Narration et empowerment
Federico Batini (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.3 Juillet-Septembre 2006
TRACCE DI SÉ: il rito del commiato laico tra commemorazione e narrazione
Marina Brancato
akirana@hotmail.com
Laureata in Scienze politiche
presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” con
una tesi in Antropologia culturale dal titolo “La morte laica.
Sulle tracce del rito civile nella prospettiva di Ernesto
de Martino”; si è occupata di nomadi metropolitani, di video
ed etno-fotografia; collabora come traduttrice con la rivista
M@gm@; attualmente sta proseguendo le sue ricerche sul versante
dei riti funebri nella cultura sarda e dell’Italia centrale
(Toscana e Umbria).
Morte
e riti funebri
Sembra che in questo mondo attuale si siano perse di vista
le grandi domande sulla nostra esistenza. Più specificamente,
la morte sfugge persino alla possibilità di essere pensata
e rappresentata nonostante, essa rappresenta un evento fondamentale
sia dal punto di vista individuale che sociale. I Riti funebri
sono infatti universali e necessari per tutte le comunità
umane: fondano il nostro essere nel mondo in relazione agli
altri, grazie al carattere pubblico del suo spazio. Tuttavia,
anche quando svanisce il legame con la propria tradizione,
si continua a manifestare l'esigenza di un trascendimento
della morte, attraverso gesti e parole simboliche, mediante
un rito appunto. In molti paesi europei, i riti funebri esprimono
una nuova attitudine, che è quella di commemorare i propri
morti in modo più personale, parlando di chi non è più, ricordando
la sua vita, i suoi affetti, le sue preferenze, il segno da
lui lasciato su questa terra. È una memoria che privilegia
la mente ed il cuore di chi rimane, oltre che gli specifici
spazi di un cimitero o di un crematorio.
Per analizzare queste esperienze rituali che definiamo "riti
di commiato", è necessario ricordare brevemente qual'è la
funzione del rito funebre. Esso funge da contenitore del cordoglio,
sospende il tempo ordinario, il fluire quotidiano degli eventi
[1], e mette pertanto le
persone colpite da un lutto di fronte alla possibilità di
esprimere, in modo solenne, il dolore, lo sconvolgimento e
l'impotenza che l'uomo prova di fronte al mistero della morte.
I riti funebri sono fondamentali nel rafforzare e nel ri-costruire
le relazioni sociali indebolite dal sopraggiungere della morte,
poiché contemplano un assembramento di persone ed una relativa
intensificazione delle quotidiane relazioni sociali.
Nonostante le differenze che può assumere in diversi contesti
culturali, il rito funebre rimane ovunque un evento pubblico,
visibile, ridondante di partecipazione e scambio per il gruppo
coinvolto. La morte è, come sosteneva De Martino, una crisi
radicale della presenza e/o la crisi dell'esserci dell'uomo,
dunque il rito funebre richiede una presenza 'fisica', una
partecipazione diretta, forte. Tale inevitabile e concreta
fisicità, che si manifesta attraverso la presenza, consente,
innanzitutto, il dispiegarsi della parola, di quelle 'parole
contro la morte come ha brillantemente intuito Douglas J.
Davies: "il linguaggio è diventato il simbolo dell'autocoscienza
umana, e il mezzo con cui gli individui diventano consapevoli
di se stessi e si relazionano l'uno all'altro. Sovente la
morte è stata interpretata come una sfida all'identità umana
e come una messa in crisi del destino sociale. Di conseguenza,
ritengo che i riti funebri siano utili a spingere la negatività
della morte: è la ragion per cui parlo di riti funebri come
di "parole contro la morte". Le parole rappresentano simbolicamente
la natura positiva dell'identità umana che continua, e della
società come culla dell'identità, mentre i cadaveri rappresentano
l'ambito negativo dell'esistenza fisica, che è di breve durata
per ogni individuo. I riti funebri e il linguaggio della morte
segnano così la linea di demarcazione fra il paradosso dell'eternità
sociale e la mortalità fisica. In questo senso i funerali
sono il simbolo della società" [2].
