Narration et empowerment
Federico Batini (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.3 Juillet-Septembre 2006
IMMAGINARIO, NARRAZIONE E SCRITTURA DI SÉ: le pratiche narrative come spazio transizionale e luogo dell’immaginario per reincantare se stessi e il mondo
Orazio Maria Valastro
valastro@analisiqualitativa.com
Dottorando di Ricerca all'IRSA-CRI
(Institu de Recherches Sociologiques et Anthropologiques -
Centre de Recherches sur l'Imaginaire) presso l'Università
degli Studi di Montpellier, prepara una tesi su "Narrazione
di sé e immaginario sociale: biografia e mito biografia nella
creazione auto poietica di sé"; Laureato in Sociologia (Università
degli Studi René Descartes, Parigi V, Sorbona); Cultore in
Campo Autobiografico (Libera Università degli Studi di Anghiari),
Perfezionato in Promozione Sociale e Prevenzione dell'Esclusione
(Università degli Studi Carlo Bo, Urbino) e in Teoria e Analisi
Qualitativa nella Ricerca Sociale (Università degli Studi
La Sapienza, Roma); Specializzato in Mediazione Sociale (Scuola
Internazionale di Mediazione Sociale, Società Italiana di
Sociologia); Fondatore, Direttore Editoriale e Responsabile
della rivista elettronica in scienze umane e sociali "m@gm@";
Collaboratore e Membro del Comitato Scientifico della "Revue
Algérienne des Etudes Sociologiques", Université de Jijel-Algeria;
Sociologo e Libero Professionista, Studio di Sociologia Professionale
(Catania), collabora con Enti Locali, Istituti Professionali
di Stato e realtà della Cooperazione Sociale e del Terzo Settore,
in attività di ricerca sociale, formazione, progettazione
e realizzazione d'interventi in contesti sociali e culturali,
nel settore dei servizi alla persona e le politiche di lotta
contro l'esclusione sociale; associato AIS (Associazione Italiana
di Sociologia), LUA (Libera Univeristà dell'Autobiografia),
Associazione Le Stelle in Tasca (Vice Presidente).
Il
valore della sovversione epistemologica nel cammino della
scienza tra verità oggettive e soggettive: metodologia semiologica
e prospettiva simbolica
Una storia delle discontinuità concettuali e metodologiche
della scienza (Bachelard, 1995) c’invita, in qualità di ricercatori
e operatori sociali e culturali, a non trascurare ma alimentare
con cura un sentimento d’umiltà (Durand Gilbert, 1995, p.
55) rispetto alla nostra relazione con il mondo e la nostra
capacità di produrre e co-costruire delle conoscenze sul mondo.
La fisica quantistica ci ha mostrato, mettendo in discussione
e trasformando la scienza determinista del diciottesimo secolo,
un’intrinseca connessione tra strutture simboliche e sistemi
relazionali, introducendo una postura complessa e alternativa
a qualsiasi tentativo di semplificazione e neutralizzazione
di quella stessa indeterminatezza che caratterizza la produzione
dei saperi e delle conoscenze sul mondo. Pensiero scientifico
e paradigma della complessità umana (Morin, 1986) diventano
un modello che accoglie la nozione d’imprevedibilità, delineando
un orizzonte d’incertezze all’interno del quale tutto ciò
che prima era separato è alla ricerca di un’intelligenza della
complessità (Morin, Le Moine, 1999), un’intelligenza del sociale
(Bertin, 1995) in grado di mettere in relazione e riformare
in profondità il nostro pensiero ed il nostro agire individuale
e collettivo.
La codifica dell’indeterminazione, il principio o relazione
d’indeterminazione di Heisenberg, trasforma l’oggetto della
fisica classica e inaspettatamente “l’oggetto positivista
si dilata fino a comprendere la dimensione del soggetto umano”
(Durand Gilbert, 1995, p. 68), diffondendo una “sovversione
del consenso epistemologico” (Durand Gilbert, 1995, p. 53)
che avvia verso una “filosofia della sovversione epistemologica”
(Durand Gilbert, 1995, p. 53). Una sovversione che acquista
una sua valenza peculiare, sostenuta non dalla confutazione
del determinismo scientifico né tanto meno dal paradosso quantico
promosso da una micro-fisica in grado di ricusare l’indeterminismo
[1]. “Esiste un paradosso
quantico ancora più stupefacente” (Durand Gilbert, 1995, p.
56) che colloca la prospettiva simbolica in rottura con una
metodologia puramente semiologica, predominante nell’epistemologia
in seno alle scienze umane e sociali [2].
