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M@gm@ vol.4 n.2 Avril-Juin 2006
L'INTEGRAZIONE: UN APPROCCIO DAL BASSO
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Presidente dell'Associazione
Shinui di Bergamo, Centro di Consulenza sulla Relazione; Direttrice
della Scuola di Counseling Sistemico di Bergamo; Responsabile
delle relazioni internazionali della S.I.Co. (Società Italiana
di Counseling).
Premessa
Per agevolare un processo di integrazione è necessario leggere
il fenomeno in termini circolari, relazionali, di reciprocità
ed ecologici: il processo integrativo si innesca quando entrambe
le componenti - gruppi minoritari e società d’accoglienza
- vivono un cambiamento che crea un intreccio, senza che questo
intreccio sia la semplice somma del vecchio e del nuovo, ma
qualcosa di diverso che prima non esisteva, salvaguardando
le peculiarità dei diversi gruppi etnici, compreso quello
locale. Se l’aspettativa è di integrazione del soggetto migrante
nella società d’accoglienza, il rischio è quello di pretendere
un processo vicino a quello di assimilazione, di confondere
sia dinamiche che concetti e di adottare prospettive lineari.
Pur dipendendo da processi macrosociali, un processo di integrazione
è, allo stesso tempo, strettamente legato ad un microlivello
personale di conoscenza reciproca, incontro e scambio di idee,
di pareri, di vissuti e di percezioni. Questo microlivello
contribuisce alla conoscenza personale e aiuta ad uscire dagli
stereotipi e dall’anonimato. In una visione circolare, attraverso
un approccio narrativo e con un atteggiamento di curiosità
basato sul desiderio di conoscere, è possibile avviarci su
una strada di cui sappiamo com’è l’inizio, ma non dove ci
porta.
L’approccio lineare
Diversi studiosi dei processi migratori si oppongono al concetto
di “integrazione” perché rischia di sottendere un processo
che sminuisce i valori d’origine a favore della simultanea
adozione di quelli del luogo di arrivo: il processo di integrazione,
secondo loro, non è molto lontano da quello di assimilazione
(Musillo, 1998). Per integrazione “si intende usualmente il
processo attraverso il quale un gruppo etnico o culturale
(in senso etnografico) si adatta ad un gruppo più esteso,
che a sua volta lo accetta, senza che sia costretto a cambiare
la cultura e i comportamenti d’origine a favore di quelli
diffusi nella maggioranza” (Favaro e Colombo, 1993, p. 105).
Letteralmente, assimilazione indica il processo per cui “si
tende a divenire simili. Il termine venne usato per la prima
volta all’inizio del Novecento negli Stati Uniti durante la
massiccia immigrazione proveniente dall’Est Europeo e dal
Mediterraneo”. Presto, assimilazione e americanizzazione divennero
sinonimi (ibidem, p. 105). L’assimilazione si basa su una
visione che sminuisce i valori culturali d’origine a favore
della simultanea appropriazione e adozione di quelli del luogo
di arrivo. La persona assimilata diventa “come se fosse” nativa
del luogo dove emigrata; le sue tracce, appartenenti alle
origini, vengono cancellate. In questo modo l’identità viene
spezzata; una parte di essa mutilata o dimenticata.
La distinzione fra il processo di integrazione e quello di
assimilazione sembrerebbe stare nella possibilità di mantenere
contatti con la cultura d’origine e un’identità etnica specifica,
diversa da quella dominante. Il problema nodale della visione
di integrazione sopra riportata sta nella prospettiva lineare
per cui i gruppi minoritari si “adattano” a quello dominante
in maggior o minor misura. La prospettiva lineare prevede
che la società d’accoglienza rimanga intatta e che la popolazione
migrante, venendole incontro, si mimetizzi. Nel privato e
nel suo intimo, quest’ultima popolazione può mantenere i contatti
con le proprie radici. Nel pubblico e nei contatti con l’istituzione,
deve dimostrare, invece, di essersi adattata e adeguata, di
assomigliare al gruppo dominante; deve fare “come se”. Per
la società d’accoglienza, rimanere tale e quale è impossibile,
per definizione: una regola fondamentale della teoria dei
sistemi è che un minimo mutamento in una parte del sistema
vivente, come peraltro si è sempre dimostrato, crea un cambiamento
inevitabile in tutto il sistema (von Bertalanffy, 1968).
Per i gruppi minoritari, invece, questa è una posizione scomoda.
Elenco brevemente alcune ragioni:
• E’ proprio nel pubblico e nei rapporti impersonali che diventa
difficile per un migrante sembrare nativo: l’accento straniero
che non scompare mai oppure gli eventuali ed evidenti segni
fisici come il colore della pelle sono solo due esempi.
• Doversi adattare richiama ad una posizione in cui il singolo
deve nascondere le sue origini e aspetti centrali della sua
identità e del proprio senso di appartenenza. Questo processo
crea inizialmente emozioni di vergogna che, nel tempo, si
trasformano in rabbia.
