Narration et empowerment
Federico Batini (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.3 Juillet-Septembre 2006
IO RACCONTO, TU RACCONTI, EGLI RACCONTA: due esempi di 'percorsi' narrativi dell'identità
Alessandra Micalizzi
alessandra.micalizzi@iulm.it
Dottoranda in Comunicazione e
Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di
Lingue e Comunicazione IULM; Collabora a attualmente con l’Istituto
di Comunicazione della stessa Università.
Valentina Orsucci
valentina.orsucci@iulm.it
Dottoranda in Comunicazione e
Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di
Lingue e Comunicazione IULM; Collabora attualmente con l’Istituto
di Comunicazione della stessa Università.
Elisabetta Risi
elisabetta.risi@unimib.it
Dottoranda di ricerca ‘QUA_SI’
- 'Tecnologie per la comunicazione e l'informazione applicate
alla società della conoscenza e ai processi educativi’ presso
l’Università degli studi di Milano – Bicocca, dove si occupa
in particolare di digital divide; Collabora a progetti di
ricerca dell’Istituto di Comunicazione dell’Università IULM
di Milano.
1.
Raccontare e raccontarsi per esistere
Le teorie socio-psicologiche di impronta post-modernista sottolineano
la relazione esistente tra le fragilità e le contraddizioni
del nostro tempo e la crisi dell’identità dell’uomo contemporaneo
(Crespi, 2004), caratterizzata dalla frammentazione, dalla
saturazione e dall’instabilità (Gergen, 1973; Bauman, 1991).
La complessità sociale, la vorticosa accelerazione del cambiamento
e la mancata aderenza ad un progetto comunitario condiviso,
hanno generato nell’uomo contemporaneo dei meccanismi di difesa
orientati più a comportamenti narcisisti-egoistici e all’isolamento
che ad atteggiamenti pro-attivi di partecipazione sociale
e politica (Crespi, 2004).
L’unicità riconosciuta al proprio sé viene a sgretolarsi sotto
i colpi di un’epoca in cui il sovraccarico di relazioni e
di stimoli genera un processo di saturazione sociale (Gergen,
1991) che “corrode l’idea di un sé individuale, ne disperde
l’essenza, lo decentra e lo scompone, producendo una molteplicità
di voci dissonanti che mettono in dubbio” le certezze accumulate
lungo la propria esistenza (Poggio, 2004, p. 50).
È la crisi delle grandi narrazioni di Lyotard (1978) a indurre
la riscoperta dei micro-cosmi interiori, dell’intimità delle
singole storie individuali e a porre nuovamente al centro
il ‘valore narrativo’ della propria storia da riscoprire,
rinarrandola a se stessi e agli altri.
Questo percorso intimo e insieme relazionale di messa in discorso
del proprio sé muove i suoi passi dal desiderio di ripercorrere,
attraverso la memoria autobiografica (Marsala, 2003), le tracce
della propria esistenza partendo proprio dai ricordi e dall’immagine
che in essi lentamente si delinea attraverso l’oggettivazione
narrativa. Da un lato quindi alla memoria personale è riservato
il compito di custodire le fasi della propria vita e i momenti
salienti che rappresentano l’espressione della nostra identità,
dall’altro la narrazione diventa la forma essenziale per l’oggettivazione
di questa immagine interiore, per la sua socializzazione e
il confronto con quelle che gli altri ci restituiscono.
Nelle pagine che seguono, cercheremo di approfondire, per
quanto possibile, il valore della narrazione nel processo
di costruzione identitaria al fine di introdurre due ricerche
empiriche: la prima incentrata sull’uso del metodo narrativo
nella ricostruzione delle storie di vita di tossicodipendenti,
la seconda volta a sottolineare il carattere formativo degli
aneddoti che caratterizzano la vita familiare di più generazioni.
2. Narrare è…
Il ‘paradigma narrativo’ fonda le sue radici nello sforzo
comune di molte delle discipline delle scienze umane come
l’epistemologia, l’antropologia, la storia, la paleontologia,
la sociologia e la psicologia che hanno progressivamente riconosciuto
l’importanza del concetto di narrazione: “le storie, siano
queste costruite dallo scienziato che dalla persona comune,
sono apparse come modi ‘universali’ per attribuire e trasmettere
significati circa gli eventi umani” (Smorti, 1997 p. 10).
La narrazione non rappresenta infatti esclusivamente una modalità
linguistica della messa in discorso di certi contenuti sulla
base di regole e di strutture prestabilite. Come ci hanno
dimostrato diversi studiosi (Bruner, Shank, etc.), la nostra
mente segue una struttura narrativa che costituisce, accanto
al sistema logico formale, lo schema cognitivo alla base dei
nostri processi di memorizzazione e organizzazione della conoscenza.
