La narrazione e l'empowerment
Federico Batini (a cura di)
M@gm@ vol.4 n.3 Luglio-Settembre 2006
FILMICHE STORIE DI MALATI E DI MEDICI: medicina narrativa e uso formativo nel cinema
Stefano Beccastrini
beccas@val.it
Stefano Beccastrini è medico
e pedagogista nonché cultore e scrittore di cinema. Dirige
la collana “Comunicazione in sanità” del Centro Scientifico
Editore di Torino e la collana “Viaggio in Italia” dell’editore
Aska di Firenze. È membro del comitato scientifico della sezione
italiana dell’ISDE (International Society of Doctors for Environment)
e coordinatore didattico della Scuola Internazionale Ambiente
Salute e Sostenibilità (SIASS). Relatore a molti convegni
nazionali ed internazionali, impegnato nella cooperazione
internazionale (ha compiuto missioni tecniche e formative
in Cile, Cina, Egitto, Nicaragua), ha pubblicato molti saggi
e articoli su riviste cartacee ed on-line, nonché una ventina
di volumi (sulla pedagogia sociale e della salute, sulla percezione
e la comunicazione del rischio, sull’educazione ambientale,
sulla formazione nelle organizzazioni, sul cinema e sul suo
uso educativo).
1.
Lo specchio della vita: introduzione
Questo testo tratta dei rapporti tra il cinema e la medicina,
o meglio tra la storia - e le storie - del cinema e la storia
- e le storie - della medicina (nonché delle malattie e dei
malati). È un tema sul quale vado da tempo lavorando, facendone
argomento di seminari formativi per gli operatori sanitari
nonché, più di recente, di un libro intitolato “Lo specchio
della vita” (sottotitolo: “Medici e malati sullo schermo del
cinema”; uscirà entro l’anno 2006 per i tipi dell’Istituto
Change di Torino). Il titolo ricalca quello italiano - l’originale
essendo “Imitation of Life” - di un vecchio ma non invecchiato
film di Douglas Sirk (“Lo specchio della vita”, 1959, con
Lana Turner, John Gavin e Sandra Dee), autore di fiammeggianti
melodrammi capaci di commuovere e far pensare (le finalità
più preziose del cinema assieme all’intelligente divertire).
È una buona definizione del cinema stesso, vero specchio della
nostra vita, capace di rappresentarne più o meno fedelmente
- com’è proprio d’ogni specchio, che soltanto de/formandola
ri/specchia la realtà - i dolori e le gioie, le speranze e
le delusioni. Uno specchio non è lo strumento perfetto per
vedersi qual siamo veramente; resta peraltro l’unico che abbiamo
per comprendere come gli altri ci vedano, e ciò vale anche
per i medici. Se, come ha scritto un illustre storico della
medicina, Giorgio Cosmacini (nel suo “Il mestiere di medico”,
Cortina, 2000), “...per aiutare a nascere senza pericoli e
a morire serenamente, per proteggere i sani e aver cura dei
malati cronici, degli anziani, dei disabili, saranno sempre
più necessari ‘nuovi curanti’ che porteranno la medicina a
potenziare o recuperare…la vocazione antropologica che da
sempre le appartiene…”, tali nuovi curanti dovranno considerare
le cosiddette Medical Humanities quali competenze integranti
della propria professionalità, trovando anche nel cinema una
fonte di conoscenza di sé e dei propri sofferenti interlocutori.
Se è vero, come scrivono Bruna Zani ed Elvira Cicognani (nel
loro “Psicologia della salute”, Il Mulino, Bologna, 2000)
che “…la salute, così come la malattia…, non esistono nel
vuoto sociale ma si inseriscono in contesti relazionali, sociali,
culturali, nelle opinioni dei professionisti e della gente
comune, interagiscono con i valori, le tradizioni, le immagini…,”
quel grande specchio della vita (e della morte) che è lo schermo
cinematografico può aiutare formativamente i medici, e gli
operatori sanitari in genere, a meglio comprendere tali contesti
e tali opinioni, in quanto proprio su tale grande specchio
le persone, tramite la macchina luminosa inventata nel 1895
dai fratelli Lumiére, proiettano giustappunto i loro valori,
le loro tradizioni, le immagini prodotte dalla loro mente
e dal loro cuore.