• L’adattamento ad una cultura dominante pone quest’ultima
in una posizione privilegiata ed elitaria: il modello nativo
si trasforma nell’unico punto di riferimento, si entra in
una logica qualitativa secondo cui una cultura è migliore
delle altre.
E’ in questa prospettiva lineare che compare l’atteggiamento
etnocentrico. L’etnocentrismo considera la propria cultura
come superiore alle altre per modi, stili, abitudini e tradizioni.
In modo indebito, si elevano i valori caratteristici di una
specifica società e le si attribuiscono valori universali.
L’etnocentrista parte da un particolare che appartiene alla
propria cultura e gli è familiare e lo trasforma, generalizzando,
in universale (Todorov, 1989). Gatto Trocchi (s.d.) puntualizza
che tale posizione è diffusa in tutte le etnie e tra i più
diversi popoli: la maggior parte delle etnie si definisce
come “popolo degli uomini”, escludendo gli altri gruppi diversi
dal proprio. E’ questa la “regola di Erodoto” secondo cui
ogni raggruppamento umano, in quanto comunità, si giudica
il “migliore del mondo” e stima gli altri cattivi o buoni
a seconda che si trovino più o meno lontani da sé (Todorov,
1989). Se ne evince che non è questa una visione vincente
del concetto d’integrazione. E’ però l’interpretazione più
diffusa quella che, pur non avendo dimostrato grandi risultati,
persiste nel linguaggio comune e nel sentire generale.
L’approccio fusionale
Per uscire da una visione etnocentrica e lineare, talvolta
l’integrazione viene vista come uno sforzo di fusione e di
riformulazione lento e progressivo di vari sistemi di premesse,
come un processo evolutivo che precede l’assimilazione e incorpora
atteggiamenti, prospettive e approcci che producono delle
trasformazioni finalizzate ad amalgamare (Muraro, 2002). Anche
l’assimilazionismo contempla due modelli. Nel secondo, simile
a quello integrazionista fusionale, chiamato melting pot (crogiolo),
tutti i gruppi etnici mescolano le proprie caratteristiche,
producendo un nuovo “amalgama” sociale (Favaro e Colombo,
1993). Questo approccio prevede quindi che, in un processo
di integrazione riuscito, si arrivi all’assimilazione. Emerge
un continuum lento e graduale che porta ad un amalgama, ad
un risultato omogeneo.
Nella prospettiva lineare la distinzione fra i due processi
è di tipo qualitativo; in quella fusionale, di tipo quantitativo:
quanto più amalgamato, tanto più assimilato.
Anche se la prospettiva fusionale prevede un cambiamento sia
nella popolazione migrante che in quella di accoglienza, i
suoi limiti sono numerosi; ne elenco solo qualcuno:
• Non distinguendo in modo qualitativo fra i processi integrativi
e quelli assimilazionisti, non rimane altro che optare per
la scelta degli studiosi che non parlano affatto di integrazione.
Questa opzione lascia però senza vie di uscita: l’integrazione
non è possibile.
• I processi sociali, psicologici, educativi non mantengono
ritmi graduali e inalterati: questi processi seguono piuttosto
ritmi discontinui, non sempre prevedibili. Ed è solo nella
discontinuità che si apre lo spazio per veri e propri cambiamenti.
• La diversità può spaventare, ma è una grande ricchezza.
Più la società è varia, più possibilità ha di svilupparsi,
di creare nuove idee, di aprire nuovi orizzonti.
• Un amalgama prevede la perdita del proprio patrimonio, la
rinuncia alle origini, alle radici, alla propria identità.
Un’aspettativa di questo genere può essere devastante sia
a livello sociale che a livello personale.
Integrazione e processi migratori
Una breve revisione delle fasi del processo migratorio può
contribuire alla riflessione sui processi di integrazione.
Alcuni studi sugli aspetti psicologici individuano fasi precedenti
alla partenza dal paese di origine e sottolineano l’impatto
che questi vissuti hanno sulla fase successiva all’arrivo
nel paese di destinazione. (Sluzki, 1979; Hertz, 1981; Musillo,
1998; Espìn, 1999; Edelstein, 2000a; Losi, 2000). Nonostante
questa consapevolezza, sembra non ci siano ricerche sul vissuto
nel periodo precedente l’emigrazione. Inoltre, la gran parte
degli studi psicologici ne sottolinea gli aspetti patologici
dimenticando che la migrazione è un fenomeno universale, esistito
in tutti i tempi.
Riconoscendo l’importanza dell’aspetto non patologico del
vissuto del migrante e delle fasi precedenti all’arrivo sia
per il migrante che per chi viene a contatto con lui, ho svolto
nell’ultimo decennio ricerche qualitative che seguono l’approccio
narrativo. Queste ricerche hanno l’obiettivo di descrivere
le distinte fasi dei processi migratori così come vissute
dai protagonisti. Riporto brevemente alcuni risultati (Edelstein,
2002; Edelstein, 2003).
a) La genesi del processo migratorio
La migrazione è un processo che inizia ben prima dello spostamento
dal paese di origine e forse, una volta iniziato, non si conclude
mai. Viene accompagnata da importanti cambiamenti psicologici
ed esistenziali, che interagiscono con gli aspetti socio-politici.