Detto in altro modo, le storie costituiscono “il sistema più
efficiente per rappresentare, interpretare e memorizzare sequenze
complesse e coordinate di azioni messe in atto da soggetti
dotati di intenzionalità” (Di Fraia, 2004, p. 32).
Ma le storie non sono semplicemente un ‘fatto cognitivo’.
Esse sono state definite anche la moneta di scambio di ogni
cultura (Bruner, 1990), lo strumento più semplice e più diffuso
per la trasmissione della conoscenza condivisa, di ciò che
permette di sentirci parte di una comunità. E la testimonianza
dell’importanza delle storie nella formazione dei legami comunitari
è rappresentata dalla ricchezza del patrimonio narrativo delle
società tradizionali, dove le storie costituivano l’unico
canale di trasmissione della conoscenza: “la narrazione è
in un certo senso connaturata all’uomo, non si ha testimonianza
di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione, essa traversa
le culture, le epoche, i luoghi, è presente da sempre e, forse,
sarà sempre presente, si potrebbe dire che con il nascere
della socialità, della relazione interumana è nata la narrazione
ed insieme alla relazionalità stessa è l'unico elemento da
sempre presente” (Batini, 2000).
Ancora, le narrazioni condivise svolgono l’importante funzione
di conservazione del patrimonio comunitario proprio grazie
alla perpetuazione nel tempo attraverso l’atto del raccontare
agli altri. Infine, non possiamo dimenticare il carattere
pedagogico da sempre delegato alle storie siano esse aneddoti
semantizzati o semplice frutto della fantasia (si pensi alle
favole della tradizione popolare e ancor prima al ruolo svolto
dai miti nelle civiltà del passato).
Le due ricerche che prenderemo in considerazione nelle pagine
successive, in realtà, focalizzano l’attenzione su un particolare
tipo di storie, definite dalla Sommers (1992), storie ontologiche,
ovvero quelle narrazioni “che gli attori usano per dare senso
alle proprie vite, (che) sono finalizzate all’azione e alla
base della costruzione dell’identità” (Smorti, 2000, p. 11).
In modo particolare, i due studi, che di seguito proponiamo,
focalizzano su dimensioni diverse dell’identità messa in discorso
attraverso la narrazione e quindi sottolineano funzioni formative
differenti. La pedagogia narrativa sottolinea, infatti, la
stretta relazione tra formazione e racconto, non solo in veste
strumentale, ma anche come ‘soggetto’ della formazione, specificando
che “ogni processo formativo è di per sé narrativo” (Batini,
2000): la relazione narrativa che si instaura tra narratore
e ascoltatore genera uno scambio dialogico di negoziazione
del proprio sé, fondamentale per qualsiasi percorso di formazione
e di empowerment.
Mentre attraverso la condivisione di aneddoti familiari possiamo
rintracciare i tratti della nostra identità sociale (Crespi,
2004), ovvero di ciò che siamo agli occhi degli altri, la
ricostruzione della propria storia di vita è certamente un
processo più intimo, volto a dare voce al proprio io. Sono
tuttavia entrambi modi per prendere le distanze da se stessi
oggettivati nel testo della propria storia. Se dovessimo utilizzare
le parole di Bruner (1990), potremmo dire che attraverso le
storie degli altri è possibile ricomporre i numerosi frammenti
del ‘sé distribuito’, presente “in quei pezzi di mondo che
la narrazione si incarica di portare ‘dentro’ al soggetto”
(Smorti, 2000, p. 31).
Le storie condivise assumono quindi un’importante funzione
di verifica e di confronto della propria immagine attraverso
gli occhi dell’altro: essere nel mondo significa essere esposto
agli sguardi degli altri che ci restituiscono la nostra immagine
attraverso il racconto (Cavarero, 2001).
Raccontare di se stessi agli altri ha invece una funzione
differente. Narrare la propria storia vuol dire dare voce
ad un “io tessitore, che connette, intreccia, costruisce e
satura, ma soprattutto si muove alla ricerca del senso della
vita” (Poggio, 2004). Parlare di sé al mondo è un modo per
condividere il lavorìo continuo che caratterizza la dinamicità
del nostro self.
Del racconto autobiografico possiamo individuare alcune caratteristiche.