La crisi del determinismo non impedisce, tuttavia, e non contrasta
una spiegazione causalista dei fenomeni (Boudon, 1971), instaurando
una divergenza tra semiologia e simbolismo laddove mette in
“opera una statica intellettuale di queste dottrine” che al
contrario noi possiamo fare corrispondere in una dinamica
riflessiva, quando questi metodi “si congiungono sulla via
della complementarietà” (Cullati, 2000, p. 14). Il pensiero
semiologico, concepito a discapito della semantica, si trasforma
in un ostacolo alla simbolizzazione (Bertin, 1995): l’ambito
concettuale, semiologico, favorisce una mentalità tecnicistica
e scientista che avanza per riduzione concettuale del significato
invece d’invocare il risorgere delle immagini; lo spirito
dell’Occidente procede discreditando il simbolo e privilegiando
i fatti materiali e oggettivi. La semantica delle immagini,
rinvigorite dai significati e dal realismo sensoriale, ci
rivela la capacità umana di evocare immagini accompagnandoci
verso una presentificazione del significato e preconizzando
“che non ci sono solo verità oggettive (…) ci sono altresì
delle verità soggettive fondamentali soprattutto al funzionamento
costitutivo del pensiero piuttosto che ai fenomeni” (Durand
Gilbert, 1992, p. 457).
Una semantica che si sviluppa in quanto teoria generale di
valutazione non-elementare ed associata ad una logica-sistema
non-aristotelico (Bulla de Villaret, 1973), considera la complessità
d’ogni movimento d’acquisizione e produzione di conoscenze,
finalizzato ad uno studio dei fattori o degli elementi in
relazione, ala ricerca di strutture e d’elementi in presenza.
La svolta epistemologica, insita nella relazione tra osservatore
e osservato e nella loro reciproca non-identificazione, nella
concezione dello spazio e del tempo situati in una prospettiva
della probabilità o dell’incertezza rapportata a delle strutture,
confluisce nella capacità di simbolizzazione in quanto possibilità
umana auto-riflessiva. La formulazione di una visione quantica
congiuntamente ad una semantica, in seno ai primi tentativi
prodotti dalle scienze al margine del movimento filosofico
contemporaneo (Nicolescu, 1985), mette in luce l’unificazione
di differenti livelli di conoscenza: il livello biologico
e fisiologico, psicologico e semantico, strutturale e spirituale.
I postulati di una relazione tra il corpo e le rappresentazioni
trovano in questo modo il proprio fondamento, concependo una
struttura dinamica dell’immaginario in seno alla quale “lo
schema è una generalizzazione dinamica e affettiva dell’immagine,
costituisce la fattività e non substantività generale dell’immaginario
(…) facendo da collegamento (...) tra gesti inconsci della
sensori-motricità, dominanti riflesse e rappresentazioni”
(Durand Gilbert, 1992, p. 61).
Dal dominio del rimosso, ambito della ricerca oggettiva,
verso una metafisica dell’immaginazione
La rivalutazione e la riabilitazione del pensiero simbolico,
posto ai margini da una concezione della conoscenza aristotelica
e cartesiana, si contrappongono all’esclusione dell’immaginazione
e dell’immaginario in quanto irreali, impedimenti all’acquisizione
di un simbolico messo in risalto nel riconoscimento d’altri
elementi oltre ai segni convenzionali del linguaggio nel funzionamento
dell’immaginario (Nicolescu, 1985), sottolineando il valore
e la realtà di un pensiero senza parole e mostrando il ruolo
di rinnovamento di un pensiero delle immagini (Christin, 2000).
Il pensiero simbolico emerge grazie ad un pensiero non verbale
svelandosi nella struttura del linguaggio, a costo di disfarsi
delle costrizioni sociali e culturali. La concezione classica
della psicanalisi rispetto all’attività simbolica del pensiero,
concepisce questa stessa attività in quanto rimosso simbolizzato.
L’attività fantastica è viceversa l’impossibilità della coscienza
semiologia, rinchiusa nel segno, di rivelare l’immagine simbolica,
il simbolo è così concepito nella sua funzione d’allontanamento
e di dissimulazione alla coscienza del suo significato. L’immagine
simbolica, “lontano dall’essere semiologia nella quale il
significato, o la materia, è dissociato dalla forma (…) è
semantica: vale a dire che la sua sintassi non si separa dal
suo contenuto, dal suo messaggio”(Durand Gilbert, 1992, p.
457). Una concezione simbolica dell’immaginazione che sollecita
un semantismo delle immagini, individua una “identità semantica”
raffigurando una “cinematica del simbolo” (Durand Gilbert,
1996). Il simbolismo è in questo modo assimilato riducendo
qualsiasi spaccatura tra significante e significato, abbiamo
una dissimulazione dello spirito simbolico in uno scarto che
non è una vera spaccatura del sensibile, immaginato e raffigurato,
con la qualità simbolica di evocare, suggerire ed epifanare
una figurazione attraverso una presenza figurata della trascendenza
nel significato resistente. L’immaginario umano caratterizzato
da un pensiero simbolico svela un pensiero per immagini, un
pensiero indiretto generante “un hiatus di significati tra
significante dato e significato richiamato al senso” (Durand
Gilbert, 1996, p. 143), rivisitando la concezione di una realtà
oggettiva distante e separata della comprensione che la pensa
quando la “funzione fantastica oltrepassa il rimosso e la
semiologia (…) ogni ricerca oggettiva si fa attorno e contro
la funzione fantastica (…) poiché il dominio della ricerca
oggettiva è per eccellenza il dominio del rimosso” (Durand
Gilbert, 1992, p. 459-460).
