Comunità e relazioni sociali su internet
Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (a cura di)
M@gm@ vol.4 n.1 Gennaio-Marzo 2006
OPERA APERTA: WKIPEDIA E L’ORALITÀ SECONDARIA
Tommaso Venturini
tommaso.venturini@unimib.it
Università degli Studi di Milano.
Chi studia la
comunicazione è spesso preso tra due pericoli opposti: da
un lato, il rischio di sottovalutare l’influenza dei media,
riducendoli a condutture asettiche lungo le quali i messaggi
scorrono incontaminati; dall’altro lato, il rischio di sopravvalutare
il ruolo dei media, attribuendogli il potere di determinare
il corso della comunicazione e in ultima istanza dell’intera
società. Da un lato, il pericolo di disconoscere gli effetti
degli schermi mediatici; dall’altro, il pericolo di nascondere
la complessità dei fenomeni comunicativi sotto la coperta
dell’influenza mediale [1]. Chi studia la
comunicazione si trova nell’imbarazzo in cui dovette trovarsi
Bertoldo, protagonista di una celebre opera della tradizione
ciarlatanesca italiana. Ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo
(1606) di Giulio Cesare Croce, Re Alboino ordina a Bertoldo
di presentarsi l’indomani “né nudo né vestito”. Per obbedire
al comando, Bertoldo ritorna il giorno seguente “involto in
una rete da pescare". Vedendolo così abbigliato il Re lo incalza:
Re: Perché sei tu comparso così alla presenza mia?
Bertoldo: Non dicesti tu ch'io tornassi a te questa mane e
che io non fosse né nudo né vestito?
Re: Sì, dissi.
Bertoldo: Ed eccomi involto in questa rete, con la quale parte
copro delle membra, e parte restano scoperte.
Txell Miras, giovane stilista spagnola, ha trovato una soluzione
più elegante al paradosso di Re Alboino. Nell’edizione 2006
della Pasarela Gaudi di Barcellona, la Miras ha presentato
l’abito ritratto in figura 1. Con più efficacia di un trattato
di semiotica, questo vestito ci ricorda che la relazione tra
segno e referente non è una semplice relazione d’identità.
Per quanto si assomiglino, per quanto siano contigui, la fotografia
e il corpo della modella non sono la stessa cosa. Anzi, almeno
in questo caso, la funzione dell’immagine è esattamente quella
di sottrarre il referente all’osservazione diretta. Il segno
vela il suo riferimento proprio quando lo indica più chiaramente.
Coperte dal quadro della fotografia, le forme della modella
non sono immediatamente accessibili allo sguardo. Allo stesso
tempo, tuttavia, è evidente che l’abito non è ideato per nascondere
il fisico dell’indossatrice. Al contrario, la mise ha il compito
di incorniciare e mettere in risalto la bellezza della ragazza.
Come in ogni defilé, infatti, il vero oggetto dell’esposizione
non sono le indossatrici, ma gli abiti che indossano. Inscrivere
il corpo della modella nella materia del vestito è dunque
l’unico modo per trasformare quel corpo da semplice supporto
o manichino in oggetto dell’attenzione. Né il gioco di specchi
tra segno e referente finisce qui. Per noi (come per tutti
coloro che non erano presenti alla sfilata) è assolutamente
indifferente che l’immagine schermi il corpo della modella,
giacché, in ogni caso, vestito e indossatrice ci si presentano
attraverso la mediazione fotografica.
Fig. 1 – Abito di Txell Miras (fotografia di Kshoot per Vogue.es) |
Txell Miras non è ovviamente la
prima ad aver affrontato il paradosso dell’ostensione/occultamento
implicito nei processi semiotici. Il quadro di René Magritte
riportato in figura 2 è dedicato al medesimo tema. Les Deux
Mystères è l’ultima versione di una serie di opere in cui
il pittore belga riflette sul problema della relazione-distinzione
semiotica. L’accostamento dei due disegni di pipa e della
scritta “ceci n’est pas un pipe” produce l’effetto straniante
di separare l’immagine dall’oggetto che rappresenta. Esattamente
come l’abito della Miras, il dipinto di Magritte mette in
discussione la continuità tra segno e referente. Il senso
dell’operazione non è sfuggito a Michel Foucault che a questo
quadro ha dedicato un saggio molto brillante, di cui riportiamo
un estratto.
