli,
di necessità impellenti. Inizia così un discorso, non più
un monologo, in cui si incontrano narrazione, l’analisi delle
ragioni, degli obiettivi, degli strumenti e soprattutto della
molteplicità delle esperienze per costruire e ricostruire
il filo delle esperienze che sono generatrici di identità
personali sociali lavorative e proiettarle così in futuro
possibile. Tutto questo si verifica se si innesca il processo
di autoapprendimento, in cui l’utente impara a riposizionare
autonomamente le sue esperienze, creando interconnessioni
tra ieri ed oggi e coniugando la dimensione soggettiva con
la realtà esterna.
Federico Batini
La domanda odierna di orientamento è, in primo luogo, una domanda di senso, andare alla ricerca di un orientamento nel mondo, di un indirizzo per la propria esperienza, per il proprio vissuto, per progettare il proprio futuro. Sentire questa domanda come spinta profonda significa non accomodarsi su pensieri già “masticati”, oltrepassare ogni risposta che miri solo al risultato e all'utilità immediata, di conseguenza anche l’orientamento si trova a dover cambiare le proprie modalità di risposta. Quale infatti, in una società mutevole a queste velocità, può essere la funzione dell’orientamento di secondo livello se non quello di rafforzare il soggetto, di renderlo empowered? In una società dotata di una certa stabilità e prevedibilità modelli di orientamento tesi alla risoluzione di momenti socialmente definiti come complessi, in virtù di qualche passaggio fondamentale (e ritenuto tale socialmente), potevano costituire una buona risposta, oggi, nella “società delle transizioni” occorre dare nuove risposte all’emersione di nuove domande.
Orazio Maria Valastro
La nozione di empowerment come opportunità e condizioni adeguate alla diffusione del potere, il potere di essere se stessi attraverso un’appropriazione o ri-approriazione di sé in una dimensione transizionale, facilita l’acquisizione di una maggiore consapevolezza della propria storia di vita e sostiene la capacità di progettarsi nel mondo e nella relazione con gli altri e le cose del mondo. La pratica autobiografica emerge quindi come spazio transizionale che possiamo concepire in quanto estetica dell’esistenza, dove la narrazione e la scrittura della nostra storia operano un effetto di transustanziazione che trasforma la vita in opera d’arte, definendo uno spazio dell’immaginario capace di reincantare se stessi ed il mondo.
Simone Giusti
La scrittura dei migranti, dunque, può avere in ambito educativo - sia nella lettura e che nella scrittura creativa - una funzione motivante, utile per altro a potenziare l'autostima dei ragazzi stranieri e ad attivare le loro risorse narrative per conseguire la finalità di educare al decentramento, alla dislocazione al di fuori della propria cultura, fuori di sé. Ma, - ed è quel che più interessa discutere in questa sede - al di là dei temi affrontati e dei racconti svolti, è la narrazione in quanto tale il motore della crescita interculturale.
Maria Ermelinda De Carlo
Tra le righe di uno scritto, attraverso le rappresentazioni e le interpretazioni, è possibile ritrovare schegge di un originale smarrito, ma non si può ricostruire oggettivamente e interamente la vita veramente vissuta. La scelta sintagmatica e paradigmatica, consapevole e/o inconsapevole, nasce infatti da un’impalcatura, da schemi mentali con cui l’uomo convive da sempre. Una storia e una frase dicono molto di più di quel che dicono. La densità di significazione e tutti i mondi che ci sono dietro ad alcuni sostantivi, verbi, avverbi, aggettivi restano il più delle volte un segreto. Il punto di vista narrativo si pone, dunque, come potenziale chiave euristica ed ermeneutica in grado di esplorare e recuperare patrimoni di esperienze di vita dei soggetti. La scrittura consente al soggetto di raccontarsi e di raccontare un io nascosto e rappresenta un tentativo di strapparsi quella ‘maschera di ferro’ che nasconde le emozioni, di andare ‘oltre la soglia’, di dare sfogo ad un’identità più o meno autentica, di comprendere orientamenti e percorsi di senso. Essa è l’esito di chi narra che, uscito dalla polarità dello schema lineare della vita, affianca se stesso in modo tale da avere uno sguardo sul sistema di insieme di cui è parte.
Alessio Surian
Laboratori di cittadinanza attiva inseriti nel contesto di un percorso articolato sia in attività di ricerca e sensibilizzazione sulle reti sociali e le aspettative dei giovani con genitori di origine straniera, sia in ulteriori laboratori a carattere narrativo e creativo.