I periodi più significanti dello sviluppo dell’epistemologia
contemporanea (Xiberras, 2002), la metodologia totalitaria
della scienza positivista e la sua implosione dall’interno
mentre il romanticismo apriva la strada ad altre conoscenze,
elaborate sul potere dell’immaginazione e sul funzionamento
della ragione fondato su altri dati che non le forme a priori
della sensibilità, sono galvanizzate nei fondamenti di una
teoria filosofica dell’indeterminazione in seno alla quale
ciò che può divenire oggetto di conoscenza è sempre indeterminato.
Il principio d’indeterminazione rappresenta così il terzo
momento marcante dello sviluppo dell’epistemologia, una svolta
epistemologica fondante una metafisica dell’immaginazione,
un’antropologia simbolica consolidata attraverso una concettualizzazione
della simmetria temporale e dello statuto dell’altrove (Durand
Gilbert, 1995). L’ipotesi di una simmetria tra passato e futuro,
la concezione newtoniana fissandoli una relazione d’asimmetria,
colgono il tempo nell’ordine della successione, nella concezione
einsteiniana la relatività nega unicamente un ordine unico
ed assoluto, si traduce in una refutazione del principio di
causalità efficiente. La meccanica quantistica, differenziandosi
della meccanica classica, sostituisce la dicotomia passato
/ futuro con una tricotomia passato / futuro / altrove, “l’esistenza
di una regione dell’altrove (…) un’intuizione che è difesa
da molto tempo dai mistici (…) adesso è avanzata dai fisici.
Questo non è senza conseguenze sul nostro modo di vedere la
struttura del tempo” (Talbot, 1984, p. 124). Possiamo così
distinguere l’altrove, una regione dello spazio e del tempo
differenziata dal passato e dal futuro assoluto in relazione
ad un evento (Hawking, 1989), e attraverso questa rappresentazione
scientifica del tempo e del mondo il presente non ha uno statuto
privilegiato, essendo un istante in relazione con il futuro
ed il passato e facendo sussiste un rapporto analogo tra il
presente con il qui e l’altrove (Pupolizio, 2002).
Il risorgere del simbolico attraverso una semantica dell’altrove,
caratterizza una scienza che non costituisce più il suo progetto
sulla conoscenza della cause, è un determinismo condizionale
e la teorizzazione del concetto di probabilità condizionale,
con la teoria del simbolo, “colloca per così dire la causalità
del simbolizzante in un simbolizzato spesso inaccessibile,
altrove ma determinante la pluralità degli impatti simbolici
(Durand Gilbert, 1995, p. 58). La “non-separabilità” e “l’altrove”
caratterizzano in questo modo l’essenza del fenomeno attraverso
una dislocazione e “questa dislocazione del fenomeno, come
la sua stessa coesistenza di non-separabilità, il suo radicarsi
per simmetria nell’altrove incita a pensare la nozione d’identità,
questo principio d’identità che è il dogma di tutta l’epistemologia
e della filosofia classica” (Durand Gilbert, 1995, p. 60).
Il rigetto dei principi aristotelici d’identità, di contraddizione
e del terzo escluso, ha generato una semantica (Bulla de Villaret,
1973) che si allontana da una visione statica del mondo, da
possibilità fisse e opposte, ipotizzando un’infinità di possibilità,
una nuove visione dell’Umanità e del mondo basate sui dati
della fisica moderna. L’immaginazione simbolica, insieme alla
fondazione di una metafisica simbolica, si è così opposta
ad una rigida concezione semiologia del mondo fondata sul
“trionfo dell’iconoclasticismo, il trionfo del segno sul simbolismo”
dove “l’immaginazione, come la sensazione dell’altrove, è
rigettata (…) in quanto padrona dell’errore” (Durand Gilbert,
2003, p. 24).
L’ermeneutica dell’altrove come accesso al mito ed
all’immaginario
Il trionfo della spiegazione semiologica positivista è stato
scosso dall’immaginazione comprendente in seno alla quale
l’immagine simbolica e il simbolo sono la “trasfigurazione
di una rappresentazione concreta attraverso un significato
mai astratto”, e una “rappresentazione che fa apparire un
significato segreto, l’epifania di un mistero” (Durand Gilbert,
2003, p. 12-13). Il carattere epifanico del mito, ad esempio,
svelandoci la rivelazione di un’assenza situata nella regione
dell’altrove, si dà una forma immaginaria e attraverso l’immagine
ed il simbolo dispiega la sua capacità ed il suo potere motivante,
generante e implicante dell’immaginario, consolidando la potenza
della figurazione umana e concependo l’immaginario come principio
organizzatore della vita sociale (Durand Gilbert, 1992). Il
mito si definisce quindi come “sistema dinamico di simboli,
d’archetipi e di schemi, sistema dinamico che, sotto l’impulso
di uno schema, tende a comporsi in un racconto” (Durand Gilbert,
1992, p. 64), “fatto della pregnanza simbolica dei simboli
che dispiega nel racconto” (Durand Gilbert, 1996, p. 77).
