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M@gm@ vol.4 n.2 Avril-Juin 2006
DISSONANZE DIGITALI
Massimo Canevacci
massimo.canevacci@fastwebnet.it
Docente di Antropologia Culturale
presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza
di Roma, è direttore e curatore della rivista "Avatar".
Nel
mese di maggio 2006 si è svolto al palazzo dei congressi di
Roma il sesto evento di musiche elettroniche, arte digitale,
spazi metropolitani. La mia riflessione per una rivista come
m@gm@ che naviga on line e quindi sperimenta nuovi metodi
per nuovi linguaggi e nuove scene culturali inizia da questo
evento e lo prende come esemplare per qualcosa che da tempo
sta mutando stili, valori, percezioni, corporalità, affetti,
erotismi, sensorialità. La ricerca contemporanea ha questa
spinta: di cercare di collocarsi su diversi punti di vista,
non tanto di osservazione neutra, quanto di immersione desiderante
ed empirica su quanto – magmaticamente – sta svolgendosi in
mutazione.
Già nel titolo – dissonanze – si manifesta un posizionarsi
lungo un processo che rifiuta armonie preconfezionate o addolcite,
nel campo musicale, sonico, visuale e comunicazionale. Potrei
dire anche ‘politico’ se il termine non mi apparisse ormai
un po’ obsoleto per così come si usa. Svolgersi negli interstizi
dell’oltre ha come scenario uno stridore non conciliativo
che urta ogni sintesi unificatrice, la frammenta e la ‘dissona’,
la rende cioè dissonante e inquieta, la mescola con le culture
digitali e in primo luogo con un mix di corpi, spazi, immagini
live.
E per tutto questo la scelta del contesto è fondamentale.
I luoghi della cultura sono location. Sono spazi metropolitani
della dissonanza. Di una nuova metropoli che si delinea sempre
meno ‘sociale’ e sempre più comunicazionale. Per questo gli
spazi-location mutano a seconda delle performance che incorporano
e da cui riescono a farsi attraversare.
Libera Dissonanze. L’enorme parete bianco-razionalista
si staglia nella notte per le intermittenze luminose con cui
è modulata: di fronte, grappoli di attrezzature tecnologiche
sparano immagini frattaliche su questa lattea pelle di travertino,
mentre sonorità digitali scuotono compulsivamente ogni linearità
percettiva. Sui gradini, anch’essi bianchi e geometrici, siedono
giovani che fissano immagini proiettate e panorami acustici.
I loro vestiti denotano l’appartenenza ibrida alle varie scene
irregolari e a quelle mainstream del multiverso giovanile
romano. I loro corpi si muovono in scosse minimali e lo stesso
occhio attento non riesce quasi a cogliere tali vibrazioni
invisibili: è come se questo impulso smuovesse il corpo interno.
Simmetricamente, è il corpo esterno dell’edificio a mutarsi
investito com’è da tali compulsività trans-mediali. Intorno,
grappoli di altri giovani in piedi fermi o in leggeri spostamenti
inscenano la composizione in atto, di cui non sono matrice
esterna o accessoria (‘pubblico’), bensì una costitutiva soggettività.
La terrazza disegnata da Libera è pochissimo nota e ancora
meno vissuta. Per motivazioni sia politiche e ancor più urbanistiche
o di semplice immaginazione, il palazzo dei Congressi all’Eur
normalmente si apre nei soli piani coperti per seminari o
esposizioni. Sono persino in pochi a conoscere questo spazio
terrazzato che si apre su uno scenario romano straordinario.
Chi ha scelto di dislocare Libera, di tornare a farlo rivivere
- a trasformare il suo edificio in un corpo vivente e pulsante,
luminoso e mosso - sono gruppi di giovani romani collegati
ai più noti esponenti della scena mondiale della musica elettronica:
sono dissonanti.
E così Libera è liberato dalla sua fissità razionalista e
co-produce finalmente dissonanze lineari e geometrie asimmetriche.
Ogni sua parete esterna è investita da vjeing luminosi. L’effetto
tecno-comunicazionale modifica il luogo espositivo e lo rende
spazio performativo, quasi un interstizio mobile nel panorama
urbano.
Magma Sonico. In tale terrazzo, arriva il
momento per un trasgressivo musicista che non conoscevo: si
chiama Daniel Menche. In un momento di generale distrazione,
comincia a suonare con strumenti e movimenti che non avevo
mai visto o udito. Per dare maggiore visibilità, sale su un
tavolo nello scenario all’aperto e comincia la sua performance.
Ha una cosa strana, certo, uno strumento musicale da lui costruito,
una specie di bacchetta larga sui 5 cm. e lunga 30, una specie
di microfono, amplificatore che usa come una percussione sul
proprio corpo. Si colpisce con questo strumento e panorami
sonici vengono emessi e loopati come escrescenze carnose oscure.
