Narration et empowerment
Federico Batini (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.3 Juillet-Septembre 2006
LE STORIE DI VENDETTA COME RACCONTI DI FORMAZIONE NEL CINEMA AMERICANO POST 11 SETTEMBRE
Silvia Ciarpaglini
silvia525@interfreee.it
Laureata in Ermeneutica alla Facoltà
di Filosofia di Firenze; membro dell’associazione Cineforum;
attualmente è responsabile dell’organizzazione e gestione
degli eventi culturali della Libreria Universitaria Leggere
di Arezzo.
Come
un rompicapo prolifero e senza soluzione, la tragedia dell’11
settembre, ha raccolto in un diffuso quanto audace discorso
quotidiano i grandi temi della storia recente: il destino
dell’Occidente, la definizione del Sé in relazione all’Altro,
le derive autoritarie della democrazia, il ruolo del singolo
in una cultura di massa. In un’epoca post-metafisica, la tentazione
del 'maiuscolo' si è così riaccesa in una vastissima produzione
letteraria e una pluralità di voci tale, da essere allo stesso
tempo la prova dell’impossibilità affermativa di un’unica
narrazione. “I grandi eroi, i grandi pericoli, in grandi peripli
e i grandi fini”, secondo una bella espressione di Lyotard,
che il sapere narrativo avrebbe perso come suoi “funtori”
[Lyotard 1981: p. 5], hanno trovato comunque eco nel linguaggio
convincente e popolare del cinema. Quest’ultimo, infatti,
diversamente dalla scrittura, non discute esplicitamente argomenti,
ma li racconta in ‘concetti-immagine’, vale a dire che l’idea
non viene posta nel modo del contenuto, ma 'avviene' in forma
implicita nella rappresentazione dell’immagine.
Il cinema è di per sé un’esperienza diretta dal linguaggio
fondante, un ‘colpo basso’ che, privo di una strutturale mediazione
semantica, irretisce letteralmente lo spettatore in uno spazio
concreto e aperto come la vita stessa. Di fatto la “maggior
parte delle verità esposte cinematograficamente sono già state
enunciate o scritte tramite altri mezzi, ma sicuramente chi
vi entra in contatto per mezzo del cinema viene chiamato in
causa da esse in modo completamente diverso” [Cabrera 2000:
p. 22]. L’uomo, anche di fronte al film fantastico o surreale,
è pur sempre uno spettatore di corpi, sentimenti, azioni,
ed è proprio il conforme a stabilire naturalmente un’intimità
esclusiva, comprensiva di mondi che non sono il nostro. Il
cinema è l’habitat in cui tutto acquista evidenza, anche l’indicibile;
il “paganesimo e il viscerale amoralismo del suo linguaggio”
[Cabrera 2000: p. 26] offrono infinite possibilità di messa
in scena di ciò che non viene e non può essere detto in un’esposizione
scritta o in una normale conversazione. Nei film trovano posto
“cose così vere che forse nessuna relazione faccia a faccia
le potrebbe mai sostenere, e che nessuno forse potrebbe mai
sostenere di sapere su se stesso o su un altro” [Jedlowski
2000: p. 22]. Ed è proprio di queste 'cose così vere' che
il cinema occidentale si è occupato dopo l’11 settembre, prendendo
a motore di molte sue trame un archetipo come quello della
vendetta, il tabù principale del testo e della conversazione
corrente sull’attacco terroristico. Film come Era mio padre,
Mystic River, Gangs of New york, La 25° ora, Kill Bill, Batman
begin, V for vendetta, History of violence, Munich solo per
citarne alcuni, sono fra i migliori, non solo dal punto di
vista estetico ma anche narrativo, che hanno per soggetto
un racconto di vendetta. Nonostante su questo esista una filmografia
sterminata anche prima del 2001, soprattutto per quanto riguarda
la grande produzione hollywoodiana, non si è mai verificato
questa concentrazione in pochi anni di film d’autore simili
fra loro nei presupposti concettuali.