Il rito funebre, fornisce alla parola - sottoforma di condoglianze,
orazioni funebri, discorsi di commiato, formule religiose,
auspici di immortalità - un contesto solenne in cui risuonare.
Il Rito del commiato laico
Nonostante tendano ad una certa uniformità e a presentarsi
come retaggi di una lunga tradizione, i riti funebri mostrano
spesso una notevole variabilità anche all'interno di una stessa
cultura, anche all'interno di società considerate più tradizionali
rispetto ad altre. I riti in generale, e quelli funebri nello
specifico, devono la loro persistenza e diffusione universale
proprio alla loro plasticità, alla capacità di includere la
storia, i cambiamenti. È raro, in effetti, che un rito funebre
non dia luogo, tra gli attori sociali coinvolti, a una qualche
forma di negoziazione sui dettagli del suo svolgimento che
possono essere più o meno rispettosi della "tradizione", più
o meno orientati verso il cambiamento e l'innovazione.
Attraverso il rito prendono forma le credenze, la visione
del mondo, i valori di una società. Non si tratta di credenze
necessariamente di natura religiosa: anche i funerali "laici"
lasciano emergere valori cari al defunto e alla sua comunità.
La necessità di un rito funebre laico si è imposta con maggiore
insistenza, al punto che essa è finalmente giunta a trovare
riscontri non solo tra coloro che sentono urgente questa esigenza,
ma anche tra le istituzioni politiche e sociali [3].
Il bisogno umano di condividere il dolore e di essere aiutati
nel momento del distacco dal defunto, anche se espresso in
forme nuove rispetto al passato, richiede comunque una ritualità.
A tale necessità è legata la celebrazione di riti funebri
civili, o laici, chiamate " Cerimonie del Commiato". Queste
si svolgono nelle sale del Commiato che presentano talvolta,
un'identità storica e culturale ben precisa (come i tempi
crematori ottocenteschi) ma che sono in gran parte di nuova
costruzione, arredate in modo semplice, prive di simboli,
così da risultare polifunzionali e utilizzabili non solo per
la celebrazione dei riti funebri laici, ma anche per quelli
di altre religioni. Benché si tratti di luoghi che non possiedono
una solida tradizione alle spalle che possa conferire loro
un'atmosfera di forte sacralità, possono tuttavia diventare
scena di un nuovo modo per congedarsi dai propri defunti.
"L'esigenza di un rito rivolto a commemorare la persona quale
era in vita risponde alla cultura della nostra epoca, che
attribuisce molta importanza all'individualità di ciascuno.
Indipendentemente dalle fedi religiose, è molto avvertita
l'esigenza di avere un momento privato per dire addio ai propri
cari nel modo che si ritiene più idoneo a commemorare ciò
che lo scomparso fu e rappresentò per coloro che lo hanno
amato" [4].
Dunque, la personalizzazione del rito funebre rappresenta
uno degli aspetti più significativi su cui si basa il rito
del commiato laico. In tal modo si coglie al meglio l'individualità
specifica del defunto: la nostra società è fondata sulla convinzione
dell'unicità e insostituibilità di ogni individuo, è pertanto
comprensibile che l'addio sia pensato come una commemorazione
del significato dell'esistenza, del ruolo sociale, delle relazioni
sociali e affettive di chi è scomparso. Un rito del commiato
è un rito che ha bisogno, oltre che di gesti simbolici, di
parole: parole che ricordino, che rimpiangano, che commemorino
chi non è più.