Questo percorso spesso inizia lontano nel tempo con un’esperienza
che ha reso possibile l’emigrazione. Infatti, la maggioranza
delle donne e degli uomini immigrati raccontano qualche vissuto
significativo tratto dalla propria biografia, direttamente
o indirettamente collegato con la successiva decisione di
partire.
Questa esperienza può essere personale:
“Sono cresciuta viaggiando; mio nonno era camionista, mia
mamma lavorava e mio papà non c’era. Ho scoperto nei primi
anni di vita che il mondo è variegato e altri posti offrono
più possibilità”;
può essere familiare:
“All’età di tre anni avevo già avuto la prima esperienza migratoria
quando lasciammo il villaggio per andare nella capitale, ad
Abidjan”;
oppure:
“I miei nonni materni lasciarono la Russia ai tempi dei pogrom,
per andare a Parigi; mia mamma partì per Buenos Aires e così
si salvò dallo sterminio. Mio papà, polacco invece, andò in
Argentina all’inizio degli anni Trenta. La sua famiglia, molto
numerosa e rimasta nel paese d’origine, fu tutta deportata
nei campi di sterminio. Nessun sopravvissuto. Quando arrivò
la dittatura militare in Argentina e presero una mia amica,
non esitai ed emigrai in Israele”;
può infine passare attraverso il vissuto di qualcun altro:
“Una mia cara amica era partita diciassette anni prima per
la Francia e aveva fatto fortuna. Io non avevo pensato di
partire, ma quando la situazione diventò brutta pensai a lei
e l’emigrazione mi parve una possibilità”.
Così, l’esperienza lontana si riveste di significato: un viaggio
che permette di conoscere luoghi diversi e migliori, il progresso,
la sopravvivenza, la fortuna, l’amore… In modo più o meno
conscio, il migrante attribuisce alla propria migrazione un
significato simile a quello che aveva dato all’esperienza
lontana.
Numerose sono le fasi che precedono quelle di sistemazione,
inserimento e adattamento riportate nei racconti dei migranti:
- il progetto concreto;
- la decisione di partire, che spesso nelle donne comprende
la “benedizione della madre”;
- i preparativi e gli addii carichi di emozioni contrastanti
di gioia e di tristezza;
- la partenza;
- il viaggio;
- l’arrivo al paese di destinazione [1].
Prendere in considerazione la genesi del processo migratorio
aiuta, nell’incontro con il migrante, a non considerare come
fattori rilevanti soltanto il paese di provenienza e la sua
cultura di origine, ma ad introdurre altre variabili significative
come sogni e aspettative, il modo in cui il migrante ha lasciato
il suo mondo e il significato che il progetto aveva per lui.
b) La sistemazione
La fase di sistemazione diventa praticamente l’ottava fase
del processo migratorio e comprende aspetti pratici come la
ricerca di lavoro, di alloggio, della scuola per i figli e
l’inizio dei primissimi contatti con l’ambiente circostante.
In questo periodo, le esperienze passano attraverso i sensi:
suoni, odori, gusti, linguaggi sconosciuti, ritmi. Il corpo
sperimenta sensazioni legate ai nuovi climi. Gli occhi si
soffermano sui nuovi paesaggi.
Diversi studiosi hanno provato a descrivere gli aspetti psicologici
di questa fase. Questa è una fase descritta, a volte, come
euforica all’inizio, con una caduta successiva di entusiasmo
e di energia (Losi, 2000). Altri autori parlano della fase
iniziale posteriore all’arrivo: Hertz (1981) chiama questo
momento l’impatto. La fase di impatto sarebbe caratterizzata
da una successione di brevi periodi di euforia seguiti da
rilassamento, sensazione di realizzazione, soddisfazione.
Ben presto si instaurerebbe una seconda fase di rebound (rimbalzo),
con sentimenti di delusione e scontentezza, collera, ritiro
o depressione. Malgrado la tendenza a generalizzare il vissuto
psicologico iniziale dei migranti, diventa utile considerare
senza pregiudizi questa prima fase immediatamente successiva
all’arrivo. Invece di attendersi necessariamente depressione
o euforia, è importante mantenere un atteggiamento di curiosità
(Cecchin, 1988) nei confronti dell’immigrato per scoprire
come corpo e psiche percepiscono il nuovo ambiente circostante
e in che modo questa fase si collega a quelle precedenti.
La varietà dei racconti emersi nelle ricerche rende difficile
una generalizzazione.
c) L’inserimento e l’adattamento
Soltanto dopo una fase di sistemazione il migrante o la famiglia
migrante iniziano una lunga fase di inserimento e adattamento
nella società di accoglienza. È questo un periodo lungo anni,
che forse in un certo senso non si conclude mai. I migranti
hanno bisogno di autodefinirsi e si trovano alla ricerca della
propria identità (Edelstein, 2000b); passano per un periodo
inevitabile di sensazione di vuoto: sentono di essere stranieri
ovunque, non appartengono più alla comunità d’origine, ma
non possono sentirsi parte di quella d’accoglienza.