Un regista quando è autore, e non mero esecutore, rielaborando
un materiale così abusato, ma allo stesso tempo 'originario'
e universalmente diffuso in letteratura come quello della
vendetta, rende intelligibili senza alcuna sovrastruttura
intellettualistica dei meccanismi narrativi primigeni e il
pensiero che li sottende.
Il termine 'vendetta' apre uno spazio linguistico e culturale
immenso, per cui al di là di una filiazione continua di significato,
ogni definizione segue un percorso tanto storico quanto geografico.
La rappresentazione del cinema occidentale difatti è profondamente
diversa da quella messa in scena dal regista sud coreano Park
Chan- wook con la sua trilogia della vendetta, e ancora, all’interno
dell’Occidente stesso, il passato dell’Europa non è quello
dell’America, e se il primo ha come testimoni i poemi della
nemesi storica, l’altro si confronta con una radicata letteratura
di palingenesi. History of violence di Cronenberg, è sì una
dura riflessione sulla violenza dissimulata della natura umana
e quella bene evidente degli Stati Uniti, ma come regista
canadese molto vicino alla sensibilità europea, sublima la
vendetta nella grande ansia del passato che ritorna e chiede
conto di ciò che siamo. Gangs of new york di Scorzese, che
ugualmente muove da una storia privata di vendetta per osservare
allo stesso tempo la deriva brutale di un paese, l’America
agli albori, ancora senza Stato, sposta al contrario l’attenzione
sul valore morfogenetico della violenza, quale principio originario
d’individuazione sia personale che sociale, che non va estinto
quanto istituzionalizzato.
Inoltre, la “derivazione degli scarti di senso a partire dal
non-detto implicito” [Ricoeur 2005: p. 10] in una delle definizioni
di un termine è già di per sé una riflessione concettuale
che consente a livello dell’immagine più dispositivi narrativi:
intorno all’idea di vendetta come 'ritorsione' si svilupperà
un racconto completamente diverso da quello che ha per presupposto
il significato di 'rivendicazione', e il concetto sottinteso
di violenza che affiora inevitabilmente nel narrato, da una
parte vorrà dire 'aggressione' e dall’altra semplicemente
'forza'. Va dunque ora individuato e circoscritto lo spazio
entro il quale si muove il racconto di vendetta come narrazione
che si occupa dello sviluppo del se’.
La sacralità dell’individuo, dei suoi diritti ma ancor di
più dei suoi doveri è un lascito imprescindibile della cultura
americana, e l’11 settembre deve aver ricordato a molti cos’è
la libertà in relazione alla responsabilità individuale. Nessuna
forma di coercizione può essere tollerata come necessaria,
e il potere, nella veste esplicita del governo o in quella
silenziosa delle masse ammansite dalla paura, non deve indurre
al conformismo. Il destino a cui l’America crede di essere
chiamata è in realtà una tensione culturale continua che,
nonostante le molte contraddizioni, passa prima di tutto per
la realizzazione individuale. In una naturale quanto impensabile,
per l’Europa cattolica, commistione tra teoria e prassi, politica
e religione, la felicità in terra è la promessa che significa
patto, ma ancor prima impegno personale.
Se l’etimologia di vendetta è 'vindicta', ovvero la verga
con cui si affrancava lo schiavo, e ancora oggi se ne scorge
l’eco nei significati di rivalsa, rivincita o il più persuasivo
rivendicazione (tant’è che nella lingua anglosassone uno dei
termini usati per dire vendetta, 'revenge', conserva il prefisso
di reiterazione e ritorno), allora un racconto guidato da
questa distinta area semantica avrà come contenuto un percorso
specifico di liberazione, una storia d’indipendenza tutta
personale, un Esodo su piccola scala secondo l’immaginario
originario degli Stati Uniti.