2. La medicina narrativa
La medicina contemporanea, ancorché ricca di importanti successi
tecnici e tecnologici, soffre di una crisi epocale che è fatta
d’incertezza sui propri paradigmi epistemologici e sui propri
statuti etici, nonché di perdita crescente della propria dimensione
antropologica, relazionale, umanistica. L’usura ormai nota
e drammatica del rapporto tra medico e paziente, culturalmente
costitutivo dell’arte medica ma sempre più aggredito dal prevalere
di una visione meramente iatrotecnica (tecnologica e commerciale,
specialistica e aziendale) della medicina, ne è evidente testimonianza.
Per rimediare a ciò, occorre che la medicina del futuro riscopra
la sua perduta dimensione narrativa, tornando capace di ascoltare,
sapendola intrecciare proficuamente con le storie dei medici
e le storie dei pazienti non meno che di saperne analizzare
i parametri fisiopatologici. A tal scopo è recentemente nata
in America, sebbene per adesso con scarsa conoscenza e diffusione
tra i medici italiani (ma si veda, meritevolmente, Vincenzo
Masini: “Medicina narrativa. Comunicazione empatica ed interazione
dinamica nella relazione medico-paziente”, Angeli, Milano,
2005), la cosiddetta Narrative Medicine. Si tratta di un nuovo
paradigma epistemologico della medicina, sorto come reazione
alla sua deriva tecnicistica e teso alla valorizzazione della
matrice antropologica e umanistica della medicina stessa (si
veda, in merito, Rita Charon: “Narrative Medicine. Attention,
Representation, Affiliation”, Oxford University Press, New
York, 2005) nonché orientato alla riscoperta della dimensione
esistenziale, cognitivamente fondata sul pensiero giustappunto
narrativo invece che analitico, dell’arte del guarire. Si
tratta di una dimensione da affiancare, seppur non da contrapporre,
a quella più razionalistica della Evidence Based Medicine,
ovverosia alla medicina fondata su prove sicure e sperimentali
di efficacia. Circa l’auspicabile complementarità dei due
paradigmi epistemologici, ha affermato Milos Jenicek (illustre
epidemiologo canadese: https://www.praticaclinica.it/lineeguida/jenicek):
“I due punti di vista sono complementari e devono convivere.
Per molto tempo abbiamo preso in considerazione soltanto dati
scaturiti da ricerche di tipo quantitativo o, comunque, da
quanto si faceva per quantificare le cose…ma credo che in
questi anni, anche grazie all’impegno di psicologi, sociologi
ed infermieri, la ricerca qualitativa abbia fatto molti passi
in avanti e la Narrative Medicine appartiene proprio a questo
nuovo filone di studio. Il focus di queste ricerche non è
definire verità universali ma contribuire ad una migliore
comprensione della realtà, molto spesso studiando proprio
i casi o meglio le clinical situation…”. L’approccio della
Medicina Narrativa è, quindi, di natura qualitativa e si basa
sulla capacità di ascoltare ed elaborare storie, mentre l’approccio
della medicina cosiddetta basata sull’evidenza è di natura
quantitativa (analitica e statistica). L’una fa capo al pensiero
narrativo - che, almeno dopo le ricerche psicologiche e pedagogiche
di Vigotskij e Luria, è riconoscibile come una forma diversa
ma non meno cognitivamente efficace del pensiero logico-analitico
-, l’altra al pensiero, giustappunto, logico-analitico. Come
ha scritto Vincenzo Masini nel suo libro, uno dei pochissimi
sul tema d’autore italiano: “La narratività compare sulla
scena proprio nel momento in cui la medicina, giunta a straordinari
traguardi di sviluppo tecnologico, sembra perdere la sua efficacia
proprio nel rapporto con il paziente…La medicina narrativa
stimola tre processi: l’anamnesi esistenziale e relazionale
del vissuto del paziente…, la co-costruzione tra medico e
paziente del significato del vissuto di malattia e l’apertura
progressiva della biomedicina ai contributi delle medicine
complementari, naturali e quotidiane, oltre che alla crescita
di un fecondo dialogo con la sociologia, la psicologia e l’antropologia…”.