Commemorazione e narrazione
Commemorare, deriva dal latino commemorare composto di cum
'con' e memorare 'ricordare'. Narrare, dal latino narrare
affine a gnarus 'che conosce, che è esperto'. Commemorare
dunque, ricordare ciò che una persona ha rappresentato in
vita. Ma anche (saper) raccontare, narrare il suo particolare
vissuto, la sua storia. Si pensi ai lamenti funebri studiati
da De Martino nel Mezzogiorno d'Italia negli anni '50: l'uso
di piangere i morti in metro, secondo credenze, gesti e moduli
letterari stabiliti dalla tradizione era ancora vivo in tutta
Italia verso la fine del XIX secolo, come ne fanno fede i
sinodi dell'epoca che ancora dovevano intervenire per reprimere
il costume. In generale, il lamento poteva essere individuale,
collettivo o responsoriale, cantato da donne, ovvero molto
più raramente da uomini, limitato alla cerchia familiare o
a carattere pubblico, reso al morto dai parenti oppure da
lamentatrici pagate o prefiche. Rispetto al contenuto, 'il
lamento narrava la vita del defunto', ne tesseva le lodi [5].
Oggi professionisti che non appartengono al clero decantano
la vita del defunto, mettono cioè in atto 'una retorica del
lutto'. Questa retorica ha avuto un ruolo nei funerali o nelle
cerimonie funebri di persone famose, ma sempre più spesso
si applica ai comuni membri della società, ed è utile a dare
inizio all'elaborazione del lutto. Spesso è una retorica volta
al passato, una meditazione commemorativa [6].
D'altronde, la morte oggi di personaggi famosi, con il loro
enorme impatto mediatico, porta alla luce una nuova e diffusa
sensibilità nei confronti della morte, che si esprime anche
per le persone comuni in piccoli riti spontanei, in gran parte
estranei a tradizioni codificate. Come ha sottolineato Clara
Gallini:
"tra l'informale e il formale un nuovo lessico del lutto sembra
oggi cercare le proprie parole, da più parti premendo con
tutta l'urgenza di una richiesta di riconoscimento. Insomma,
quella presenza che sembrava estinta (la persona del morto)
sta tornando da noi, come un fantasma cui stiamo collettivamente
cercando di dare nuova forma, una forma capace di rendere
più sostenibili il vuoto di significazioni che attorno alla
figura del morto si era andato spalancando. [...] Ecco, è
proprio questa grande capacità di attivazione simbolica dei
soggetti quello che fa il segno distintivo del cordoglio moderno,
ogniqualvolta intenda togliersi dal silenzio e dall'occultamento
per indicare che questo o quel morto rappresenta un problema
da non confinarsi nella sfera del privato. Ed è qui che, ogni
volta, si giocano e rigiocano quei confini tra privato e pubblico
che un tempo ci apparivano così stabilmente costituiti e che
oggi, al contrario, si rivelano sempre più incerti nella loro
definizione. In questo senso, letture di testi non solo religiosi
ma anche poetici, canti liturgici e profani, testimonianze
di vita introducono la perentorietà del soggetto nel cuore
stesso della cerimonia che si svolge in chiesa. Nuove logiche
simboliche sembrano tentare di imporsi, travalicando persino
gli antichi steccati confessionali che erano stati eretti
all'interno del cattolicesimo" [7].
Tuttavia, un'ulteriore esempio del rapporto narrazione -vita-
morte (laica) ci è dato dal cinema, in particolare da "Le
invasioni barbariche", un film del regista franco-canadese
D. Arcand, racconta una morte laica che è:
"un inno alla vita, all'amore, ai piaceri della carne, del
palato, dell'intelletto e della mente; un'occasione per riconnettere
persone disperse e legami lacerati; una morte laica che ammette
la paura della fine e qualche dubbio legittimo sulla sensatezza
dell'esistenza, ma li condivide e in un certo senso li affida,
li scioglie nelle mani di chi è amico. Non c'è un prete che
dà la benedizione, ci sono però alcune persone (un'ex moglie,
due figli "ritrovati", un paio di ex amanti, una manciata
di amici) che riescono altrettanto bene ad accompagnare colui
che sta per intraprendere l'ultimo viaggio: non hanno esperienza,
non hanno liturgie, non hanno professionalità; sono degli
amorevoli dilettanti che si lasciano guidare dalla propria
sensibilità; non usano olii santi, ma altre sostanze non meno
rituali e certo più piacevoli; non recitano preghiere, ma
conversano, ridono, a turno rievocano pezzi di vita. Insomma,
fanno anch'essi le prove di nuovi riti" [8].