La forma narrativa del mito (Westerhoff, 2005), il racconto
né è la sua proprietà principale, è stata valorizzata rispetto
al registro del discorso, quello del logos, ed in questo modo
la spiegazione oggettiva ha cercato di padroneggiare il discorso
mitico. Possiamo pervenire così ad una vera sovversione epistemologica
quando “la famosa spaccatura tra logos e mythos, fra trivium
e quadrivium, tra scienze dure e pure e saperi empirici, estetici,
mistici, poetici, è contenuta in seno ad un’epistemologia
generale rinnovata, unitaria nella sua diversità, sistemica
e olistica” (Durand Gilbert, 1995, p. 49). Un approccio comprendente
simbolico, “la rappresentazione comprendente che legifera
e attribuisce significato alla cosa analizzabile” (Durand
Gilbert, 1996, p. 62), si allontana sia da un approccio assoggettando
dei processi attivi come i simboli o i miti alle pulsioni
o alle inibizioni elementari, sia da un approccio d’interpretazione
analizzante unicamente un sistema interiore agli individui
come la società o l’ambiente socioculturale. Quest’approccio
valorizza, in rottura con i metodi classici nelle scienze
sociali, la dinamica dell’immaginario umano e la sua tendenza
a non lasciarsi rinchiudere in una lettura interpretativa
e lineare della vita, aggirando il movimento diacronico dell’esistenza
sociale attraverso le profondità dei simboli e dei miti ed
il loro agire simultaneo. I miti si definisco attraverso “il
processo generatore di passaggio, di reversibilità semantica
dal biologico (riflessologia) al culturale (sociologia)” (Durand
Yves, 1988, p. 39), gli schemi e gli archetipi naturali che
strutturano i miti, e il loro racconto, “il discorso razionalizzante”
(Durand Yves, 1988, p. 39). Il mito e il logos possono in
questo modo incrociarsi e riconciliarsi riunendo e riavvicinando
l’unicità degli esseri e la pluralità delle rappresentazioni
del mondo, collegando la doppia evoluzione del carattere simbolico
del racconto mitico (Westerhoff, 2005): il movimento nel quale
il discorso logico prevale sulla dimensione dell’immagine
e del simbolo, e il movimento opposto di riduzione progressiva
del mito che lascia il suo statuto narrativo per trasformarsi
in simbolo.
Il “sermo mythicus” diventa la matrice di ogni discorso (Durand
Gilbert, 1996, p. 141), una matrice generatrice di significati,
e “qualsiasi racconto (…) ha una profonda relazione con il
sermo mythicus, il mito (…) modello e matrice di qualsiasi
racconto” Durand Gilbert, 1996, p. 230). Il pensiero mitologico,
l’idea che gli Dei dimorino nei nostri racconti, c’induce
a credere al mito che dà forma all’intrigo (Hillman, 1984)
ed alla trama della nostra esistenza, concependo l’identità
degli esseri attraverso la storia o le storie della nostra
vita. La partecipazione degli Dei a queste storie le fanno
divenire dei miti, conferendo alla nostra biografia un carattere
mitico [3] che c’introduce
in un viaggio ed un’ermeneutica dell’altrove come accesso
al mito ed all’immaginario. La funzione essenziale della mitologia
conferisce una forma ed un significato al disordine dell’esperienza
e del mondo (Eco, 1994), pervenendo ad unire insieme simbolismo,
immaginario e reale attraverso la natura inseparabile del
mito dal logos in questa relazione tra pensiero simbolico
e mitologico (Morin, 1986). Il “sermo mythicus” si traduce
in un racconto attraverso la sacralità del discorso che rende
presente una memoria in grado di attualizzare dei valori fondanti,
una coscienza attenta al sacro che ci costituisce. Il mito
nella forma del racconto raggiunge le sorgenti di un orientamento
epistemologico in grado di riunificate le scienze umani e
sociali attorno ad una “mythodologie” della narrazione del
mito (Durand Gilbert, 1996): una “mythocritique” dei racconti
manifestati attraverso differenti linguaggi, un’analisi dei
miti fondamentali e delle loro trasformazioni significative,
ed una “mythanalyse” applicata all’insieme del discorso sociale
di ogni società, in grado di tracciare una topica spazio-temporale
dell’immaginario presente nelle produzioni culturali rispetto
ad un’epoca specifica.