Innanzitutto si tratta di un ‘atto intenzionale’ (Demetrio,
2005) perché, come abbiamo già detto, si concretizza sotto
le azioni dell’io che opera, tessendo le trame della sua storia,
una ‘selezione’ tra gli accadimenti che hanno segnato la sua
esistenza. In questo senso, oltre ad essere frutto di una
‘costruzione’ la narrazione autobiografica è anche un atto
creativo che ‘genera’ appunto uno degli spazi possibili dell’esposizione
del self: l’avere affidato al racconto, sia esso orale che
scritto, immagini del vivere, del fare e del pensare, ci restituisce
“solo alcuni indizi della nostra vita trascorsa o in divenire
e di quel che riteniamo di essere nell’atto di esporci o di
essere stati” (Demetrio, 2005, p. 43).
Ancora, alla narrazione autobiografica, va riconosciuta una
funzione formativa e, possiamo dire esistenziale: raccontare
di sé vuol dire innanzitutto dare ordine al disordine interiore
dell’esistenza (Olagnero, 2004), oggettivare, sistematizzandole,
parti dell’identità continuamente in fieri, fino al nostro
ultimo giorno.
Solo la narrazione può fornire “continuità alla nostra esperienza
di noi” (Poggio, 2004, p. 56) perché “è un processo di sviluppo
nel tempo che (…) collega insieme un inizio e una fine” (Brockmeier,
1997, p. 82).
Per concludere, la narrazione, come qualsiasi altra forma
del racconto, è soprattutto un atto esplicativo: (come ci
suggerisce Battacchi, 1997), narrare è innanzitutto ‘spiegare’.
Utilizzando il significato più esteso di questo termine è
possibile concludere questa parte introduttiva sottolineando
il ruolo principale della narrazione, che è proprio quello
di ‘capire il senso’ dell’esistenza che si dispiega nel racconto:
l’attività ordinatrice della narrazione permetterebbe così
di distendere i nodi e gli intrecci della matassa per recuperare
anche il ‘senso’ dell’inizio e della fine.
3. “Percorsi di tossicodipendenze”
3.1 Obiettivo della ricerca
La ricerca qui presentata rappresenta un tentativo di applicazione
del metodo narrativo nello studio di percorsi biografici di
tossicodipendenze.
Obiettivo principale del lavoro era quello di capire come
i soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti “testualizzassero”
la propria storia (Batini, 2002, p. 16), organizzando una
narrazione lineare, coerente e significativa a partire da
esperienze destrutturate e devianti quali sono per loro stessa
natura le esperienze di dipendenza (cfr, ad esempio, Ravenna,
1997).
Se la funzione principale della narrazione autobiografica
è quella di re-interpretare il proprio vissuto a partire dal
presente, costruendo una trama coerente e consequenziale (cfr,
fra gli altri, Batini, 2002; Bruner, 2002; Demetrio, 1996;
Di Fraia, 2004), ci siamo chiesti se e attraverso quali strategie
narrative anche soggetti dalle identità fragili e dalle storie
di vita inevitabilmente complesse potessero, attraverso il
racconto, costruire storie ‘buone’.
Il presente a partire dal quale ci si racconta rappresenta
il punto di vista della narrazione, il criterio attraverso
cui si selezionano gli elementi da includere nella trama,
il senso della stessa, e il progetto biografico che sottende
ad essa e orienta il proprio futuro (Smorti, 1994 e 1997).
A partire da questa considerazione, nel nostro studio abbiamo
provato a ricostruire gli strumenti narrativi che i soggetti
hanno adottato da un lato per contestualizzare e giustificare
le scelte che li hanno portati ad essere ciò che sono, e dall’altro
per immaginare il proseguimento della propria storia a partire
dal presente costruito attraverso la narrazione.
Il racconto del proprio passato, dunque, come punto di partenza
per spiegare il proprio presente e per scegliere il proprio
futuro.
3.2 Metodologia e campione
La ricerca è stata condotta su un campione costituito da 15
soggetti maschi, suddivisi in tre gruppi composti, rispettivamente,
da 5 tossicodipendenti da eroina, da 5 utilizzatori non dipendenti
[2] di diverse sostanze
stupefacenti, e da 5 non utilizzatori di droghe (quest’ultimo
avente funzione di gruppo di controllo). La distinzione dei
gruppi ha consentito, in fase di analisi, di ricondurre le
differenze all’intensità della presenza della sostanza nella
biografia del soggetto, per comprendere il ruolo della dipendenza
nello sviluppo identitario.
Applicando i presupposti del paradigma narrativo, secondo
cui le narrazioni rappresentano la più naturale forma cognitiva
attraverso la quale gli individui rappresentano agli altri
e a sé stessi la propria vita (Bruner, 1990; Di Fraia, 2004;
Scheibe, 1996; Somers, 1994), abbiamo messo a punto uno strumento
di ricerca che enfatizzasse le potenzialità della narrazione
autobiografica.