Io aggiungerei, anche, con la letteratura e, in riferimento
al tema specifico di questo testo, con il cinema. E, aggiungerei
anche, che non si tratta soltanto, per i medici, di apprendere
(o riapprendere) ad ascoltare le storie dei malati, bensì
anche di apprendere a narrare con coraggio agli stessi pazienti
oltre che ai colleghi, le proprie storie, col loro generalmente
celato carico di incertezza e timore dell’errore, di identità
insoddisfatta, di paura della propria malattia e della propria
morte viste nella malattia e nella morte altrui (è l’archetipo
del “guaritore ferito”, che sempre più spesso va narrativamente
emergendo nella letteratura e nel cinema dei nostri giorni:
per esempio, nel volume autobiografico “Un medico, un uomo”
del Dottor Ed Rosenbaum, da cui è tratto l’omonimo film, 1992,
di Randa Haines). Se occorre, e non v’è dubbio che occorra
e persino con urgenza, riscoprire come la medicina sia fatta
anche, e forse soprattutto, di storie (oltre che di numeri,
diagrammi e dati analitici), il cinema può costituire un immenso
archivio, formativamente disponibile e utile, di esse: in
ormai oltre cento anni di esistenza, infatti, esso ha saputo
narrare centinaia e centinaia di storie di malattie e di malati,
di medici e di sanità, cui sarebbe sciocco non attingere per
formare medici di domani che sappiano pensare, lavorare, dialogare
coi propri pazienti anche utilizzando metodologie di natura
qualitativo/narrativa oltre che metodologie di natura quantitativo/analitica,
seppure non in antagonismo con esse.
3. La medicina e il cinema
Coetanea dell’invenzione, da parte di Sigmund Freud, della
psicoanalisi nonché di quella, da parte di Wilhelm Conrad
Roentgen, dell’apparecchio a raggi X (Roentgen depositò presso
la Physikalisch-Medizinische Gesellschaft di Wurtzburg la
comunicazione, con allegata l’immagine radiografica di una
mano, della sua scoperta lo stesso giorno, il 28 dicembre
1895, in cui avvenne a Parigi, presso il Salon Indién di Boulevard
des Capucines, la prima proiezione dei Lumiére), l’invenzione
del cinema era destinata, come del resto le altre due, ad
apportare significativi cambiamenti nelle conoscenze e nei
costumi degli uomini del secolo che stava nascendo, il Ventesimo.
Psicoanalisi, raggi X, cinema: tre modi innovativi di vedere
cosa stava dentro gli esseri umani, sotto la loro apparenza
più superficiale, nelle profondità del corpo e della mente
(tra l’altro, cinema e raggi X rappresentarono, negli anni
immediatamente successivi alla loro invenzione, due affiancate
e lucrose curiosità da baraccone fieristico, e cinema e psicanalisi,
nonostante il giudizio poco lusinghiero che Freud aveva espresso
sul cinema medesimo, s’incontrarono ben presto: fu nel 1926,
infatti, che un allievo di Freud, Karl Abraham, collaborò
come consulente per il primo psicofilm, “I misteri di un’anima”,
regia di Georg Wilhelm Pabst). Pare che i Lumiére considerassero
il cinematografo un’invenzione priva d’alcun futuro commerciale,
mentre erano invece sicuri dell’interesse scientifico della
loro invenzione. Auguste, in un’intervista del 1954 e dunque
ormai novantenne, ricordò che, disinteressato al cinema come
arte, si era dedicato “…alla biologia, alla fisiologia, alla
patologia, alla medicina…” (si può leggere questa intervista
in Louis e Auguste Lumiére: “Noi inventori del cinema. Interviste
e scritti scelti 1894-1954, Editore Il Castoro, Milano, 1995).