Ma se portiamo la nostra riflessione sul versante più specifico
della narrazione, ci risulta evidente come essa, e cioè il
raccontar(si), sia in stretto legame con la vita, la storia
e, inevitabilmente con la categoria del tempo. Come ci spiega
P. Jedlowski:
"poiché viviamo nel tempo, conosciamo la morte e la nascita,
la capacità di certi avvenimenti di succedersi l'un l'altro
e la possibilità che si diano trasformazioni, sappiamo che
vi sono certi eventi che ritornano ed altri che sono irreversibili.
Certo, la comprensione di tutto ciò è mediata dal linguaggio
e dai nostri discorsi, può essere varia e non è mai definitiva.
La facoltà di narrare, come ha ben spiegato Ricoeur, corrisponde
ad un addestramento e ad un affinamento della capacità di
sviluppare la nostra conoscenza a partire da queste percezioni
elementari: ma se la narrazione è possibile è perché pre-comprendiamo
la vita come qualcosa di storicizzabile. È questa affinità
elementare tra la vita e la disposizione a narrare che permette
d'altronde di dire frasi come "ho avuto una storia" o di pensare
alla "storia di un uomo", alla "storia" di un gruppo o di
una città o persino alla "storia naturale": a suggerirci queste
espressioni è certo la familiarità con il dispositivo narrativo
che apprendiamo mediante il linguaggio, ma se possiamo usarle
è perché la vita si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre
come un materiale narrabile. In questo senso il racconto può
essere considerato effettivamente sotto il concetto di mimesi:
una mimesi che non riguarda tanto specifici eventi o vissuti
quanto il fatto elementare che la vita è nel tempo. Un tempo
a cui il racconto stesso ci accosta trasformandolo per noi
in tempo umano, trama di nessi significativi e compresi" [9].
Sulla scia di Bichsel [10]
Jedlowski fa notare come essere storici significa essere soggetti
al tempo, conoscere la finitudine, che può generare tristezza.
Ma è forse proprio da questa tristezza che ha origine, la
nostra necessità e, al tempo stesso,il desiderio di raccontar(si).
"Il sentimento della finitudine è il sentimento di avere una
vita soltanto. Ma a questo servono le storie: a moltiplicare
la vita, a metterla in relazione con la sua infinità. Sono
vascelli per varcare confini. Esse leniscono il sentimento
della finitudine perché possono rappresentare ciò che non
è più, ciò che è altrove e ciò che è soltanto possibile nel
regno della fantasia, e perché di ogni cosa che è raccontata
mostrano i nessi con molteplici altre. Ma soprattutto per
questo: perché narrare è mettere una storia in comune con
gli altri e narrando, pur senza negarli, trascendiamo i confini
che delimitano la nostra singolarità" [11].
Durante la sua ultima intervista [12]
Ernesto De Martino, riflettendo sul senso del morire del lutto,
ricordava la sua personale esperienza con la perdita della
madre:
"avevo capito il modo di trasformare questo rapporto, che
non si può sostenere a lungo senza averne una profonda crisi,
in un valore morale, in una cara memoria. E il modo è di vedere
che cosa il morto ha fatto o non ha fatto nella vita, che
cosa mi ha insegnato o non ha insegnato: fare un bilancio,
in altri termini, da cui automaticamente emergono soltanto
gli aspetti positivi".
Far risuonare la situazione luttuosa in un valore di memoria,
in un valore morale: valorizzare le sfumature, la ricchezza
e la pluralità delle esperienze e di insegnamenti che abbiamo
ricevuto in quel meraviglioso e variegato percorso che è la
nostra vita. La profonda esigenza di un rito volto a commemorare
la persona quale era in vita risponde alla cultura della nostra
epoca, attribuendo in tal modo un'importanza nodale all'individualità
di ciascuno.