L’identità viene poi spesso collegata con le radici e di conseguenza
accade che si avvii un processo di intensificazione dei propri
riti e abitudini. La cultura di appartenenza non è più data
per scontata. La nostalgia alimenta il bisogno di riprovare
antichi gusti e di ritrovare vecchi amici o famigliari, i
connazionali diventano particolarmente significativi. Il rischio
è quello di rinchiudersi in comunità e di non aprirsi alla
società di accoglienza. Questi fenomeni vengono alimentati
dai messaggi che la società nativa rimanda, legati ai processi
innescati dall’aspettativa lineare di integrazione o alla
richiesta di assimilazione, oppure, in alternativa, al desiderio
di valorizzare le diverse culture, pensando che solo “le altre”
debbano essere spiegate o in mostra, il tutto in un contesto
etnocentrico.
Con il tempo, l’individuo e le famiglie assorbono regole e
abitudini locali, imparano la lingua e si inseriscono nelle
strutture, sentendo una più o meno alta appartenenza alla
società di accoglienza. Con ‘adattamento’ intendo un processo
di adozione di elementi nuovi e locali ragionevolmente fluido.
Hertz nomina questa fase settlement (insediamento), mentre
in Italia (e non solo) qualcuno la chiama erroneamente ‘integrazione’.
Accade spesso che il termine integrazione venga sovrapposto
o confuso con quello di sistemazione e adattamento: se il
migrante o la famiglia migrante hanno una sistemazione abitativa
soddisfacente, godono di un lavoro stabile, hanno imparato
la lingua, i figli vanno a scuola e sono ben inseriti, si
tende a dire che sono integrati.
Invece, sarebbe più adeguato affermare che si sono sistemati
e inseriti nella società d’accoglienza.
d) L’integrazione – la fase mancante
Un uomo eritreo mi raccontava come, dopo più di trent’anni
di permanenza in Italia, con nazionalità italiana, sposato
con una donna nativa e figli nati qui, non può sentirsi integrato
perché la società lo tratta come straniero: all’edicola, al
supermercato, in giro per le strade non può altro che rimanere
un “immigrato” oppure un “extracomunitario”. Non è soltanto
una questione di tempo: non c’è la certezza che i figli, la
cosiddetta “seconda generazione”, possano sentirsi integrati;
quantomeno, questo processo non avviene grazie al tempo in
maniera automatica.
Oggi non è nemmeno solo l’eritreo che è fuggito per ragioni
politiche a vivere in Italia da tanti anni. Ormai sono milioni
le persone provenienti da altri paesi che costruiscono le
loro biografie in questa penisola. Sono persone che intendono
restare, che hanno un progetto di vita qui. Per lungo tempo
l’immigrazione nel nostro paese è stata percepita come un
fenomeno transitorio. Quando i numeri, i ricongiungimenti
familiari, la presenza nelle scuole dei bambini figli di immigrati
sono diventati indiscutibili, la “rimozione sociale” ha fatto
sì che l’immigrazione diventasse un fenomeno strettamente
collegato al mercato del lavoro. E l’Italia non ha ancora
pensato a livello di politica macrosociale come creare processi
di integrazione. Non ha ancora optato né per un modello assimilazionista,
né per uno multiculturale. Si è affidata finora allo spontaneismo
sociale, al “fai da te, una scorciatoia che non porta da nessuna
parte” [2]. E’ vero che
nel mondo non abbiamo, a tutt’oggi, esempi di processi di
integrazione riusciti. Creare delle nuove politiche e approcci
innovativi è la sfida che, come operatori sociosanitari, possiamo
darci.
e) Il ritorno
L’idea evocativa del ritorno rende possibile essere e rimanere
immigrato. E’ un’idea che crea contenimento e raccoglie l’intero
ciclo migratorio. Il sogno del ritorno è spesso evocativo,
non un progetto concreto: la maggioranza degli intervistati
nelle mie ricerche (sia uomini che donne) risponde di nutrire
il desiderio di tornare in patria. Ma alla domanda specifica
di come o quando, aggiungono che questo accadrà quando i figli
si saranno sistemati (e magari l’ultimo è appena nato), che
l’idea è di tornare per vivere la vecchiaia nella propria
terra, per concludere la vita nel posto più familiare. E’
da vedere se dopo una vita italiana, con figli qui, i genitori
si sentiranno più a casa nel paese d’origine. E questa domanda
si pone soltanto quando la coppia è di connazionali… Inoltre,
certe donne, prevalentemente dell’Est Europeo, dichiarano
di stare meglio in Italia e di non desiderare di tornare.