Fautore della medicina umorale, fondatore di cliniche e riviste,
autore di oltre quaranta volumi di argomento medico, comparve
anche, proprio in veste di medico, nel film “Pasteur” del
1922, con la regia di Jean Epstein (un cineasta che aveva
fatto studi medici e fu uno dei primi teorici del cinema come
arte). Logicamente, non soltanto dagli interessi biomedicali
di uno dei due fratelli che lo inventarono nacque “…l’utilizzo
del cinema come strumento di indagine, ricerca, divulgazione,
documentazione o propaganda nell’ambito degli studi medico-scientifici…”
(come scrive Chiara Tartarini nel suo “Anatomie fantastiche.
Indagine sui rapporti tra il cinema, le arti visive e l’iconografia
medica”, Clueb, Bologna, 2003), ma proprio i Lumiére dettero
contributi in tal senso, in quanto “…si dedicarono molto presto
alla microfotografia…(con)…la tecnica dell’autochrome, che
permise le prime immagini a colori di germi e tubercoli…(e)…fin
dal 1896 si occuparono di raggi X e produssero i negativi…grazie
ai quali furono possibili le prime riprese radiocinematografiche…”.
Nei decenni seguenti, le due strade - quella del cinema scientifico/clinico
e quella del cinema artistico/spettacolare - si sono sempre
più e giustamente divaricate, ma la lontana fratellanza d’origine
ha continuato ad esistere tramite un’osmosi di forme, un dialogo
di modelli, un’attenzione reciprocamente profonda. Il rapporto
tra cinema e medicina ha avuto modo di svilupparsi anche in
senso terapeutico, oltre che documentativo: già nel 1917 un
critico americano, Fred W. Philips, in un articolo intitolato
“Il valore terapeutico del film” avanzò l’ipotesi che il cinema
potesse costituire un farmaco di particolare ed economica
efficacia. L’idea, in seguito, fu più combattuta che appoggiata
dai medici, presso i quali prevalse, contro il cinema, uno
spirito di ostile crociata: fu affermato che provocava mille
mali, da quelli alla vista (la cineoftalmia, sindrome oculare
da scintillio della luce di sala) a quelli mentali (il cinema
fu definito come “…un vampiro…succhiatore di cervelli…bevitore
di anime…rapitore di coscienze…”, come racconta Gian Piero
Brunetta nel suo “Buio in sala”. Cent’anni di passione dello
spettatore cinematografico”, Marsilio, Venezia, 1989). Peraltro,
in anni recenti, la vecchia idea di Philips è andata vieppiù
prendendo campo e, prima negli Stati Uniti e poi anche in
Italia, si parla di cinematerapia. Il suo precursore è considerato
il dottor Gary Salomon, autore di “The Motion Picture Prescription:
Watch this Movie and Call Me in the Morning. 200 Movies to
Help You Heal Life’s Problems” (Aslan Pub Publishers, 1995).
Poi la metodologia cinematerapeutica ha travalicato la stretta
competenza medica, per esempio venendo fatta propria dal movimento
femminista e producendo un libro come “Cinematerapia. C’è
un film per ogni stato d’animo” (Feltrinelli, Milano, 1993),
manuale per l’utilizzo autocoscienziale e psicoriparativo
del cinema da parte di donne in crisi, scritto da Nancy Peske
e Beverly West, secondo le quali “Una buona pellicola è come
un ricostituente lenitivo…”. In Italia è da segnalare “Curare
con il cinema” (CSE, Torino, 2001) dello psichiatra napoletano
Ignazio Senatore, peraltro giustamente convinto che “…la visione
di un film non…(ha)…mai potuto eliminare i conflitti, ridurre
le ansie, placare le angosce di uno spettatore…”. Il tema
dell’utilizzo del cinema da parte della medicina resta comunque
aperto e suggestivo. Personalmente, ritengo che esso possa
rivelarsi utile soprattutto quale strumento di formazione,
e counselling, alle competenze della Narrative Medicine e
alle riflessioni delle Medical Humanities: competenze e riflessioni
che abbisognano di ragionare su storie di vario tipo, potendo
trovare in quell’immenso archivio di filmiche storie che è
la storia del cinema, un patrimonio immenso di fonti di meditazione
e discussione (a cominciare dalla storia narrata nella prima
opera cinematografica di fiction avente per protagonista un
medico: “The Country Doctor”, 1909, un breve film muto narrante
la dedizione alla propria missione di un medico di campagna,
realizzato da David Wark Griffith, che del cinema come arte
narrativa può essere considerato il padre).