Seguendo la proposta di Mc Adams (1993) abbiamo chiesto agli
intervistati di immaginare e di raccontare il ‘libro’ della
storia della propria vita. Costruita interamente su questa
metafora narrativa, la traccia dell’intervista ricalcava la
struttura della più classica scheda di analisi del contenuto
letterario. Abbiamo cioè chiesto agli intervistati di immaginarsi
il numero e il contenuto di ciascun capitolo nel quale questo
libro metaforico è suddiviso, di attribuire un titolo ad ogni
capitolo e all’intero testo, di individuare e descrivere i
personaggi in esso coinvolti, i punti di svolta della trama,
il genere narrativo al quale può essere ricondotto ecc…
Questo ha permesso di rendere espliciti, narrativamente, i
meccanismi di generazione di senso, le strategie di giustificazione
del proprio passato, i processi causali degli eventi riportati
ecc…
In secondo luogo, abbiamo chiesto ai soggetti di immaginarsi,
ancora in chiave narrativa, il proseguimento della propria
storia, in termini di direzione e soprattutto di scelte di
orientamento, proprio per cercare di comprendere la ‘linea
rossa’ del racconto (Demetrio, 1996), e il meccanismo principale
alla base delle decisioni e, conseguentemente, delle giustificazioni
al proprio passato.
La ricerca qui presentata è di tipo conoscitivo e descrittivo.
Lo stesso metodo, comunque, è quello applicato dalla Comunità
di recupero dove sono stati reclutati gli intervistati per
progettare e attuare l’intervento sui ragazzi ospiti.
3.4 L’analisi del materiale
Attraverso il racconto del proprio libro di vita, gli intervistati
sono riusciti ad osservarsi da un punto di vista quasi esterno,
oggettivizzando la propria storia e ri-conoscendola con occhi
nuovi.
Anche noi abbiamo voluto analizzare le interviste narrative
raccolte cercando di mantenere e replicare questa distanza
fra il soggetto e la storia raccontata, traducendo tale relazione
in quella intercorrente fra un autore e il proprio romanzo.
In altre parole, sostenendo anche in questa fase della ricerca
la metafora narrativa alla base del metodo messo a punto,
abbiamo analizzato le storie di vita raccolte proprio come
fossero dei libri, nei quali è certamente più immediato riconoscere
una progettualità e una linea di sviluppo a partire dall’analisi
degli elementi testuali e della loro contestualizzazione.
Abbiamo pertanto studiato il materiale raccolto attraverso
l’individuazione e l’analisi degli elementi strutturanti la
composizione pentadica delle storie, secondo la proposta di
Bruner (1998): attore, azione, scena, scopo e strumento. Per
ciascuna di queste categorie, e per quelle da noi aggiunte,
abbiamo effettuato un’analisi prevalentemente formale, riflettendo
sui punti che seguono.
Categoria | Tipo di analisi | |
L’azione (qui declinata sotto forma di trama) |
Capitoli e criterio di suddivisone degli stessi, rapporto fra essi, struttura dell’intreccio | |
L’attore (il protagonista) |
Strategie di presentazione e di costruzione del personaggio, meccanismi di giustificazione, strumenti di riconoscimento e di differenziazione, modelli identitari presenti | |
I personaggi | Identità e provenienza dei personaggi citati, analisi del loro ruolo nella storia | |
L’antagonista | Se presente, individuazione della sua identità e del ruolo nei confronti del protagonista | |
La scena (intesa come ambientazione) |
Individuazione e ruolo del contesto per lo svolgimento della trama | |
Lo strumento (qui le sostanze stupefacenti) |
Rapporto fra protagonista e strumento, decisività per lo svolgersi della trama, significato attribuitogli e funzione all’interno del racconto | |
Lo scopo | Obiettivo dell’azione e della trama nel suo insieme, sviluppo biografico futuro |
3.5 Principali risultati della ricerca
I soggetti tossicodipendenti al momento dell’intervista si
trovavano in una Comunità di recupero da almeno 6 mesi: il
presente alla luce del quale si raccontano, e quindi il traguardo
della storia, consiste proprio nell’ingresso in Comunità,
che rappresenta uno spartiacque fra il passato e il futuro.
E’ probabilmente per questo che, da un punto di vista contenutistico,
la trama di questi racconti è interamente centrata sulla storia
tossicologica: dalle storie raccolte è escluso qualunque elemento
non funzionale a spiegare il rapporto del protagonista con
la sostanza. Non a caso, il criterio utilizzato per suddividere
la trama in capitoli è proprio il tipo di droghe assunto (il
periodo dell’avvicinamento alla marijuana, quello della cocaina,
quello della stabilizzazione della dipendenza da eroina ecc…).