Alcune organizzano i ricongiungimenti familiari, altre creano
rapporti di coppia significativi, altre semplicemente non
desiderano “tornare indietro”; questo accade anche quando
non hanno ancora una situazione regolarizzata, dopo un periodo
relativamente breve di permanenza nel paese straniero.
Le ricerche svolte negli ultimi anni dicono che la nostra
migrazione è destinata a rimanere, a vivere in questa terra,
a costruire progetti insieme a noi, a diventare locale. Questi
flussi cambieranno il colore, i ritmi, i suoni e i gusti dell’Italia.
La domanda è come e con quale contributo della popolazione
nativa. E’ qui che subentra la fase dell’integrazione, non
ancora avvenuta, ma sulla quale possiamo riflettere e magari
anche agire. Riguarda probabilmente le generazioni successive,
forse la terza, ma per renderla possibile il processo si avvia
oggi, con gli “immigrati”.
Un approccio circolare
L’integrazione è un processo interattivo di cambiamento che
intreccia vecchi e nuovi valori, regole, norme, abitudini
e linguaggi. Ne emerge qualcosa di inedito che non appartiene
né alla cultura d’origine, né alla cultura di accoglienza:
si origina un misto nuovo e unico (Edelstein, 2004). In un
vero e proprio fenomeno di integrazione, avviene - lento e
discontinuo - un profondo mutamento sociale che coinvolge
anche la società di accoglienza. Non cambia soltanto la popolazione
immigrata, ma anche quella dominante, che nel contatto con
l’altro è disposta a rinunciare alla sua principale caratteristica:
l’essere dominante. Il processo è interattivo e reciproco,
si crea e coevolve nell’incontro fra nativo e migrante. A
volte mi piace chiamare l’integrazione semplicemente interazione.
Il processo è però più complesso ed è anche ecologico: coinvolge
l’intero ambiente, guarda verso il futuro, consapevole di
far parte di un ecosistema; è anche circolare perché nell’osservare
l’interazione non si riesce a determinare chi vada verso chi,
né chi abbia avviato i processi di incontro.
Una società che ha saputo e potuto integrarsi non è più la
stessa: la società di accoglienza è irreversibilmente e consapevolmente
cambiata. I suoi membri hanno tratti misti co-creati nel tempo,
un linguaggio in comune, abitudini e riti che emergono dall’intreccio
fra etnie, hanno creato qualcosa di unico e nuovo che non
solo è legato al paese di origine, ma è condiviso (e per paese
di origine in questo caso mi riferisco anche a quello che
inizialmente era d’accoglienza). Emergono aspetti comuni,
si crea un “noi”. Al contempo, i suoi membri hanno coscienza
di appartenere ad un gruppo etnico, sono legati alle proprie
radici e mantengono un’identità che riguarda le origini. I
diversi gruppi etnici, compreso quello nativo, mantengono
tratti distintivi che riguardano aspetti culturali, riti,
costumi, abitudini, anche altre lingue. Non tutto è amalgamato.
Il profondo mutamento macrosociale che avviene in un processo
di integrazione necessita di opportune scelte politiche, ma
si sviluppa soprattutto attraverso l’incontro, lo scambio,
l’ascolto e la conoscenza reciproca dei singoli. Il cambiamento
avviene dal basso, attraverso dei micromovimenti: il contatto
deve essere personale.
Già Socrate ci insegnava che non esiste “la cattiveria” nell’uomo;
colui che agisce nel male è perché non sa: il male coincide
dunque con l’ignoranza, il bene con la conoscenza. La storia
ci insegna che senza la conoscenza si creano paure, diffidenze,
distanze, pregiudizi, giudizi, conflitti, categorie rigide.
Davanti alla diversità, la conoscenza personale può creare
vicinanza. E’ fondamentale però il ruolo delle azioni ad un
microlivello perché il contatto non avviene in modo spontaneo:
lo sconosciuto allontana, impaurisce e non crea automaticamente
vicinanza, né genera conoscenza. Le opportunità di incontro
nelle città non si creano da sole. Anche quando per vie informali
i diversi si incontrano e si avvicinano (e questo può capitare
fra vicini di casa, fra mamme a scuola), non basta per creare
incontri al plurale, conoscenza e una politica sociale; anzi,
è un modo per lasciare spazio a malintesi, a poche storie
felici. Come operatori sociosanitari possiamo invece influire
su questi processi e anche favorirne l’avvio attraverso l’organizzazione
di incontri.
Implicazioni pratiche
Il centro Shinui è stato uno dei catalizzatori della costituzione
di una rete di preesistenti associazioni, cooperative ed enti
locali che lavorano con e per gli immigrati [3].
Autonominatasi “Verso una Bergamo multietnica?”, la rete ha
per obiettivo:
1. avviare e promuovere, nella città di Bergamo, processi
di integrazione fra nativi e migranti, basati sulle premesse
sopra riportate;
2. svolgere una ricerca-azione sul tema dell’integrazione
e sulle differenze di gender; la ricerca-azione (o ricerca-intervento)
comprende, in parte, l’applicazione dell’approccio narrativo;
3. elaborare un modello che, a partire da una cornice teorica
e un’esperienza pratica, possa essere riproposto in altre
realtà.