Poi la colloca alla gola, obbliquemente, e le sue urla vengono
captate prima che escano dalla bocca, quando ancora sono dentro
alla gola un attimo prima che escano; una cavernosa timbricità
e pulsazione si accentua col suo continuo sbattere quella
‘cosa’ su diverse parti del suo corpo. Le onde elettroniche
si succedono investendo le persone che gli si fanno sempre
più attorno. Tutto ottiene un potere attrattivo e magmatico
forte. Un magma corporeo e sonico pulsante. Il corpo come
tecnologia e quella ‘cosa’ come un pezzo di carne pieno di
software. Il senso di quello che si può ancora chiamare ‘noise’
unifica tutto quello che sta intorno. La sua presenza in scena
mescola il suo corpo come cassa di ‘sonanza’ alla sua ‘cosa’
iper-tecnologica: emette un senso auratico denso e liquido.
La percezione non solo acustica non può che avvenire là in
quel momento. Daniel Menche cerca di massimizzare lo spazio
tra le sue onde soniche e il pubblico circostante attraverso
l’energia sonica, riempiendolo di onde acustiche. È una musica
somatizzata, non nel senso della patologia, bensì degli innesti
imprevedibili tra digitale e pulsare della laringe, di cuore,
pelle e polmoni. Un suono organico. Un suono transonico fortemente
emotivo. Lo spettro delle frequenze raggiunge i suoi limiti
massimi quasi insopportabili. Musica di sangue pulsante.
Questo è un tipo di musica per individui che si avventurano
in esperienze che sfidano quello che si intende per ‘musica’.
L’indisciplina delle emozioni. Il contemporaneo uso della
luce è come una lama chirurgica che modifica la sensorialità
percettiva. Un pulsare loopato di ‘suonimmagini’ che sbriciolano
qualsiasi unità narrativa (inizio, svolgimento, finale): si
può entrare e uscire in qualsiasi momento da questo panorama
sonico dissonante.
Location Somatizzate. Queste proiezioni dissonanti
modificavano temporaneamente la percezione dell’architettura
che, da opera statica, si trasformava in corpo vissuto e vivente.
VJ è video arte sonica, fasci di luce e di sonorità compulsive
e stridenti. Raschiano l’udito e il corpo. Questo evento è
significativo di possibili mutazioni immateriali del panorama
metropolitano a Roma e non solo. Mutazioni immateriali significa
che non rimane traccia dell’evento nel corpo urbano, eppure
tutto muta grazie alle possibilità performative della cultura
digitale. Una metropoli, quindi, è tale in quanto riesce a
modificarsi temporaneamente generando nei propri panorami
le multi-prospettive di una metropoli comunicazionale.
Da questa ottica, cambia il modo di leggere le testualità
metropolitane, emerge la comunicazione visuale
come fondamentale attitudine di ricerca intrecciata
alle culture e arti digitali, ai nuovi soggetti diasporici
che la attraversano e la producono: suggeriscono e sfidano
etnografie empiriche, minuziose, polifoniche applicate ai
flussi semiotici che risignificano luoghi, spazi, zone, interstizi
a Roma. E non solo … … …
Tornando a casa mi ritornano quelle immagini compulsive. Sono
sempre più convinto che per capire molte delle cose che stanno
cambiando è fondamentale fare una etnografia della
musica, che si dilata sempre più irregolarmente tra
corpi, tecnologie, spazi. È una cifra che
permette di penetrare qualcosa di mutante i cui risvolti comportamentali
o linguistici, espressivi o narrativi sono in fieri. E sono
duri e sessuati. Le scienze sociali qualitative sono sfidate
- e desiderate! - da questi flussi sonici. Starne fuori significa
mutilarsi di qualcosa di decisivo. Il magma
della ricerca sta anche qui. Musica spaziata, incorporata,
digitata.
Le tante aree metropolitane nel mondo stanno entrando dentro
questa sfida mutante: trasformarsi temporaneamente e fluididamente
in scenario performativo, dentro i cui flussi le persone sono
soggetti attivi. Si pensi alle notti bianche, in parte anticipate
da Nicolini nelle indimenticate estati romane e recentemente
riprese/estese a Parigi e da qui rimbalzate in tante altre
metropoli. Si pensi ai festival dai successi crescenti di
filosofie, economie, letterature, poesie. Frammenti di città
come palco. A fronte di questo processo di profonde mutazioni,
la ricerca si deve smuovere dalle università o dalle biblioteche.
E cogliere quanto di tutto questo è solo entertainment adeguato
ai nuovi soggetti, quanto una semplice operazione da pro loco
per attirare turisti, oppure quanto possa essere un gioco
dissonato che sposta sensorialità cognitive. In tal modo il
ricercatore si posiziona, non sta più nel suo ruolo distaccato
e falso-ironico di chi ‘le ha viste e sentite tutte’. Perché
l’ascolto dissonante e perturbativo deve ancora iniziare.
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