Dal punto di vista del protagonista, in questi racconti la
costruzione dell’identità sembra essere un processo esclusivamente
narrativo. Il soggetto, cioè, non ha esattamente raccontato
le intenzioni e le motivazioni del protagonista della storia,
ma gliele ha piuttosto attribuite a ‘posteriori’, durante
la narrazione. Il racconto, quindi, è stato la maggior parte
delle volte l’attribuzione di una spiegazione ad un comportamento,
assente nel momento in cui accadeva a causa dello stato di
perenne incoscienza del protagonista. Spesso, la causa di
certi comportamenti viene attribuita al di fuori di sé, non
tanto come ‘colpa’, quanto come ‘origine’. Il protagonista,
infatti, non sembra essere il vero ‘autore’ delle vicende
che lo riguardano: scelte, decisioni, comportamenti e valori
non di rado non si originano all’interno del personaggio,
ma all’interno dei personaggi esterni. La narrazione autobiografica
sembra in questo caso servire non tanto alla riappropriazione
e al riconoscimento di sé, quanto alla creazione di una consapevolezza
dell’’assenza di sé che ha caratterizzato il passato. Prendere
in mano, nel bene o nel male, la propria vita sembra così
essere l’unico strumento che, secondo gli intervistati, può
aiutarli a orientare le scelte future.
Un altro aspetto interessante emerso dalla ricerca sono le
strategie narrative di costruzione dell’identità sociale (identità
di riconoscimento, definita da Ricoeur,1991, identità idem).
La canonicità alla quale gli intervistati fanno riferimento,
e nella quale si riconoscono, non è quella dell’altro generalizzato,
come solitamente avviene [3],
ma quella della tossicodipendenza: la propria vita non rappresenta
un’eccezione, non perché sia comune a tutti, ma perché è comune
a quella di tutti gli altri tossicodipendenti. ‘Essere un
tossico’, sottolinea Grosso (1994), è d’altra parte un importante
sostegno nella definizione del proprio sé, per la funzione
suppletiva che un’identità negativa svolge in mancanza di
altre identità. Non pensarsi più come un ‘tossico’ significa
prospettare per sé altre storie possibili, e proprio questo
sembra segnare il punto di svolta nelle biografie degli intervistati.
4. Narrazioni nel contesto famigliare
4.1 Oggetto della ricerca
Alle tre blasonate domande esistenziali “Chi sono? Da dove
vengo? Dove vado?”, l’uomo cerca di ideare una sua personale
risposta al fine di costruirsi una propria identità, di riconoscersi
in un essere sociale, ma unico. Per sentirsi parte del mondo
in cui vive, per trovare fiducia in sé e confrontarsi con
la realtà circostante, l’uomo ha bisogno di costruirsi una
storia che gli consenta di identificarsi come parte di una
società.
Ogni gruppo sociale, ogni cultura, ha le sue storie e i suoi
miti, che consentono agli individui di riconoscere la propria
vita, di spiegare ciò che non è comprensibile, di connettere
passato e futuro. Il tema entro cui si muove la ricerca qui
presentata è un particolare tipo di narrazione orale che avviene
all’interno delle famiglie: ciò che è stata chiamata ‘aneddotica
famigliare’ è questo corpus di storie che si raccontano e
si ascoltano in famiglia, a volte cariche di ripetizioni di
elementi già noti agli interlocutori. Negli aneddoti famigliari
e nella loro pratica di racconto, non sono in gioco soltanto
la continuità e la coesione della famiglia: lo sono anche
l’identità dei singoli membri, la percezione che essi hanno
di sé e del proprio mondo, le rappresentazioni del contesto
sociale co-costruite insieme agli altri.
Le storie che gli altri ci raccontano ci re-inventano sempre
un po’, facendoci conoscere o riconoscere aspetti di noi di
cui non eravamo consapevoli o facevamo finta di non vedere
(Jedlowski, 2000). Ogni racconto declina sempre, in proporzioni
diverse, l’esigenza di raccontarsi (a sé o agli altri) con
quella, più complessa e profonda, di comprendersi: re-interpretare
il proprio vissuto in una trama coerente, partendo dal presente
(cfr. Smorti 1997; Bruner, 2002) e costruendo attivamente
un significato (Batini e Zaccaria, 2000; 2002).