La rete e il territorio
Il territorio è un sistema e un ambito in cui avvengono interazioni
fra persone, lo spazio in cui le reti agiscono. Il territorio
è l’ambiente in cui una rete complessa si sviluppa e coevolve
in adattamento reciproco attraverso feedback continui. Le
reti sono una caratteristica esistente da sempre nella specie
umana. Una rete è la struttura delle relazioni fra le parti
di un sistema. Le linee non sono tutte uguali, ma sono legate
tra di loro e danno vita ad una struttura non omogenea. Come
appartenenti a gruppi sociali, facciamo tutti parte di reti:
nasciamo, viviamo e moriamo nelle reti. Queste ultime si distinguono
fra formali e informali (o sociali). La rete formale è un
insieme di interazioni fra soggetti che riconoscono in questo
insieme una forma più o meno strutturata per modalità ed intenti,
di cui sono consapevoli e di cui usufruiscono.
Una caratteristica delle reti è che quando raggiungono il
massimo grado di connettività non possiedono né un centro
né dei confini esterni ben definiti. In una rete ogni cosa
è potenzialmente equidistante da qualsiasi altra. Se ogni
punto è collegato in maniera uniforme con un qualunque capo
della rete, la rete è omogenea. In una rete, la massima connettività
non è auspicabile perché per essere fluida e adattabile al
cambiamento deve contenere variazioni di potenziale nella
densità di relazioni. Quando tutti i punti della rete sono
collegati contemporaneamente nello stesso modo, la rete non
è più vitale. Per essere fluida e potersi adattare al cambiamento,
deve contenere variazioni e diversità [4].
Non basta dunque che un insieme di associazioni si raggruppi
per essere una rete. Penso che “Verso una Bergamo multietnica?”
in buona misura risponda alle caratteristiche sopra delineate:
in modo consapevole, con premesse condivise e obiettivi comuni
e dichiarati, la rete si incontra con una cadenza mensile
circa per lavorare, e, fra una riunione e l’altra, si tiene
aggiornata per posta elettronica. I partecipanti hanno punti
di vista e ruoli diversi: c’è chi è migrante, c’è chi si occupa
di formazione ed è sensibile al tema dell’intercultura, c’è
chi promuove iniziative culturali, c’è chi fa ricerca, ecc.
Qualcuno incrocia varie possibilità, qualcuno anche coordina.
Al di fuori dell’attività legata alla rete, alcune associazioni
mantengono fra loro legami diversi rispetto a quelli che hanno
con altre.
Ma perché creare una rete?
• E’ necessario coinvolgere quante più persone per arrivare
a quante più persone.
• E’ un modo per diffondere le iniziative anche all’infuori
della cerchia degli addetti ai lavori.
• Se le connessioni sono strutturalmente diverse, la rete
promuove perturbazioni, movimenti, tutti necessari per introdurre
novità in un territorio e avviare processi di cambiamento.
• Una rete si collega, a sua volta, con altre reti sempre
più complesse. Perché la rete è anche un insieme di relazioni
che connettono più nodi in cui l’aumentare della complessità
comporta nodi sempre più piccoli e relazioni sempre più numerose.
Il modello di lavoro di gruppo
La rete promuove incontri aperti al pubblico, ispirandosi
al modello di lavoro di gruppo con donne immigrate e fra nativi
e migranti, sviluppato nel decennio 1995/2005 (Edelstein,
2000b, Edelstein et al., 2003). Intorno ad una tematica specifica
proposta di volta in volta, le persone si raccontano e si
ascoltano in piccoli gruppi (chiamati anche laboratori), preferibilmente
di non più di quindici partecipanti.
I gruppi sono omogenei per genere (donne e uomini separati)
ed eterogenei per etnia (nativi e migranti insieme). La scelta
di distinzione di genere è stata fatta con due obiettivi principali:
1. agevolare la partecipazione di donne che in piccoli gruppi
con uomini non potrebbero raccontarsi per questioni religiose
e culturali;
2. continuare le ricerche precedenti che osservavano le differenze
di gender sia sugli aspetti psicologici dei processi migratori
(Edelstein 2003), sia sul modello di lavoro di gruppo (Edelstein
et al 2003).
I temi trattati sono personali: qual è la percezione reciproca
dei nativi e dei migranti? Quali emozioni viviamo nell’incontro
con il diverso? Altre tematiche emergono negli stessi incontri
e vengono riproposte come approfondimento: la paura, emersa
in tutti i gruppi sulla percezione reciproca, è stata, ad
esempio, il tema trattato nel secondo incontro; oppure, il
lavorare, un aspetto importante della nostra vita, è stato
proposto nel terzo incontro. Il lavorare, dunque, come attività
centrale della quotidianità, lanciando domande quali: come
lo viviamo? Quali significati ha per noi? Quale spazio ha
nella nostra vita? Quali aspettative, desideri, progetti?