L’epifania instaurativa e costitutiva dell’essere
e della coscienza: l’antropologia del profondo rinnova la
riflessione sulla svolta narrativa e valorizza la postura
mitopoetica nella terapia del sé
L’accento posto da un’ermeneutica instaurativa (Durand Gilbert,
2003) raffrontata con un’ermeneutica riduttiva, dove l’interpretazione
del simbolismo ricerca una sua spiegazione in una cosmogonia
pre-scientifica o riduce la comprensione del simbolo all’azione
delle forze affettive oppure ai modelli culturali, postula
al contrario una questione epistemologica critica nella quale
“l’immaginazione simbolica ritrova una piena autonomia rispetto
all’impero della logica e dell’identità” (Durand Gilbert,
2003 p. 65): in questa prospettiva il “simbolo ci svela un
mondo e la simbolica fenomenologia esplicita questo mondo”
(Durand Gilbert, 2003, p. 78). Due percorsi antagonisti di
un’ermeneutica dell’immaginazione simbolica che tuttavia confluiscono
in una teoria dell’immaginario (Durand Gilbert, 1992) la quale
presuppone una loro convergenza, dopo averne “ripudiato i
metodi puramente riduttivi che interessano unicamente l’epidermide
semiologica del simbolo” (Durand Gilbert, 1996, p. 86), metodi
che ricercano unicamente “una continuità con il privilegio
razionalista” (Durand Gilbert, 1996, p. 86). Il concetto di
tragitto antropologico (Durand Gilbert, 1992) mette quindi
in relazione l’immaginario e la capacità di produrre delle
immagini con la dimensione neuro-biologica e culturale connaturata
all’homo sapiens, facendo risaltare una struttura figurativa
specifica all’homo symbolicus e rendendo “intelligibili le
configurazioni d’immagini, proprie di creatori individuali,
d’agenti sociali o categorie culturali, individuando le figure
mitiche dominanti, identificandone la loro tipologia e ricercando
delle fasi di trasformazione dell’immaginario” (Wunenburger
, 2003, p. 22-23).
Un’antropologia del profondo ci permette in questo senso di
desumere una logica dinamica e narrativa dell’immaginario,
collegandoci alla prospettiva di un’ontologia simbolica (Bachelard,
1968) che riesca tuttavia a recuperare, e al tempo stesso,
rovesciare e far convergere, le linee direttrici della scienza
e dell’immaginazione: “bisogna penetrare nel magma dei deliri
e dei sogni ed allontanarsi dalle vie rettilinee della ragione”
(Durand Gilbert, 1996, p. 33). I collegamenti con la psicologia
del profondo di Jung e le sue influenze nella nozione di storia
clinica (Hillman, 1984), espressione dell’anima e possibilità
di penetrare nella nostra storia interiore innescando l’immaginazione
attiva nel racconto, nella costruzione della trama e del mito
della nostra storia, recuperano altresì l’idea di una molteplicità
degli archetipi che “costituiscono le matrici delle funzioni
della coscienza, le strutture dominanti della psiche” (Durand
Gilbert, 1988, p. 34). L’antropologia simbolica consente,
infine, di rinnovare una riflessione sul ruolo della svolta
narrativa, contraddistinta dall’esercizio dell’immaginario
che assume una valenza terapeutica nella narrazione clinica,
considerando la valenza poetica della narrazione (Wunenburger
, 2003) che attraverso la costruzione della trama, la messa
in scena di un mito, la mimesis, permette di generare e comprendere
il significato dell’agire umano. La costruzione di una storia
(Bruner, 2002) struttura la nostra visione del mondo nella
narrazione e nel racconto di sé, dando forma alla nostra esperienza
delle relazioni con noi stessi, gli altri e le cose del mondo.
Le storie diventano narrazioni dove coesiste il passato ed
il possibile in un divenire nel quale l’identità narrativa,
la nostra ipseità (Ricoeur, 1985), si concepisce come processo
di costruzione nella temporalità, permettendo di identificare
un modello dinamico dell’identità generato dalle potenzialità
poetiche della narrazione.
Il processo relazionale nell’approccio clinico e l’incontro
nella sua immediatezza, la presenza all’altro, l’istante presente
come fondamento di un approccio fondato sulla centralità della
persona, stimola un ascolto sensibile potenziando la libertà
della persona nella relazione (Rogers, 1972). L’ascolto sensibile,
prima ancora di situare una persona rispetto al suo ruolo
e al suo statuto sociale, invita a riconoscere la persona
in quanto “essere, nella sua qualità di persona complessa
dotata di una libertà e di un’immaginazione creatrice” (Barbier,
1997, p. 293). L’ascolto sensibile dell’altro consente di
sostenere la libertà e la creazione, rapportandosi ad un approccio
clinico e terapeutico incentrato sulla persona, rifiutando
al tempo stesso la violenza simbolica esercitata dalla figura
del terapeuta. Nella terapia incentrata sulla persona si è
manifestato questo fondamentale cambiamento del paradigma
antropologico e terapeutico, concependo l’essere umano come
persona. L’approccio transversale ci permette di riconoscere
la dimensione mitopoetica del soggetto, “gli psicoterapeuti
hanno riconosciuto poco alla volta il valore e la valenza
mitopoetica nella cura” (Barbier, 1997, p. 198), come possibilità
di un soggetto nuovo in grado di riequilibrare la visione
della società, di se stesso e del mondo, e questo significa
riconoscere e integrare l’immaginario come funzione psichica
e della creatività simbolica (Durand Yves, 1988), dinamismo
prospettico che attraverso le stesse strutture del progetto
immaginario tenta di migliorare la situazione dell’uomo nel
mondo.