Non sempre però riusciamo a trovare la trama giusta delle
storia di vita di cui siamo i protagonisti: abbiamo spesso
bisogno degli altri, di ‘altri sguardi’ che possano aiutarci
a riprendere le fila del nostro discorso e a riportare ordine
dove sembra regnare il caos (Di Fraia, 2004).
L’importanza fondativa del racconto altrui è testimoniata
in primo luogo dal fatto che è la nostra stessa esperienza
di vita ad iniziare con una narrazione altrui. “Ricorrere
al racconto degli altri perché la storia comincia da dove
è cominciata” (Cavarero, 2001, p. 56).
L’empowerment avviene attraverso euristiche narrative di cui
ognuno di noi è artefice e depositario, che vanno a formare
identità personali collocate in un contesto sociale e che,
anche attraverso quel contesto, assumono senso e vengono socialmente
negoziate (cfr. Batini e Zaccaria, 2000; Smorti, 1997).
L’interesse della ricerca è nato nel voler indagare quali
sono le storie e i racconti narrati nelle famiglie nel corso
del tempo. La famiglia è costruita e mantenuta nella quotidianità,
ma anche nel corso delle generazioni, attraverso una serie
di pratiche discorsive e narrative.
L’ipotesi sostenuta è che gli aneddoti famigliari seguano
i cambiamenti sociali: ogni generazione ha i suoi racconti
e lo studio degli aneddoti raccontati in famiglia fornisce
una versione della realtà più vicina a quella percepita dai
soggetti, lasciando affiorare elementi sia dell’’io’, cioè
dell’identità dei narratori, sia dell’’esso’, cioè dell’ambiente
sociale in cui i protagonisti hanno vissuto.
La situazione famigliare, che si è andata delineando nel nostro
Paese, ha costituito lo sfondo alla ricerca. Dalla crisi del
modello di famiglia tradizionale basata sul principio del
‘sangue’, al modello famigliare della società industriale,
fino all’avvento delle diverse identità famigliari, costituitesi
in una società complessa. La famiglia è stata qui considerata
come sistema mitopoietico, ossia generatore di storie ed aneddoti:
la narrazione costituisce quel collante che unisce, nel tempo
e nello spazio, la rete famigliare dando ai vari componenti
la possibilità di proseguire insieme, capire quello che stanno
facendo, pur rimanendo ognuno con le proprie emozioni e motivazioni.
Le storie di vita famigliari rappresentano quindi sia uno
strumento di trasmissione di riferimenti valoriali, stili
di comportamento e ruoli famigliari e sociali, sia una spia
di dimensioni e pratiche sociali più ampie, connotando lo
scorrere del tempo (Olagnero e Saraceno, 1993).
4.2 Ascoltare delle metastorie: metodologia e risultati
della ricerca
Lo strumento di raccolta delle storie è un’intervista qualitativa,
come naturale applicazione di uno stile di ricerca che tende
ad entrare il più possibile in sintonia coi soggetti per comprendere
meglio i fenomeni sociali di cui sono protagonisti partendo
da loro stessi. L’ascolto degli aneddoti famigliari dalla
voce degli individui che di essi sono depositari e custodi
nella loro memoria, è stato nella pratica l’ascolto di alcune
‘metastorie’: è possibile conoscere delle storie, solo ascoltando
altre storie in cui esse sono contenute. La narrazione da
parte dei soggetti è stimolata attraverso un processo di consapevolezza,
soprattutto narrativa, della co-costruzione della conoscenza
e sviluppo delle potenzialità apprese nel mondo famigliare
per la costruzione del sé.
La ricerca si è svolta su 24 soggetti, uomini e donne residenti
nelle province di Milano e Varese, suddivisi in tre generazioni
[4] di soggetti in base
alla loro età anagrafica. La triade generazionale è stata
denominata ‘nonni-genitori-figli’ perché i diversi gruppi
di soggetti avevano un’età media corrispondente a quella di
un anziano-nonno, un adulto-genitore e un giovane-figlio nel
momento in cui si è svolta la ricerca.
Analizzando i temi rilevanti contenuti nelle storie raccontate
dalla triade generazionale, si possono individuare alcuni
tratti rimasti immutati nel corso del tempo ed evidenziare
quello che nel corso delle generazioni è cambiato. Temi che,
affiorando in modo più o meno consapevole, segnano sia la
fisionomia della famiglia, sia la configurazione dei mondi
generazionali.
Si nota che è un esistente [5]
che fa da protagonista e attraversa i racconti come un file
rouge: il contesto della seconda guerra mondiale. Questo tema
è ricorrente in ognuna delle tre generazioni, ma ciò che cambia
è il ruolo degli eventi e dei personaggi protagonisti di questi
aneddoti nel corso del tempo. Ai nonni è rimasta un immagine
della guerra con un in significato tragico, animato dai propri
famigliari, eroi ed eroine, protagonisti di particolari eventi.