4. Malati e medici sullo schermo
E’ costitutivo dell’arte e della scienza medica il poggiarsi
sulla relazione tra due persone. Non è così per alcuna altra
arte o scienza, o quasi: dovrebbe avvenire anche nel campo
dell’educazione. In medicina, il momento relazionale non fa
da vago e facoltativo sfondo al momento tecnico bensì gli
è inestricabilmente legato, tramite una profonda relazione
interna. Di ciò il libro testimonia persino strutturalmente,
essendo distinto, ma tutt’altro che diviso, in due parti tra
loro dialoganti: una prima di cui sono protagonisti i malati
e le malattie, una seconda di cui sono protagonisti i medici
e la sanità. Ciascuna parte è composta da venti capitoli.
Quelli della prima parte sono dedicati al nascere, il crescere,
l’ammalarsi, il diventare un paziente, i vari tipi di malattia
(con particolare attenzione al cancro e all’AIDS), la condizione
femminile, l’handicap, i rapporti tra salute e lavoro, quelli
tra salute e ambiente, la salute mentale, le dipendenze, l’uso
dei farmaci, il rapporto tra cibo e salute, eccetera, fino
all’invecchiare e al morire. Quelli della seconda parte sono
dedicati alla storia della medicina, alle varie tipologie
di medico, al diventare medici, al filone dei Medical Horror
e dei Medical Thriller, alla relazione tra medici e pazienti,
alle situazioni pediatriche, alll’ospedale, al manicomio,
alla psicoanalisi, alla professione infermieristica, all’antropologia
e sociologia medica, alla malasanità, all’epistemologia della
medicina, alla medicina e la guerra, eccetera, fino alla bioetica
ed al rapporto tra la medicina e la morte. In tal senso, le
due parti sono quasi speculari, affrontando sostanzialmente
gli stessi argomenti ma con la differenza che nella prima
parte il punto di vista è quello dei malati (nel senso concreto
che i protagonisti dei film presi in considerazione e illustrati
sono giustappunto persone ammalate), mentre nel secondo il
punto di vista è quello della medicina e della sanità (nel
senso concreto che i protagonisti dei film presi in considerazione
e illustrati sono medici o altri professionisti sanitari).
Ciascun capitolo di entrambe è articolato in tre sottocapitoli:
il primo (“Il tema”) illustra l’argomento del capitolo stesso,
inquadrandolo nella storia, e nella filosofia, della medicina
e del mondo (esso si rivela assai utile, in sede formativa,
per un sintetico inquadramento teorico di seminari o corsi
monotematici); il secondo (“I film”) presenta una sorta di
catalogo, necessariamente non esaustivo ma assai ampio (sono
citati e illustrati oltre quattrocento film, complessivamente),
di opere cinematografiche al tema collegabili (e dunque utilizzabili,
anche proiettandone singoli brani, in occasione dei suddetti
seminari o corsi); il terzo (“Il Film”) sceglie, tra le varie
possibili sul tema, un’opera cinematografica particolarmente
significativa (in tutto sono quaranta, una per capitolo: da
“Film blu” a “Sussurri e grida”, da “Gli anni in tasca” a
“L’impero americano”, da “Le chiavi di casa” a “Caro diario”,
da “Un medico, un uomo” a “La forza della mente”, da “Il grande
cocomero” a “Vivere”, da “Missione in Manciuria” a “La gente
mormora”, da “Al di là della vita” a “Tutto su mia madre”,
da “Il mare dentro” a “Il medico della mutua” e così via),
dedicandogli una peculiare attenzione (si rivela assai utile,
in sede formativa e proiettando il film per intero, come caso
su cui attivare più approfondite discussioni, ricerche d’aula,
braimstorming tra i partecipanti e così via). Insomma, considerando
ogni capitolo una specie di unità didattica, “Il tema” ne
rappresenta l’inquadratura storico/filosofica, “I film” il
repertorio delle fonti e degli esempi, “Il Film” il caso esemplare
da proporre all’approfondimento e alla discussione. Il fine