Come ascoltare questo immaginario? Rendendo operanti tre tipi
d’ascolto (Barbier, 1997): scientifico-clinico, caratterizzato
dal suo approccio centrato sul soggetto attraverso la metodologia
della ricerca azione esistenziale e comunitaria; poetico-esistenziale,
un’ermeneutica instaurativa che concepisce la persona dotata
d’immaginazione e il suo modo di essere, creare, immaginare,
inventare; spirituale-filosofico, ascolto dei valori e del
significato della vita negli individui, nei gruppi e nelle
comunità. Un ascolto mitopoetico si delinea infine attraverso
questi tipi d’ascolto che si aprono verso altrettante forme
dell’immaginario che devono essere messe in relazione (Barbier,
1997): un immaginario personale-pulsionale, come origine,
processo e risultato che si fonda sulle pulsioni dell’essere
umano; un immaginario sociale-istituzionale, creazione di
significazioni sociali e dinamica dei rapporti di forza e
significati; un immaginario-sacrale, impatto delle forze ed
energie che ci attraversano senza poterle controllare.
Attività auto-poietica e appropriazione o ri-appropriazione
del proprio potere e del futuro come capacità creativa dell’immaginario
Possiamo considerare le collettività e le persone collocate
in un contesto sociale-storico (Poirier, 2004) e concepirle
come esseri sociali-storici, forme ontologiche irriducibili
all’agire individuale. Il sociale non è di conseguenza una
somma di soggetti né un’intensa intersoggettività, poiché
solo nel sociale sono possibili un soggetto ed un’intersoggettività
anche trascendentali in quanto il sociale “è collettivo anonimo
sempre istituito, nel e per il quale i soggetti possono manifestarsi,
che li travalica indefinitamente (essi sono sempre rimpiazzabili
e rimpiazzati) e che contiene in se stesso una potenza creatrice
irriducibile alla co-operazione dei soggetti o agli effetti
d’intersoggettività” (Castoriadis, 1990, p. 83). Il sociale
e la società non sono riducibili ad un’epistemologia intersoggettiva
e non possono essere ridotti ad un’opposizione semplificatrice
e schematica, separando l’individuo e la società. Il legame
tra clinica e storica che Castoriadis perviene a sintetizzare,
esaminando l’attività della comunicazione e l’intercomprensione
nella pratica pedagogica e psicanalitica, stabilisce il senso
e la finalità dell’attività intersoggettiva nella possibilità
di promuovere l’accesso dell’individuo alla sua autonomia,
sostenendo “la sua capacità di mettersi in causa e di trasformarsi
lucidamente” (Castoriadis, 1990, p. 83).
L’autonomia, finalità di quest’attività intersoggettiva, caratterizza
l’essere in quanto essere nella sua volontà di trasformazione
nel dominio dell’esistenza individuale e collettiva, dandosi
una forma sociale che comprende in ultima analisi anche una
dimensione politica. E’ nel progetto d’autonomia individuale
e sociale che noi possiamo cogliere come la collettività può
esistere in quanto società istituita con i suoi significati
immaginari, riconoscendo al tempo stesso e recuperando il
suo carattere istituente. Il sociale-storico travalica qualsiasi
intersoggettività, permettendoci di considerare le istituzioni
che incarnano il sociale, l’istituito investito da un processo
d’auto alterazione temporale, uno spazio d’istanze che si
aprono ad una “auto-alterazione dell’istituzione sociale,
opera dell’immaginario istituente” (Castoriadis, 1990, p.
163), uno spazio che consente di rimettere in questione le
istituzioni sociali. La portata filosofica del concetto di
sociale-storico, ignorato dalla stessa filosofia (Castoriadis,
1990, p. 311), sconvolge la classica spaccatura tra soggetto
ed oggetto, fondamento di un pensiero che polarizza un soggetto
o ego, e l’oggetto o mondo e “ciò che in questo modo resta
occultato (…) è il sociale-storico che è sempre (…) il co-soggetto
ed il co-oggetto del pensiero” (Castoriadis, 1990, p. 163).
L’immaginazione concepita come potenza creatrice e forza emergente
individua in Castoriadis il concetto dell’essere come magma
di significati e significazioni immaginarie (Poirier, 2004),
sviluppando l’idea di un legame fondamentale tra l’immaginario
ed il pensiero (Barbier, 1997) dove l’immaginazione è creazione
(Castoriadis, 1975), sia come immaginazione radicale, flusso
rappresentativo affettivo intenzionale per la psiche-soma,
sia come immaginazione sociale, flusso aperto collettivo anonimo
per il sociale-storico o società istituente. Le finalità della
pratica narrativa in ambito clinico sostengono la persona
nell’elaborazione di attività poietiche e creatrici poiché
la soggettività, concepita in quanto processo, una soggettività
riflessiva e deliberante alla ricerca del suo divenire, è
lontana da una visione statica dell’essere e dell’identità
del soggetto. Il concetto di soggettività descrive essenzialmente
un processo ed è possibilità di darsi un progetto d’autonomia,
un’autonomia che si qualifica come quella “trasformazione
del soggetto in modo tale che possa accedere a questo processo”
(Castoriadis, 1990, p. 178). Progettare autonomie consapevoli
e concepire il nostro divenire sono le stesse finalità della
pedagogia che sostiene il divenire di un essere umano, “progetto
necessariamente sociale, e non semplicemente individuale”
(Castoriadis, 1990, p. 181) poiché una sociétà è autonoma
se è consapevole del fatto “che si è istituita in modo tale
da liberare il suo immaginario radicale ed essere in grado
di alterare le sue istituzioni per mezzo della propria attività
collettiva, riflessiva e deliberativa” (Castoriadis, 1990,
p. 183). Il legame che la svolta narrativa ha plasmato con
il costruttivismo, ricorrendo “a matrici interpretative di
carattere generativo, relazionale, dinamico” (Formenti, 1998,
p. 108), fondano una logica del divenire costitutiva del linguaggio
che ci permette di non trascurare la dimensione politica dell’autonomia
del soggetto e della società, concependo un’integrazione della
riflessività, delle temporalità e del divenire incorporando
elementi “etici, estetici, pragmatici e politici della nostra
poetica” (Pakman, 2006, p. 71) e del nostro immaginario radicale
e sociale.