Tutto è solidamente ormeggiato all’interno di uno spazio scolastico:
una lavagna «mostra» un disegno che «mostra» la forma di una
pipa; e un testo scritto da un maestro zelante «mostra» che
si tratta davvero di una pipa. L’indice del maestro non si
vede, ma regna dovunque, come la sua voce, che sta articolando
molto chiaramente: «Questo è una pipa». Dalla lavagna all’immagine,
dall’immagine al testo, dal testo alla voce, una sorta di
dito indice generale è puntato, mostra, fissa, segnala, impone
un sistema di rimandi, tenta di stabilizzare uno spazio unico.
Ma perché ho introdotto anche la voce del maestro? Perché
non appena essa ha detto «Questo è una pipa», ha dovuto correggersi
e balbettare: «Questo non è una pipa, ma il disegno di una
pipa», «Questo non è una pipa, ma una frase che dice che è
una pipa», «La frase: “Questo non è una pipa” non è una pipa
»; «Nella frase: “Questo non è una pipa”, questo non è una
pipa: il quadro, la frase scritta, il disegno di una pipa,
tutto questo non è una pipa».
Le negazioni si moltiplicano, la voce si imbroglia e soffoca;
il maestro, confuso, abbassa l’indice teso, volta le spalle
alla lavagna, osserva gli alunni che si torcono dalle risate
e non si rende conto che essi ridono così forte perché sopra
la lavagna e sopra il maestro che farfuglia le sue smentite
si è appena alzato un vapore che ha preso forma a poco a poco,
e che ora disegna con molta precisione una pipa. « E una pipa,
è una pipa » gridano gli alunni battendo i piedi, mentre il
maestro, a voce sempre più bassa, ma sempre con la stessa
ostinazione, mormora senza che ormai nessuno lo ascolti: «Eppure
questo non è una pipa». Non ha torto: perché la pipa che fluttua
così visibilmente sopra la scena, al pari della cosa cui si
riferisce il disegno della lavagna, e in nome di cui il testo
può dire a ragione che il disegno non è veramente una pipa,
anche quella pipa non è che un disegno (Foucault,1973, pp.
38-40 trad. it.)
Fig. 2 – Les Deux Mystères (René Magritte, 1966) |
Il lettore ci scuserà se ci soffermiamo
un poco sulla distinzione-relazione semiotica. È necessario,
prima di affrontare la questione della mediazione comunicativa,
mettere in chiaro il paradosso per cui segno e referente non
sono la medesima cosa e, contemporaneamente, non sono cose
del tutto diverse. Per definizione, un segno è un qualcosa
che rimanda ad altro, un indice che punta verso un referente
[2]. Sciolto dal legame con il proprio referente,
un segno non è più tale. Eppure, come giustamente osserva
Umberto Eco (1984), la strada che va dal segno al referente
non passa mai per un rapporto d’identità, ma sempre per un
rapporto d’inferenza:
Si vede come fosse discutibile la condanna del segno impostata
sull’imputazione di uguaglianza, similitudine, riduzione delle
differenze. Questa condanna dipendeva dal ricatto del segno
linguistico ‘piatto’ inteso come correlazione fondato sulla
equivalenza senza sbocchi, sostituzione di identico a identico.
Invece il segno è sempre ciò che mi apre a qualcosa d’altro.
Non c’è interpretante che nell’adeguare il segno che interpreta,
non ne sposti sia pure di poco i confini (p. 52).
Un segno, dunque, non è mai la copia esatta del suo referente,
né è correlato ad esso tramite un legame naturale. La connessione
tra segno e referente è sempre il risultato di un’operazione
(distinzione-relazione) di interpretazione. Tale operazione
è appunto la comunicazione.