è quello di promuovere, attraverso l’utilizzo formativo di
filmiche storie, un arricchimento della professionalità dei
futuri medici, e dei futuri professionisti della sanità in
genere, che sappia ridonare loro la padronanza, accanto a
quella tecnico-specialistica e tecnologica, anche della dimensione
antropologica, relazionale, filosofica - in una parola, umanistica
- del loro mestiere, così riuscendo alfine a trovare “…una
cura filosofica per la biomedicina…” (come scrive Franco Voltaggio
nel suo “La medicina come scienza filosofica”, Laterza, Bari,
1998). In quella “…età della fine del V e del IV secolo…(che)…rappresenta
nella storia della professione medica uno dei punti di più
alto prestigio…- scrisse Werner Jaeger (nel suo “Paideia”,
La Nuova Italia, Firenze, 1959) - …il medico appare ad un
tempo come il rappresentante di una dottrina altamente specializzata
e metodicamente raffinata, e come l’incarnazione di un ethos
professionale esemplare…”. Spero che un’età simile possa far
ritorno, facendosi il medico suo prestigioso protagonista
nonché trovando, per imparare a farlo, ausilio anche in quell’umile
ma efficace strumento di pensiero, oltre che di divertimento
e di commozione, che è il cinema: un grande specchio del nostro
tempo e come tale capace di aiutarci a vedere noi stessi come
se guardassimo un altro. Andare al cinema può essere, in tal
senso, come porre la mano dentro una bocca della verità. Ho
sempre pensato che proprio questo sia il vero motivo che ci
spinge ad entrare, curiosi e timorosi, nel buio delle sue
sale.
5. Un viaggio dall’uomo all’uomo: conclusioni
Giorgio Cosmacini (nel suo “L’arte lunga. Storia della medicina
dall’antichità ad oggi”, Laterza, Bari, 1997) ha scritto che
“…di medicina si scrive moltissimo…(ma)…sulla medicina si
scrive molto meno. La medicina è un’arte-scienza molto sicura
di sé…. Per questo una riflessione critica sulla medicina
viene a latitare dagli studi medici…”. Vorrei che tale riflessione
cessasse di latitare, dando così nuovo spessore culturale
alla professione medica ed al suo rapportarsi con i pazienti,
la società, il mondo. Se davvero la medicina e la sanità contemporanee
soffrono di tre forme di crisi epocale (si veda, in merito,
il volume di Daniel Callahan, “La medicina impossibile”, Baldini&Castoldi,
Milano, 2001), ovverosia una crisi di fiducia (in se stessa
e da parte della popolazione), una crisi di unità (essendo
ormai frammentata in una quantità impressionante di rivoli
specialistici spesso incapaci di dialogare tra loro e ricondurre
ad un approccio globale la cura del paziente/persona e non
soltanto il trattamento dei suoi diversi malesseri) e una
crisi di sostenibilità (dovuta al costo crescente, non soltanto
ma anche economico, della sua ipertecnologizzazione e del
suo espansionismo sociale), e se il modo per affrontarle positivamente
risiede in “…una nuova alleanza tra medici e pazienti…” (come
scrive Roberto Satolli alla voce “Medicina” del “Dizionario
di storia della salute”, Einaudi, Torino, 1996, da lui curato
con Giorgio Cosmacini e Giuseppe Gaudenzi), credo che il cinema
possa rivelarsi uno, tra molti seppur probabilmente non il
più importante, degli strumenti culturali tramite il cui buon
utilizzo, anche formativo, tale nuova alleanza sia saldabile.
Questo l’auspicio de “Lo specchio della vita. Medici e malati
sullo schermo del cinema”, nel suo invitare, appunto tramite
il cinema, “…a vedere la storia della medicina quale viaggio
dall’uomo all’uomo…” (come scrive Franco Voltaggio nel volume
curato da Pino Donghi e Lorena Preta, “In principio era la
cura”, Laterza, Bari, 1995, augurandosi che si possa alfine
“…pensare alla storia dell’arte medica nei termini di una
autobiografia della specie…”).
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