La centralità delle persone considerata attraverso
una sociologia del profondo: la narrazione e la scrittura
di sé come luogo della memoria e dell’immaginario per una
poetica dell’esistenza
La pretesa scientifica del razionalismo di cogliere gli aspetti
simbolici dell’esperienza vissuta è inadeguata nel rendere
conto dell’energia creatrice nelle sue molteplici manifestazioni
della vita (Maffesoli, 2005), esaltando la rigidità dell’istituito
a discapito della dinamica dell’istituente. Possiamo riflettere
in questo senso, incoraggiati da una sociologia del profondo,
sui molteplici significati che alcune figure mitiche ci suggeriscono
sulla relazione tra logos e immaginazione poetica, un’estetica
dell’esistenza raffigurata nella tensione che le Dee Mnemosine
ed Hestia rivelano e fanno convergere nell’accezione del termine
greco “epimeleia heautou”, cura di sé, mettendo in relazione
l’immaginazione rispettivamente con la riflessività e la volontà,
ed in modo transustanziale l’ambito della politica con quello
dell’anima. Mnemosine, personificazione della memoria, Dea
della mitologia greca, figlia di Gaia e d’Urano, diede vita
insieme con Zeus alle nove Muse dell’Olimpo, cantatrici divine
che presiedono il pensiero in tutte le sue espressioni. Madre
della storicità e della meditazione è l’archetipo dell’anima
nella storia clinica (Hillman, 1984), meditazione del sé che
in una prospettiva terapeutica può riuscire a dare impulso
ad un progetto d’autonomia.
L’attività poietica e creativa della memoria e del pensiero,
è un’attività ascritta alla dimensione politica dove la questione
dell’autonomia, non solo individuale ma anche sociale, sposta
l’attenzione dal “monopolio della violenza legittima” al “monopolio
della parola legittima”, collocando la presa di parola nel
giogo del “monopolio del significato valido” (Castoriadis,
1990, p. 150). Un’ermeneutica dell’ ‘altrove’ potrebbe non
riuscire a far emergere le significazioni del pensiero simbolico
e il desiderio dell’immaginario dal magma della psiche-soma
e del sociale-storico, confrontandosi con la “credenza nella
legittimità” che il monopolio della parola legittima e del
significato valido suscitano e alimentano in una radicata
“fede nella propria legittimità”? (Weber, 1995, p. 208) Il
concetto dell’uso legittimo ed esclusivo della violenza, da
parte di diversi tipi di potere, mette in rilievo la “pretesa
della legittimità” (Weber, 1995, p. 208) nella quale possiamo
riconoscere una forma di monoteismo, fondato sul triplice
monopolio di violenza-parola-significato contro il quale si
erge il silenzio di un'altra figura del pensiero mitologico
greco: la figura di Hestia (Humeau, 2006, p. 43). Dea dell’intimità
e dell’interiorità, Dea silenziosa e immobile il cui mito
“parla senza parlare (…). Hestia è silenziosa come tutte le
statue (…), il silenzio parla il linguaggio delle pietre,
della scatola nera e della morte (…); le statue sono il riferimento
dell’erranza, il punto fisso attorno al quale si fondono e
si raccolgono i sentieri” (Humeau, 2006, p. 43). Il silenzio
di Hestia, contrapposto al mito di Edipo nel quale quest’ultimo
prende coscienza attraverso la parola, rivela una Dea silenziosa
e immobile, presente attraverso un linguaggio del silenzio
dal quale non emerge la parola, il logos. Nell’assenza della
parola e nella trasgressione dell’immaginario della permanenza,
dove Hestia è la Dea del focolare domestico e della polis
greca, di una Terra immobile al centro del cosmo, il mito
di Hestia esalta la ricchezza dell’interiorità, narrazione
silenziosa del profondo che si erge contro il monoteismo della
parola. La figura femminile della Dea rappresenta i silenzi
attraverso i quali essa si rende presente ed in questa presenza-assenza
esprime, attraverso l’ascolto sensibile dell’anima, tutto
ciò che non può essere evocato o rivelato con un discorso
ragionato. Le due Dee, Mnemosine ed Hestia, ci collegano alla
cura verso se stessi e gli altri dove la narrazione e la scrittura
di sé diventano arte dell’esistenza, attività auto-poietica
in grado di attualizzare un immaginario creatore e trasformatore
dell’esistenza, sostenendo dei progetti d’autonomia e trasformazione
di sé.