Davanti ad uno scenario come Ground Zero Spike Lee ha raccontato
la faticosa e tardiva redenzione di uno spacciatore. L’ultimo
giorno di libertà prima di finire in galera, Monty Brogan
vuole trovare la spia che l’ha denunciato e vendicarsi. Il
titolo del film, la 25°ora, è il tempo supplementare concesso,
ma non vivibile, che il protagonista guadagnerà al termine
del giorno, rinunciando alla vendetta e assuntasi la responsabilità
delle sue azioni. Il sogno finale sulla seconda occasione
e su una vita diversa da quella condotta fino a quel momento
sono il sintomo di una salvezza più sostanziale che effettiva;
l’antieroe è pronto a percorrere la via più difficile per
riappropriarsi, se non di un futuro, almeno di se stesso.
Un simile processo di responsabilizzazione avviene anche nel
film di Steven Spielberg Munich, ispirato al libro-testimonianza
di George Jonas, Vengeance. La storia, vera, racconta la parabola
esistenziale dell’agente segreto del Mossad Avner, a cui è
stata affidata dal primo ministro israeliano una missione
senza precedenti: vendicarsi dei mandanti della strage delle
Olimpiadi di Monaco del 1972 compiuta da un commando palestinese.
In giro per il mondo, delitto per delitto, il senso di appartenenza
di Avner al suo popolo e alla sua terra inizierà a vacillare,
fino a compiere la scelta estrema di diventare esule; il concetto
di casa, quindi di radici e intimità, che viene spesso affrontato
nel film, dirotterà il protagonista verso una terra straniera
dove nessuno può più decidere per lui. Sullo sfondo della
scena in cui si compie la scelta definitiva e l’addio alla
vecchia identità, si stagliano simbolicamente le Twin Towers
ancora intatte.
Film di questo tipo si configurano dal punto di vista narrativo
come racconti 'sulla' vendetta, nel senso che si presentano
come riflessioni esplicite su questo tema e fanno sì che il
protagonista, di fronte a strade diverse, sia costretto continuamente
a decidere, inducendo a problematizzare lo stesso spettatore,
cosa ritiene giusto e cosa sbagliato, cosa lo renderà consapevole
e migliore e cosa lo farà sprofondare in un cammino senza
ritorno.
Al contrario film come Kill Bill di Quentin Tarantino, Batman
Begin di Christopher Nolan e V for vendetta dei fratelli Wachoski,
che pur hanno come soggetto un percorso di formazione e autodeterminazione,
sono strutturati come film 'di' vendetta, ovvero la vendetta
è il contenuto che si fa forma, la 'fabula' è la logica dell’'intreccio'.
Il racconto, infatti, non è una riflessione di tipo morale
sulla vendetta tout court, ma una storia veicolata dalla metafora
narrativa che questa rappresenta. La narrazione di ordine
mitico presenta e fa sì che questa venga recepita spontaneamente
come congegno romanzesco che giustifica e sviluppa la sequenza
di avventure. Inoltre, la narrazione irrealistica attuata
per mezzo di trasposizioni cinematografiche di fumetti, permette
di spostare il piano della riflessione dalle questioni etiche
sulla legittimità della vendetta al percorso formativo del
protagonista, senza che avvenga nessun compromesso di tipo
morale nello spettatore.
Nel racconto dei fumetti, infatti, la vendetta è già ratificata,
avallata dall’immaginario collettivo dell’eroe 'giustiziere'
che è tale solo nella misur a in cui agisce così. Intorno
alla vendetta come 'tropo' si è come costituito un nuovo genere
cinematografico. La definizione di genere, in questo caso,
ricalca l’impostazione metodologica che usò Cavell per definire
la “commedia del rimatrimonio”, ovvero quelle commedie post
Depressione che tematizzavano l’emancipazione femminile e
la conseguente educazione reciproca all’interno di un ritrovato
amore coniugale. “L’idea è che i membri di uno stesso genere
condividano l’eredità di determinate condizioni, procedure,
temi e scopi della composizione” [Cavell 1999: p.XLVIII].