Il mezzo è il messaggio
Come ci accingiamo a mostrare, la definizione di comunicazione
che abbiamo suggerito ci mette al riparo dal primo dei pericoli
di cui abbiamo detto all’inizio. L’equivoco che riduce i media
a semplici dispositivi per il trasporto di messaggi indipendenti,
non è infatti compatibile con l’idea di comunicazione come
processo inferenziale che distingue e collega segni e referenti.
Tale equivoco deriva direttamente dalla tentazione di confondere
il problema della comunicazione, con la questione (assai più
lineare) del mero trasferimento di segnali.
Nella moderna riflessione sui media, tale tentazione ha trovato
la sua più influente manifestazione nell’infelice scelta di
Claude Shannon di titolare il suo più celebre articolo “A
Mathematical Theory of Communication” (1948). In effetti,
fin dalle prime righe dell’articolo, l’ingegnere americano
ammette - molto onestamente - che egli intende occuparsi esclusivamente
della dislocazione dei messaggi, non della loro interpretazione:
Il problema fondamentale della comunicazione è quello di riprodurre
in un punto, in modo esatto o quasi, un messaggio che è stato
selezionato in un altro punto. Spesso questi messaggi hanno
un significato, vale a dire che essi si riferiscono, o sono
correlati secondo un sistema, a certe entità fisiche o concettuali.
Questi aspetti semantici sono irrilevanti dal punto di vista
dell’ingegneria (p. 379, traduzione mia).
Fig. 3 – Struttura di un sistema di trasmissione di messaggi secondo Shannon (schema originale) |
Dopo questa doverosa premessa,
Shannon passa a schematizzare la struttura tipo della trasmissione
di segnali e osserva che essa è costituita molto semplicemente
da un emittente che invia un messaggio a un ricevente attraverso
un canale. Talora, può accadere che il messaggio non giunga
invariato al ricevente. Lungo il canale, infatti, possono
verificarsi delle alterazioni dovute alla presenza di rumore.
Il problema dell’ingegneria della comunicazione diviene allora
quello di codificare i messaggi in modo da trasformarli in
segnali che possano essere trasferiti con la minor corruzione
possibile.
Dal punto di vista tecnico, la semplificazione di Shannon
si è dimostrata straordinariamente fertile. Senza di essa
la rivoluzione digitale e telematica non sarebbe stata possibile
e oggi non saremmo qui a parlare di Wikipedia. Purtroppo però
la seducente linearità dello schema presentato in figura 3
ha convinto alcuni autori a ritenere che la teoria di Shannon
potesse essere usata per rappresentare l’intero processo della
comunicazione umana. Tale forzatura ha generato alcuni gravi
equivoci, tra cui l’idea che tutte le trasformazioni prodotte
sui messaggi nel corso della comunicazione possano essere
ridotte a mero rumore. Ecco, allora, che anche l’influenza
dei media può essere (ingiustamente, ma coerentemente) liquidata
come un’interferenza accidentale ed evitabile.
Se, invece, come abbiamo cercato di fare in questo articolo,
abbandoniamo la nozione di comunicazione come trasmissione,
a favore di una nozione più realistica di comunicazione come
interpretazione, allora ci si rivelerà chiaramente come l’alterazione
dei segni nel corso del processo di mediazione non sia una
fonte d’imprecisione, ma il processo stesso attraverso cui
si costituisce la relazione tra segno e referente. Ci avviciniamo
dunque al senso del celebre slogan di Marshall McLuhan “the
medium is the message”. Il mezzo è il messaggio, sostiene
lo studioso canadese, giacché la natura del mezzo influenza
l’interazione ancor più del suo stesso contenuto, come dimostra
l’osservazione che la comunicazione non è priva di senso nemmeno
quando è priva di contenuto.