Lavoro redditizio, lavoro non remunerato… Infine, tematiche
come i legami, le relazioni, la socialità: quali legami costruiamo?
Come viviamo le relazioni quotidiane? Che cosa facilita, ostacola
la nostra socialità? Le tematiche vengono sviluppate a livello
individuale, i racconti sono personali e vengono messi a confronto:
lo scambio fra persone e fra culture sono tematiche trasversali
che emergono nell’incontro.
Ogni gruppo viene condotto da un professionista e accompagnato
da un co-conduttore. Il conduttore lavora intorno ai contenuti:
lancia la tematica, gestisce la conversazione, facilita i
racconti, ridefinisce se necessario (spesso in positivo),
agisce delle mediazioni quando i dialoghi rischiano di portare
verso conflitti, reincanala quando il gruppo intraprende un
dibattito impersonale su tematiche di tipo sociopolitico,
restituisce delle sintesi, riformula. Il co-conduttore, invece,
si concentra sui processi e sulle dinamiche e trascrive i
contenuti; può aggiungere delle osservazioni, essere di supporto
al conduttore e dà una restituzione al gruppo alla fine dell’incontro.
Dopo il momento gruppale viene svolta una chiusura in sessione
plenaria, che di volta in volta, finora, è stata proposta
in modo diverso: ciascun gruppo ha fatto una sintesi dello
svolgimento dell’incontro oppure ha restituito in plenaria
le parole chiave emerse nel gruppo; o, ancora, si avvia una
riflessione su come procedere con l’idea di coinvolgere i
partecipanti e renderli protagonisti.
L’approccio narrativo
Non dedico spazio alla descrizione teorica di questo approccio,
ampiamente illustrato in diverse occasioni, anche nel precedente
numero di questa stessa rivista. Mi piace solo ricordare che
viviamo e amiamo nel linguaggio (Anderson e Goolishian, 1982),
che pensiamo per storie (Bruner, 1992), che le narrazioni
permettono di riformulare idee, di cambiare il significato
degli eventi (Boscolo, in stampa; Hoffman, 2001) e di creare
nuove emozioni. I conduttori non rimangono necessariamente
in posizione di ascolto, ma possono raccontarsi suscitando
altre narrazioni.
Le narrazioni costruite in gruppo entrano in dialogo, nelle
conversazioni creano scambi che generano nuove storie, nuove
idee:
Giulia: “E’ da una vita che abito in Via Moroni. Da quando
sono lì la strada si è trasformata. Oggi la maggioranza dei
residenti sono immigrati. Devo dire che tornando a casa, la
sera tardi, sento paura.”
Fatima: “Anch’io, pur essendo immigrata, la notte di ritorno
a casa ho paura. Non sono gli immigrati che mi fanno paura,
ma camminare da sola in certe zone della città. A volte qualche
uomo mi segue, è certamente italiano…”
Marianna:”Forse è questo un aspetto universale; come donne,
ovunque, viviamo queste paure.”
Flora: “A me piace che la città sia diventata movimentata,
più viva; anni fa, la sera, era una città morta, nessuno girava
per le strade.”
Giulia: “Effettivamente è l’altra faccia della moneta: certo
che il mio quartiere è diventato più vivace, e questo lo devo
ai nuovi residenti, agli immigrati!”
La conoscenza aiuta a mettere i pregiudizi a confronto, vengono
confermati, messi in discussione, smentiti:
Veronica, dal Kenia, racconta che è venuta in Italia per andare
all’Università.
Maria commenta: “Per me l’immigrazione è legata al lavoro.
Sono stupita che tu sia qui per andare all’Università e non
per lavorare.”
Veronica: “Tante persone mi chiedono: “sei venuta qui perché
non c’è lavoro nel tuo paese?”. Avevo appena finito la scuola
professionale quando sono venuta in Italia. Qui ho fatto dei
piccoli lavori, come collaboratrice domestica o baby sitter.
La gente pensa che non sei istruita. Dicono “In Africa non
ci sono le scuole?”. Ho lavorato per 10 anni e alla fine sono
riuscita. Oggi sono iscritta al secondo anno di Scienze dell’Educazione”
Sonia: “Ma queste domande ti offendono?”
Veronica: “All’inizio mi facevano male; oggi mi sono abituata
e mi piace raccontare come è nel mio Paese.”
Maria: “Va bene, in Africa si studia, ma che tu sia venuta
per studi è un’eccezione; la maggior parte degli immigrati
vengono per lavoro.”
Veronica: “Invece conosco tanti immigrati che sono qui per
studiare. Certo, per riuscire a farlo bisogna lavorare!”
Più tardi Maria racconterà che i suoi genitori erano emigrati
in Svizzera per lavoro.. L’emigrazione bergamasca nel Paese
Elvetico avveniva puramente per lavoro; è da lì che nasceva
il pregiudizio di Maria per cui gli immigrati arrivano solo
per lavorare; Veronica glielo smentiva.