I film sopraccitati, che meglio esemplificano il genere, hanno
così affrontato le medesime tematiche secondo una narrazione
modulare di questo tipo: un momento prettamente educativo
in cui il protagonista si confronta/scontra con un maestro,
una serialità spazio-temporale attraverso la quale porta a
termine la vendetta e infine un episodio di catarsi in cui
sconfigge la propria paura.
La serialità, intesa come il susseguirsi episodico di vendette
minori per arrivare al grande duello finale, è la cifra costitutiva
di gran parte dei fumetti, ma in questo contesto acquista
la valenza simbolica del riconoscimento, alla maniera in cui
Ricoeur spiega il ritorno ad Itaca di Ulisse e la messa in
gioco della sua presunta identità. “Le scene di riconoscimento
scandiscono e accompagnano la riconquista della propria casa
da parte di un padrone inflessibile a spese di usurpatori
elevatosi al rango di pretendenti al possesso della sposa
legittima. Questo contesto di violenza fa sì che una storia
di riconoscimento si trovi inestricabilmente mescolata alla
storia di una vendetta. Ed è il ritmo di questa seconda storia
ad imporsi anche sul ritmo del riconoscimento stesso, al punto
che i gradi del riconoscimento risultano essere altrettante
tappe sul cammino di una vendetta” [Ricoeur 2005: p. 90].
Non è un caso che i film presi in considerazione parlino esplicitamente
di usurpatori alla maniera dei Proci. L’uomo dispotico che
si sostituisce alla donna madre in Kill Bill; il dittatore
che s’impadronisce dello spazio privato del cittadino in V
for vendetta; i dirigenti imbroglioni dell’azienda di famiglia
che prendono il posto del legittimo proprietario in Batman
Begin. Black Mamba, una spietata killer professionista, quando
scopre di essere incinta decide di abbandonare il suo incarico.
Il tentativo di rifarsi una vita le sarà impedito nel giorno
delle nozze da sicari al soldo dell’ex boss e amante Bill,
nonché padre della bambina che porta in grembo. Al risveglio
dal coma la sposa mancata avrà un solo obiettivo, vendicarsi.
I nomi numerati dei colpevoli scritti nel block notes saranno
depennati uno dopo l’altro.
Hattori Hanzo, il più grande costruttore di spade al mondo,
ha promesso a se stesso di non fabbricare mai più strumenti
di morte, ma quando lei arriverà a chiedergli l’arma per combattere
il più grande 'parassita' che esista, il maestro convinto
dalla determinazione ma anche dalla legittimità della causa
forgerà per lei una spada speciale, con cui si può trapassare
anche Dio, come dirà consegnandogliela. 'Trapassare Dio' è
un espressione quasi nietzscheana, che ricorda molto il frainteso
superomismo individualista, che tuttavia non significa altro
che la volontà di essere ciò che si vuole essere, senza imposizioni
dall’alto, o subdole costrizioni sociali. Il Dio morto di
Tarantino è il machismo di fine secolo, la seduzione mistificante
che induce alla sottomissione. L’eroina del suo film è la
donna che muove guerra non per i diritti ma per le possibilità:
la maternità è scelta e desiderata, e questo basta. Non ci
sono '-ismi' di ritorno; alla parità è preferibile la differenza.
Per arrivare a Bill, la vendetta passa essenzialmente per
le donne che lavorano per lui: la buona madre di famiglia,
la potente leader della mafia giapponese, la bella megera
avida.