La luce elettrica sfugge all’attenzione come mezzo di comunicazione
esattamente per il fatto di non avere “contenuto”. E ciò la
rende un esempio inestimabile di come le persone sbaglino
completamente nell’analisi dei media. Infatti, la luce elettrica
non viene notata come medium fino a quando non viene usata
per scrivere il nome di qualche marca. E anche allora non
è la luce, ma il “contenuto” a essere notato. Come il messaggio
dell’energia elettrica nell’industria, il messaggio della
luce elettrica è totalmente radicale, pervasivo e decentralizzato.
La luce e l’energia elettrica sono separati dai loro usi e
tuttavia eliminano lo spazio e il tempo nelle associazioni
umane creando un coinvolgimento profondo, esattamente come
la radio, il telegrafo, il telefono e la televisione (1964,
p. 9, traduzione mia).
L’osservazione di McLuhan è ripresa nell’installazione di
Bruce Nauman riportata in figura 4. “None Sing–Neon Sign”
riassume molto bene l’argomentazione che abbiamo sviluppato.
L’accostamento degli anagrammi è infatti inteso a rivelare
l’arbitrarietà del legame tra segno e referente, che, lungi
dall’essere naturale, si costituisce attraverso le convenzioni
linguistiche e il contesto dell’a interpretazione. Tale è
l’influenza dei linguaggi e dei canali che mediano i processi
comunicativi. Nell’installazione, questa influenza è rappresentata
dall’imporsi visivo dei tubi al neon. Così come nella riflessione
di McLuhan, il vero protagonista è qui il medium elettrico,
la luce che disegna nel buio le lettere degli anagrammi: il
mezzo è il messaggio.
Fig. 4 – Bruce Nauman, None Sing–Neon Sign |
Un’evoluzione verso
il passato
Per quanto brillante, l’intuizione di McLuhan contiene, nondimeno,
una tentazione dalla quale dovremo guardarci: il rischio di
sconfinare nella seconda semplificazione di cui abbiamo detto,
finendo per sopravvalutare l’influenza dei mezzi di comunicazione.
In particolare, occorre evitare di applicare alla comunicazione
la logica del determinismo tecnologico, vale a dire di quella
concezione che attribuisce alla tecnologia un ruolo dominante
ed esclusivo nel determinare i fenomeni sociali. Questo genere
di sopravvalutazione riguarda tutte le tecnologie[3]
e, tuttavia, risulta particolarmente accentuato nel caso delle
tecnologie mediatiche. Se è ingenuo credere che i mezzi di
comunicazione siano mediatori neutrali di messaggi autonomi,
è altrettanto ingenuo pensare che un’innovazione nel campo
dei media, per quanto rivoluzionaria, possa dare inizio a
una nuova era del vivere sociale. Eppure questo è esattamente
quello che, più o meno esplicitamente, sostengono molti studiosi
dei media.
Un esempio particolarmente radicale di questa tesi si può
far risalire allo stesso McLuhan e alla sua nozione di ‘“villaggio
globale’”. Secondo McLuhan, la diffusione dei media elettronici
ha innescato, nell’Ooccidente moderno, un irreversibile processo
di ‘“retribalizzazione’”. Tale processo consiste nel ritorno
a uno stile di vita e di pensiero, simile a quello delle comunità
tradizionali. Superando la frammentazione e la specializzazione
generate dalle tecnologie della scrittura e della stampa,
l’uomo moderno si ritrova immerso nel contesto immediato e
coinvolgente dei media elettronici: “as electrically contracted,
the globe is no more than a village” (una volta contratto
dall’elettricità il globo non è più che un villaggio). Non
si tratta soltanto dell’accorciamento delle distanze dovuto
alla velocità dei nuovi media[4], ma del
ritorno a forme di percezione e organizzazione olistiche e
tribali.