La mia breve, e modestissima, riflessione ha voluto mettere
in evidenza lo stretto rapporto tra la commemorazione e la
narrazione, il loro reciproco intrecciarsi nella ri/evocazione
del vissuto di chi è scomparso nel particolare scenario di
questi nuovi rituali. L'auspicio è, soprattutto, di aprire
nuovi contesti alla tematica della morte, che spesso sfugge
al nostro pensare e vivere quotidiano.
NOTE
1] De Martino E., Morte e
pianto rituale dal lamento funebre antico al pianto di Maria,
Bollati Boringhieri ed., Torino 1958.
2] Douglas J. D., Morte,
riti, credenze. La retorica dei riti funebri, Paravia ed.,
Torino 2000.
3] Penso alla Fondazione
Ariodante Faretti e all'Associazione La ginestra di Treviso.
Per una più ampia argomentazione intorno alle 'voci laiche'
in Italia rimandiamo alle singole opere citate nell'articolo,
nonché alla mia tesi di laurea: Brancato M., La morte laica.
Sulle tracce del rito civile nella prospettiva di Ernesto
de Martino, Tesi di laurea non pubblicata, Facoltà di Scienze
politiche , Università degli Studi di Napoli "L'Orientale",
A. A. 2003-2004.
4] Fondazione Ariodante Fabretti
(a cura di Sozzi M.), Il Rito del commiato, Fondazione Ariodante
Fabretti, Torino 2004.
5] De Martino E., op. cit.
6] Douglas J. D., op. cit.
7] Gallini C., Lady D. e
il lutto postmoderno, in " il manifesto" , 30 agosto 1998.
8] Associazione " La Ginestra
", Tanti modi di dire addio : luoghi, parole, riti per un
commiato laico, a cura di Alessandro Casellato, Istresco,
Treviso 2005.
9] Jedlowski P., Storie comuni.
La narrazione nella vita quotidiana, Mondadori ed., Milano
2000, p. 35.
10] Cfr. Il lettore, il
narrare, Marcos y Marcos, Milano 1989.
11] Ibidem, p. 37.
12] Rapporto sull'aldilà.
L'ultima intervista di Ernesto de Martino,a cura di f. Leoni,
L'Europeo, 21, 21 (1019), pp. 82-86. Ristampato col titolo
L'uomo di fronte alla morte, Religioni oggi - dialogo, 2,
1 (gennaio-marzo 1968), pp. 81-94.
BIBLIOGRAFIA
Associazione "La Ginestra", Tanti modi di dire addio: luoghi,
parole, riti per un commiato laico, a cura di Alessandro Casellato,
Istresco, Treviso 2005
Brancato M., La morte laica. Sulle tracce del rito civile
nella prospettiva di Ernesto de Martino, Tesi di laurea non
pubblicata, Facoltà di Scienze politiche, Università degli
Studi di Napoli "L'Orientale", A. A. 2003-2004
De Martino E., Morte e pianto rituale dal lamento funebre
antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri ed., Torino
1958
- Rapporto sull'aldilà. L'ultima intervista di Ernesto de
Martino,a cura di F. Leoni, L'Europeo, 21, 21 (1019), pp.
82-86. Ristampato col titolo L'uomo di fronte alla morte,
Religioni oggi - dialogo, 2, 1 (gennaio-marzo 1968), pp. 81-94
Douglas J. D., Morte, riti, credenze. La retorica dei riti
funebri, Paravia ed., Torino 2000
Jedlowski P., Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana,
Mondadori ed., Milano 2000, p. 35
Fondazione Ariodante Fabretti (a cura di Sozzi M.), Il Rito
del commiato, Fondazione Ariodante Fabretti, Torino 2004
Gallini C., Lady D. e il lutto postmoderno, in "Il manifesto",
30 agosto 1998
Ortoleva P., Mediastoria. Mezzi di comunicazione e cambiamento
sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2002
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