Ogni combattimento è un responso dello specchio, ci sarà immedesimazione,
rispetto, invidia, fino al confronto con l’uomo che quello
specchio le ha rifiutato. Il capitolo finale di Kill Bill
è sorprendente per originalità e fermezza di pensiero. I due
ex amanti, infatti, al termine del lungo cammino di reciproca
e inaudita violenza, non intraprendono un duello all’ultimo
sangue, ma un dialogo serrato. Beatrix, nome che per tutto
il film viene sovrastato, quando pronunciato, da un 'bip'
più che mai simbolico, ha abbandonato definitivamente la pelle
del 'serpente' (solo dopo un percorso di riconoscimento l’appellativo
viene eliminato a beneficio del nome proprio del personaggio).
Quando Bill le sparerà un colpo, non per ucciderla, ma per
iniettarle una sorta di siero della verità, sarà finalmente
libera: adesso può parlare e rivendicare le sue scelte. La
morte di Bill è irrevocabile, ma il colpo segreto della pressione
delle dita sul cuore con cui si compie la vendetta finale
apre, di fatto, all’ambiguità della relazione vittima-carnefice.
Il gesto di simbolica intimità con cui Beatrix uccide il suo
ex compagno, l’uomo oppressore e castrante, è la spia di una
latente complicità. La rivendicazione non dimentica i suoi
limiti, e il potere è qualcosa, che se non si ha, invita pericolosamente
all’assuefatta collusione.
Una riflessione di questo tipo è ben evidente in V for Vendetta.
In un'Inghilterra scampata alla guerra nucleare e oppressa
da una dittatura mediatica e poliziesca, una giovane donna,
Evey viene salvata da un uomo dal volto coperto dalla maschera
di Guy Fawkes, l’attentatore cattolico che nel 1605 aveva
tentato senza successo di far esplodere il Parlamento inglese.
Il suo nome è V. e vuole vendicarsi di coloro che l'hanno
internato in un campo di concentramento, in quanto 'diverso',
e sottoposto a crudeli esperimenti; inizia così la sua rivolta
contro il potere normalizzante e invasivo, cercando di guidare
i suoi concittadini, ma sopratutto la stessa Every, contro
la tirannia.
Il riconoscimento seriale in V for vendetta è propriamente
un’agnizione, nel senso che l’identità delle vittime (tutte
carnefici di un ex campo di concentramento) determina, sul
piano investigativo, una rivelazione sull’identità del vendicatore
(un detenuto scampato all’incendio del campo); la conoscenza
avviene per un semplice richiamo della memoria e del rimosso
di quella terribile esperienza. La resa dei conti è un percorso
di disvelamento dove la maschera che cade reclama innanzi
tutto il volto negato.
In Batman Begin, invece, il riconoscimento ha il significato
di attribuzione di valore, perchè i vari antagonisti, che
non sempre sono stati incontrati in un momento anteriore a
quello della lotta, sono, nella maggior parte dei casi, il
mezzo attraverso il quale l’eroe mette a punto le potenzialità
della sua maschera e costringe i protagonisti del crimine
a fare i conti con la sua esistenza. Va ricordato inoltre
che il travestimento da pipistrello gigante è un alter-ego
in piena continuità con l’io originario di Bruce Wayne. Questi
infatti da bambino, cadendo in un pozzo infestato da pipistrelli,
sviluppa la fobia che sarà poi la causa indiretta della morte
dei suoi genitori per mano di un ladro. Il senso di colpa
e la volontà di vendicare i suoi familiari lo costringeranno
ad affrontare la paura, e a trasformarla da limite in risorsa.
Il ritorno a Gotham City, dopo aver appreso in un lungo viaggio
per le montagne d’Oriente l’arte del combattimento ninja,
implica una rivisitazione della propria infanzia, ma sancisce
allo stesso tempo l’inizio di una nuova maturità. Lo stereotipo
dell’educazione orientale al coraggio e alla disciplina si
trova anche in Kill Bill nella figura di Pai Mei, il venerabile
maestro di kung-fu che insegna a Black Mamba le tecniche mortali
e di sopravvivenza.