Le conseguenze prodotte dalla svolta narrativa, le nuove prospettive
che autorizzano le stesse pratiche narrative a valorizzare
la nostra storia e la storia dell’altro, quell’altro che è
in noi e al di fuori di noi, ci permettono di rivelare una
coscienza costituita da ciò che è anche estraneo a noi stessi
facendoci scoprire il diritto all’estraneità dell’altro e
valorizzando l’alterità nell’accompagnamento alla narrazione
e alla scrittura di sé. Nella predisposizione delle condizioni
che permettono di “prendere la parola per costruire un discorso
su di sé” si delinea il concetto di empowerment inteso come
quell’ “emancipazione che avviene attraverso l’arte e il progetto
di esistere” o “attraverso la revisione critica delle condizioni
materiali di vita e la ricerca di una pratica collettiva”
(Formenti, 1998, p. 132). Nella scrittura autobiografica “è
l’immaginario autobiografico che facilita, per un verso, la
scrittura personale” (Demetrio, 1996, p. 53), e il fatto di
dedicarsi “al lavoro di scrittura in senso proprio della nostra
storia” (Demetrio, 1996, p. 52), l’autobiografia come cura
di sé, rafforza l’identità e l’autostima attraverso uno spazio
di riflessione che si caratterizza come momento d’auto-formazione
esperienziale. Momento al tempo stesso generativo e trasformativo
che rende possibile uno slancio vitale come bisogno di rinascita,
dove la dimensione della parola e della scrittura diventano
opera di riparazione, poiché “l’autobiografia è quanto di
meglio sia in grado di testimoniare la nostra libertà di parola,
di opinione, di visione - assolutamente personale - dei drammi
e delle situazioni esistenziali della vita: connessi alla
crescita, all’amore, alle responsabilità, al diritto, al benessere
se non proprio alla felicità, al dolore e alla morte” (Demetrio,
2006, p. 27).
I dispositivi autobiografici, la presa di parola che si trasforma
nella scrittura personale, stimolano percorsi riflessivi di
significazione e ri-significazione, d’auto-consapevolezza
orientati al sé e dischiusi verso nuove possibilità, verso
un altro esistente possibile. Laddove la centralità della
persona diventa una sorta di nuovo paradigma della nostra
era, è necessario il riconoscimento della cittadinanza alla
parola, non espropriando i soggetti e gli attori sociali della
loro storia e valorizzando il patrimonio della memoria e delle
memorie dei nostri territori. Prendersi cura della nostra
storia, della nostra persona, attraverso un’attività auto-poietica,
una rappresentazione della condizione esistenziale che recupera
l’immaginario, riavvicina l’universo simbolico e le sue capacità
creatrici collocandole in una tricotomia che mette in relazione
il passato, il futuro e l’altrove. Radicati in una dinamica
sociale (Maffesoli, 2005) che sollecita una rappresentazione
comprendente, assicurando il legame tra il passato ed il futuro
e assegnando un posto di primo piano alla passione ed all’emozione
insieme alla ragione, possiamo verosimilmente valutare una
retroazione del futuro sul passato (Durand Gilbert, 1995)
dove il richiamare alla memoria ci consente di ricordarci
del futuro (Batini e Zaccaria, 2002), costruire e scrivere
il futuro. La nozione di empowerment come opportunità e condizioni
adeguate alla diffusione del potere, il potere di essere se
stessi attraverso un’appropriazione o ri-approriazione di
sé in una dimensione transizionale, facilita l’acquisizione
di una maggiore consapevolezza della propria storia di vita
e sostiene la capacità di progettarsi nel mondo e nella relazione
con gli altri e le cose del mondo. La pratica autobiografica
emerge quindi come spazio transizionale (Wieder, 2005) che
possiamo concepire in quanto estetica dell’esistenza (Harrer,
2001-2002), dove la narrazione e la scrittura della nostra
storia operano un effetto di transustanziazione che trasforma
la vita in opera d’arte, definendo uno spazio dell’immaginario
capace di reincantare se stessi ed il mondo.
NOTE
1] Non è difficile comprendere
le resistenze di Popper quando ci mostra il dispiegarsi di
differenti rappresentazioni e di posture epistemologiche delle
scienze: «Il n’y a point dans la mécanique quantique d’argument
spécifique contre le déterminisme (…) rien dans le domaine
de la mécanique quantique ne justifie la thèse selon laquelle
le déterminisme est réfuté, parce que incompatible avec la
mécanique quantique» (Popper, 1991, p. 127-128).
2] Boudon (1991), citato
da Cullati (2000), presenta i metodi quantitativi e qualitativi,
ripartiti tra storicismo, strutturalismo e funzionalismo,
come esempio di metodi semiologici o classici.
3] Hillman cita B. Simon
et H. Weiner.
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