Gli aneddoti di guerra di cui i genitori intervistati, invece,
sono stati ascoltatori hanno due temi ricorrenti: da una parte
la poca comprensione delle ragioni per cui si era in guerra
ed il non voler combattere contro quelli che dovevano essere
dei ‘nemici’, dall’altra parte il grande rifiuto di partire
per andare in guerra, tanto grande da portare i famigliari
protagonisti degli aneddoti a ledersi fisicamente.
Nell’immaginario della guerra che invece i figli hanno fatto
emergere nelle storie, scompare il dramma e la vena di rifiuto
alla guerra, ma emergono dei racconti di guerra che il passare
del tempo ha fatto sedimentare più che altro per la loro particolarità
o curiosità. E’ da sottolineare che i giovani intervistati
nella presente ricerca fanno parte di una generazione che
è giunta alla soglia dell’adultità interagendo anche con i
nonni in carne ed ossa e non solo con il loro ricordo mediato
dai genitori. Tuttavia si può ipotizzare che la rilevanza
della seconda guerra mondiale, come spartiacque nella storia
del mondo e dei singoli mondi, è stata ritenuta comune memoria
dolorosa capace di orientare altrimenti, solo in alcune sedi;
almeno da ciò che qui appare sembra aver stentato a esprimersi
in quanto coscienza diffusa e condivisa. Nei materiali raccolti,
colpisce che in non pochi aneddoti, anche quando gli anziani
lasciano ben comprendere l’orrore della guerra e le ferite
che essa ha lasciato aperte, l’ultimo anello della catena
generazionale si limita a registrare solo episodi molto particolari.
La memoria della guerra raggiunge la generazione dei ‘figli’,
ma solo in maniera stereotipata e depotenziata della sua drammaticità,
faticano a farsi chiave di lettura per il presente.
Temi molto ricorrenti nella generazione dei nonni ed in quella
dei genitori, ma non riscontrati in quella dei figli, sono
quelli legati ad alcune vicende famigliari. Ad esempio l’innamoramento
di alcuni famigliari, che si sono incontrati e che nonostante
un contesto difficile alla fine finiscono per sposarsi, rimane
ben saldo: la lotta di un evento, il grande amore, contro
un esistente, l’ambiente economico e sociale molto difficile.
La vittoria finale è quella del bene sul male.
Ma anche racconti in cui il valore dell’unità famigliare viene
meno, rievocati con molta frequenza e molta enfasi dai primi
due anelli della catena generazionale, non presenti in quella
dei più giovani. L’ipotesi interpretativa sostenuta è quella
che la famiglia, nel corso del tempo, stia sempre più accettando
eventi e significati (separazioni, abbandoni, adozioni), che
sono invece presenti negli aneddoti ricordati dalle persone
meno giovani come straordinari e complessi.
Altri temi ricorrenti negli aneddoti delle coorti dei nonni
e genitori, ma forse meno evidente in quella dei figli, è
il contesto di povertà o di vita contadina nel quale agiscono
i famigliari ed i grandi viaggi, spesso difficoltosi e avventurosi,
di qualche famigliare.
Ultimo tema che ha mostrato numerose occorrenze è quello degli
aneddoti di infanzia o gioventù: sono aneddoti in cui spesso
i narratori sono ‘omodiegetici’, cioè sia narratori durante
l’intervista che protagonisti di queste storie. Questi aneddoti
sono rimasti maggiormente nella memoria dei figli intervistati,
rispetto alle altre due generazioni di soggetti.
Si ritiene che questi aneddoti vadano a sopperire una mancanza
di contenuti di altri temi rilevanti e dalle tinte molto forti,
come degli eventi di guerra, le storie di povertà e le dinamiche
famigliari. Tale lacuna non va solo imputata ai depositari
di questi racconti che rievocano solo questo tipo di racconti,
ma agli stessi narratori. Tra la generazione degli adulti
e quella dei giovani, non sembrano esserci stati momenti forti
da trasmettere. Le esperienze vissute dai genitori, in una
situazione di migliorato benessere, di mutate aspettative
sociali e di una maggiore consapevolezza dell’incertezza accresciuta
su scala mondiale, non si ritengono in evidente contrapposizione
con quelle dei figli. Alcuni dei genitori intervistati hanno
esplicitamente manifestato la mancanza di contenuti e il loro
desiderio di raccontare e condividere, senza però sapere che
cosa.