Marina Brancato
Far risuonare la situazione luttuosa in un valore di memoria, in un valore morale: valorizzare le sfumature, la ricchezza e la pluralità delle esperienze e di insegnamenti che abbiamo ricevuto in quel meraviglioso e variegato percorso che è la nostra vita. La profonda esigenza di un rito volto a commemorare la persona quale era in vita risponde alla cultura della nostra epoca, attribuendo in tal modo un'importanza nodale all'individualità di ciascuno.
Silvia Ciarpaglini
L’abuso d’informazioni ansiogene nei sistemi democratici, al fine di controllare l’emotività dei cittadini e d’impedirne comportamenti critici, ha evidenziato l’importanza di un sentimento quale la paura nell’educazione umana. Le storie di riscatto ed emancipazione che il cinema ha raccontato negli ultimi anni si sono fatte carico di questo limite imposto svelandone il tranello e mostrando allo spettatore protagonisti consapevoli, liberi dalla paura, tesi alla salvaguardia della propria autonomia e possibilità di scelta, piuttosto che alla rigida difesa di una presunta identità. La lettura di questi film come novelli romanzi di formazione ha messo in luce alcuni luoghi comuni della narrazione, ma allo stesso tempo ha così segnato l’attualità, in tempi di guerra globale, del problema di uno sviluppo più cosciente del sé.
Stefano Beccastrini
Di fronte alla crisi epocale di una medicina contemporanea sempre più specialistica, tecnologica, commerciale, si rende necessaria una profonda svolta etica ed epistemologica della medicina stessa, che riaffermi la sua dimensione antropologica, relazionale, umanistica. A tal fine è nato, negli Stati Uniti ma ormai con qualche positiva diffusione anche in Italia, un approccio - definito Narrative Medicine - che pone al centro dell’atto medico l’ascolto delle storie dei pazienti, la valorizzazione della relazione umana oltre che tecnica tra medico e paziente, l’utilizzo di metodologie qualitativo / narrative anziché, unicamente, quantitativo / analitiche. Un libro di prossima pubblicazione (Stefano Beccastrini, “Lo specchio della vita. Medici e malati sullo schermo del cinema”, Change, Torino) propone l’utilità del sapiente utilizzo di quell’immenso archivio di filmiche storie di malati e di medici che è il cinema per la formazione, giustappunto in Medical Humanities e in Narrative Medicine, dei futuri professionisti della cura.
Alessandra Micalizzi - Valentina Orsucci - Elisabetta Risi
L’articolo cerca di approfondire il valore e l’utilizzo della narrazione nel processo di costruzione identitaria. Viene delineata una delle funzioni principali della narrazione che è quella di essere un’attività ordinatrice, permettendo di cogliere il senso dell’esistenza che si dispiega nel racconto, orientandosi in una società dove le moderne grandi narrazioni sono crollate. Sono quindi presentate due ricerche empiriche che si concentrano su dimensioni diverse dell’identità, messa in discorso attraverso la narrazione: la prima incentrata sull’uso del metodo narrativo nella ricostruzione delle storie di vita di tossicodipendenti; la seconda è volta a sottolineare il carattere formativo degli aneddoti che caratterizzano la vita famigliare lungo il corso delle generazioni.
Paola Frezza
La narrazione di sé ha a che fare con la ricerca della propria identità e con l’insolubile paradosso del “sono sempre lo stesso ma sono anche diverso”. E’ attraverso il confronto fra il mio “essere oggi” e “ l’essere stato nel passato” che può rinascere una soggettività nuova. Il discorso che si esprime a questo punto spesso è un discorso fatto di frammenti, di accenni di eventi che non hanno collocazione, di emozioni non filtrate al pensiero, di azioni inconsapevoli, di necessità impellenti. Inizia così un discorso, non più un monologo, in cui si incontrano narrazione, l’analisi delle ragioni, degli obiettivi, degli strumenti e soprattutto della molteplicità delle esperienze per costruire e ricostruire il filo delle esperienze che sono generatrici di identità personali sociali lavorative e proiettarle così in futuro possibile. Tutto questo si verifica se si innesca il processo di autoapprendimento, in cui l’utente impara a riposizionare autonomamente le sue esperienze, creando interconnessioni tra ieri ed oggi e coniugando la dimensione soggettiva con la realtà esterna.