Questa convenzione narrativa tuttavia ha una funzione assai
specifica nel percorso di formazione del protagonista. L’allontanamento
spazio-culturale facilita, non tanto il cambiamento, quanto
l’ampliamento delle potenzialità: lo sviluppo sensoriale,
il livello d’attenzione, il rinvigorimento del corpo. Non
si tratta però di mera forza fisica perchè l’eroe diventa
tale nella misura in cui impara ad accrescere e prendere a
cuore ciò che ha in 'nuce'. L’educazione è posta seriamente
come quel processo che conduce fuori il piccolo, il nascosto,
o in questo caso più correttamente il sopito. Il danno subito,
infatti, ha come ostruito una strada e spetta alla vendetta
riaprire il cammino.
La relazione educativa paradigmatica tuttavia è quella fra
V. ed Every. Il moschettiere mascherato insegnerà alla sua
ospite un intero mondo alternativo e ancora possibile. La
casa-castello, colma d’oggetti d’arte e pervasa dalla musica
proibita dal regime, è il luogo dove ciò che è giusto e bello
manifesta il suo monito. Il recupero di Every passa attraverso
il recupero di una cultura sconfessata, quindi dimenticata,
e l’acquisita consapevolezza troverà il suo completamento
solo nell’azione. Every deve imparare a non farsi paralizzare
dalla paura. V. inscenerà una finta prigionia e finti carcerieri
per obbligarla, di fronte alla richiesta di delazione, alla
scelta più grande, quella tra la vita e la sua dignità. Nell’isolamento
della cella, la ragazza scoprirà finalmente quel ‘centimetro’
inalienabile di libertà e dignità che ognuno possiede dentro
di sé, quello spazio in cui non può entrare nessun tiranno
o governo, e alla rinuncia di questa conquista preferirà la
morte.
Questa sorta di viaggio ctonio, per cui sondata la profondità
dell’animo umano segue una vera e propria rinascita, è un
altro denominatore comune dei tre film presi in esame, ed
è legato essenzialmente al concetto di superamento della paura.
Nella caverna scoperta sotto casa Bruce Wayne diventerà per
la prima volta Batman, e per la prima volta fronteggerà la
sua fobia dei pipistrelli. Nel momento in cui Beatrix viene
sepolta viva dal fratello di Bill non si farà prendere dal
panico, e coglierà invece l’occasione per mettere a frutto
l’insegnamento di Pai Mei e fare così a pezzi la bara che
la imprigiona. Riemersa da molti metri di profondità, l’eroina
è più forte e determinata che mai.
L’abuso d’informazioni ansiogene nei sistemi democratici,
al fine di controllare l’emotività dei cittadini e d’impedirne
comportamenti critici, ha evidenziato l’importanza di un sentimento
quale la paura nell’educazione umana. Le storie di riscatto
ed emancipazione che il cinema ha raccontato negli ultimi
anni si sono fatte carico di questo limite imposto svelandone
il tranello e mostrando allo spettatore protagonisti consapevoli,
liberi dalla paura, tesi alla salvaguardia della propria autonomia
e possibilità di scelta, piuttosto che alla rigida difesa
di una presunta identità.
La lettura di questi film come novelli romanzi di formazione
ha messo in luce alcuni luoghi comuni della narrazione, ma
allo stesso tempo ha così segnato l’attualità, in tempi di
guerra globale, del problema di uno sviluppo più cosciente
del sé.
BIBLIOGRAFIA
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Oldboy, Chan-wook Park (Corea del Sud, 2003).
Sin City, Frank Miller, Robert Rodriguez, Quentin Tarantino
(Usa, 2005).
Sympathy for Mr. Vengeance (Boksuneun naui geot), Chan-wook
Park (Corea del Sud, 2002).
The Punisher, Jonathan Hensleigh (Usa/Germania, 2004).
Una storia violenta (A History of Violence), David Cronenberg
(Usa, 2005).
V per vendetta (V for Vendetta), James McTaigue (Usa/Germania,
2005).
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