Nonostante sia stato rilevata una grande differenza sul piano
della storia delle aneddotiche famigliari raccolte, questo
non significa che la pratica del racconto vada ad estinguersi.
Sono cambiati i contenuti, ma non l’importanza degli aneddoti
famigliari. Nella ricerca si sono analizzate le ‘funzioni’
attribuite dai soggetti alle narrazioni, notando come nel
corso delle generazioni si siano attribuiti agli aneddoti
di famiglia significati diversi.
I nonni percepiscono nel racconto di molti aneddoti, soprattutto
i racconti di guerra o di povertà, una necessità: sono narrati
per sfogo, per comunicare un evento che ha sconvolto la loro
quotidianità o le vite dei famigliari, che si ritiene quasi
impossibile non raccontare. Si evince quindi una funzione
‘comunitaria’ degli aneddoti famigliari, che è più propriamente
connessa alla dimensione relazionale della narrazione, volta
ad un senso di condivisione e rielaborazione del significato
della storia.
Le funzioni esplicitate dagli adulti intervistati sono soprattutto
di tipo ‘valoriale’ e ‘normativo’. Emerge dunque un’immagine
di famiglia che, nella fase di ricostruzione post-bellica
(in considerazione dell’età media degli intervistati), cerca
di comunicare valori di tipo tradizionale, in un continuo
confronto e negoziazione tra valori famigliari e tradizionali
e valori emergenti. I genitori appaiono fortemente consapevoli
di essere usciti da una cultura della sobrietà, al cui interno
il patrimonio famigliare era connotato di principi e insegnamenti,
ma nonostante questo sembrano avere accolto a pieno il cambiamento,
la modernità, le nuove agenzie di socializzazione e l’evoluzione
mediatica.
La pratica del racconto di aneddoti di famiglia non è più,
secondo i più giovani intervistati, volta a trasmettere grandi
valori o principi, come se tra il mondo generazionale dei
genitori e quello dei figli non si rilevino grosse contrapposizioni.
Con la generazione dei figli, emerge maggiormente una funzione
poco evidenziata nelle generazioni precedenti: la funzione
‘ludica’.
Il senso di raccontare molti degli aneddoti famigliari ascoltati
nelle famiglie dei giovani intervistati, sta nel gioco creativo
che raccontare comporta. I giovani intervistati spiegano che
la maggior parte delle storie ascoltate, sembrano narrate
per il piacere di raccontare e raccontarsi o perchè siano
aneddoti divertenti, che entusiasmano il pubblico dei famigliari
ascoltatori.
Nessun intervistato ha reso esplicita una funzione che è comunque
primaria degli aneddoti raccontati in famiglia, che è probabilmente
presente, ma che rimane implicita: la funzione ‘mnestica’
della narrazione di questo tipo di storie. Narrare è un tentativo
di salvare ciò che è narrato dall’oblio, conservarlo e trasmetterlo.
La memoria del narratore, luogo privilegiato di formazione
dell’identità personale, si fa memoria famigliare, ma sia
colui che narra oralmente, sia chi ascolta, deve far uso della
propria memoria per seguire il filo della narrazione e per
utilizzare in modo adeguato le proprie conoscenze, al fine
di interpretare il racconto e coglierne i tratti che guidino
la propria vita.
NOTE
1] Pur avendo condiviso tutti
i contenuti presenti nel contributo, i paragrafi 1 e 2 sono
stati redatti da Alessandra Micalizzi, il paragrafo 3, con
i relativi sottoparagrafi, da Valentina Orsucci e il paragrafo
4, con i relativi sottoparagrafi, da Elisabetta Risi.
2] Per distinguere fra tossicodipendenza
e consumo non dipendente abbiamo seguito i criteri riportati
nel DSM-VI.
3] L’identità idem nasce
proprio dal bisogno, insito nell’uomo, di attribuire un certo
livello di ‘normalità’ alla propria vita.
4] Per ‘generazione’ si è
considerata l’accezione di coorte: questo concetto si regge
sull’assunto che i soggetti nati in un certo arco di tempo
siano esposti a processi storicamente e socialmente specifici,
che influenzano il loro mondo della vita.
5] Secondo Chatman (1978),
nella storia è possibile individuare due componenti: gli eventi,
che possono essere le azioni compiute da un agente animato
o gli avvenimenti determinati da un fattore ambientale o da
un agente non specificato, e gli esistenti, che comprendono
i personaggi, cioè gli esseri viventi, e gli ambienti. Quando
uno di questi elementi acquisisce particolarità viene più
facilmente ricordato, rimane nella memoria ed il racconto,
se passa di bocca in bocca all’interno di una famiglia, diviene
un aneddoto famigliare.
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