La ricerca azione
Ho scelto la ricerca-azione per i valori intrinseci (Mazzara,
2002):
• è affine ai processi umani;
• valorizza le persone con cui lavora, mettendo in secondo
piano il fine dichiarato da un progetto iniziale, spesso da
una terza persona;
• dà più peso alla relazione che all’obiettivo e, semmai,
sacrifica quest’ultimo;
• privilegia l’idea della contrattazione e della cooperazione
oltre alla collaborazione.
La ricerca-azione è particolarmente stimolante perché ci fa
fare un viaggio alla scoperta, senza sapere dove stiamo andando.
In contrapposizione all’idea di raggiungere un obiettivo predefinito
o di dover mantenere fede e debito eccessivi al progetto iniziale,
la ricerca-azione è disposta a mettere in discussione ogni
passo. Nella nostra ricerca, ogni singola azione e ogni tappa
viene rivista, studiata, messa in discussione, le conclusioni
incidono sul passo successivo. In questo modo si analizzano:
• gli aspetti organizzativi: la diffusione delle iniziative,
l’offerta o meno di uno spazio di animazione per i figli,
la scelta del giorno - infrasettimanale o di sabato - e dell’orario;
• gli aspetti metodologici: la costituzione dei gruppi, il
numero di partecipanti per ogni laboratorio, la funzione del
co-conduttore, la gestione della sessione plenaria;
• gli aspetti di contenuto: l’analisi delle conversazioni,
le storie, i vissuti, i processi, la pregnanza, l’attribuzione
di significato, ma anche i pregiudizi, le parole chiave, le
espressioni.
• Il gruppo di ricerca è un gruppo allargato, costituito da
tutta la rete; si avvale dei pareri dei partecipanti agli
incontri e li coinvolge attivamente, rendendo così co-ricercatori
persone che in altre occasioni sarebbero in posizione passiva
e farebbero parte del cosiddetto “campione”. Si crea un movimento
circolare e continuo. La ricerca-azione si deve però porre
dei limiti, altrimenti non ci sarebbe fine all’informazione
emersa, né possibilità di trarre conclusioni: in questa ricerca,
al termine dell’organizzazione di ogni quinto evento si farà
una meta analisi per definire aspetti rimasti volutamente
aperti.
Diffusione
All’inizio, pur traendone vantaggio e giovandosene, le persone
coinvolte erano, per quel che riguarda i nativi, nella maggior
parte addetti ai lavori o comunque particolarmente sensibili
al tema dell’integrazione (spesso per qualche ragione personale)
e, per quel che riguarda gli immigrati, rappresentavano un’immigrazione
“privilegiata” oppure facevano parte delle associazioni coinvolte
nel progetto. Oggi, dopo due anni di lavoro, pur avendo svolto
ancora pochi incontri, l’informazione su queste iniziative
si sta diffondendo attraverso un passaparola e arriva a sempre
più nativi che non mantengono contatti con gli immigrati e
a migranti che non avevano opportunità di incontrare i nativi,
di ascoltarli e di essere ascoltati. E’ sempre più la gente
che arriva e che si confronta con i propri pregiudizi (ad
oggi abbiamo coinvolto attivamente 140 persone). Finalmente
i migranti non devono solo, nel migliore dei casi, raccontarsi
ed essere ascoltati: in queste occasioni diventano anche ascoltatori.
Io credo che questa sia un’azione che avvia processi di integrazione.
NOTE
[1] Queste fasi sono state
brevemente illustrate anche in un articolo pubblicato da m
@ g m @ nel quale venivano evidenziate le differenze di gender
(Edelstein, 2003, vol. 1, n. 2).
[2] La Repubblica, “E adesso
da stranieri a cittadini”, di Renzo Guolo, 26/01/2006.
[3] La rete ha coinvolto,
durante il percorso: Agenzia per l’Integrazione, Associazione
Eritrei di Bergamo, Convenzione delle Donne (un gruppo di
donne, alcune delle quali rappresentanti di altre associazioni,
che costruisce percorsi di riflessione e confronto in ambito
culturale), Circolo interculturale Pegasos (associazione culturale
di migranti), DIB – Donne Internazionali di Bergamo (un’associazione
interetnica di donne che gestisce servizi per immigrate -
come un nido interculturale o percorsi di italiano per straniere
e uno spazio gioco aperto anche a bambini italiani), Enaip
Lombardia – Centro Servizi Formativi di Bergamo, Fondazione
Serughetti, Centro Studi e Documentazione La Porta, Interculturando
(cooperativa di formatrici e formatori inseriti in una rete
internazionale di formazione interculturale), Nord Sud Onlus,
Shinui – Centro di Consulenza sulla Relazione, nodo coordinatore
della rete.
[4] Questi spunti su reti
e territorio sono stati elaborati da Gabriela Gaspari in un
seminario svolto presso la Scuola di Counseling Sistemico
Pluralista di Bergamo e promosso dall’Associazione Shinui,
il 12 giugno 2004.
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