Una gerarchia feudale di tipo tradizionale collassa rapidamente
quando incontra un media caldo di tipo meccanico uniforme
e ripetitivo. Il mezzo del denaro, della ruota, della scrittura
ovvero di ogni altra forma specializzata nel velocizzare lo
scambio di informazioni servirà a frammentare una struttura
tribale. Analogamente, una velocità molto più elevata, come
quella che accompagna l’elettricità, può servire a restaurare
un tessuto tribale di inteso coinvolgimento. Così è successo
in Europa con l’introduzione della radio e così tende a succedere
ora in America come conseguenza della televisione. Le tecnologie
specialistiche detribalizzano. La tecnologia non-specialistica
dell’elettricità ritribalizza (McLuhan, 1964, p. 24, traduzione
mia).
La nozione di villaggio globale è interessante perché introduce
nella storia dei media una sorta di evoluzione verso il passato.
In implicita polemica con il mito occidentale di un progresso
tecnologico lineare e continuo[5], McLuhan
(1964) propone l’idea di un’evoluzione mediale fatta di rotture
ricorrenti e rovesciamenti radicali. Secondo il pensatore
canadese, il percorso della tecnologia è costellato da periodici
punti di svolta, soglie d’intensità oltre le quali lo sviluppo
di una tecnica si trasforma nel suo opposto.
Oggi con i microfilm e le micro-schede, per non menzionare
i dispositivi di memorizzazione elettronica, la parola stampata
assume di nuovo molto del carattere artigianale del manoscritto.
D’altra parte, la stampa a caratteri mobili è stata essa stessa
un fondamentale momento di rottura nella storia della scrittura
fonetica, esattamente come l’alfabeto fonetico era stato un
momento di rottura tra l’uomo tribale e quello individualistico
(p. 39, traduzione mia).
Come molta parte della riflessione di McLuhan, l’idea del
“reversal of the overheated medium” (rovesciamento dei media
surriscaldati) rimane una suggestione interessante, ma vagamente
definita. Forse proprio per questo, la tesi di un’evoluzione
verso il passato, della ricomparsa nella modernità di schemi
caratteristici delle comunità tradizionali, si è prestata
a essere ripresa e sviluppata da tanti studiosi successivi.
Tra le numerose teorie ispirate alla nozione di villaggio
globale, è particolarmente degna d’attenzione quella sviluppata
da Walter Ong. In “Orality and Literacy, the Technologizing
of the Word” (1982), Ong riprende esplicitamente la tesi di
McLuhan e afferma:
Con il telefono, la radio, la televisione e i vari tipi di
nastri da registrare, la tecnologia elettronica ci ha condotti
in un era di ‘oralità secondaria’. Questa nuova oralità ha
sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua
mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la
concentrazione sul momento presente e persino per la sua utilizzazione
delle formule… L’oralità secondaria è molto simile, ma anche
molto diversa da quella primaria. Come quest’ultima, anche
la prima ha generato un forte senso comunitario, perché chi
ascolta le parole parlate si sente un gruppo, un vero e proprio
pubblico di ascoltatori, mentre la lettura di un testo scritto
o stampato fa ripiegare gli individui su di sé. Ma l’oralità
secondaria genera il senso di appartenenza a gruppi incommensurabilmente
più ampi di quelli delle culture ad oralità primaria, genera
cioè il ‘«villaggio universale’» di McLuhan (p. 191, trad.
it.)
Va subito rilevato che, a differenza di McLuhan, Ong è interessato
solo tangenzialmente agli sviluppi moderni delle tecnologie
della comunicazione. L’opera del pensatore gesuita è dedicata
principalmente allo studio delle trasformazioni dovute alla
diffusione della scrittura e della stampa. Egli accenna infatti
solo di sfuggita alla possibilità di un ritorno a forme di
oralità secondaria, mentre analizza in dettaglio le innovazioni
tecnologiche che hanno portato al superamento dell’oralità
primaria. Proprio per questo, però, le tesi sviluppate in
“Oralità e scrittura” offrono un’esemplificazione più precisa
del determinismo tecnologico e mediale. Concentrandosi su
un problema più ristretto, Ong distingue con maggior chiarezza
le caratteristiche delle culture orali e di quelle chirografiche
ed è più netto nel ricondurle alla natura dei mezzi di comunicazione
disponibili. Rispetto alle suggestioni del villaggio globale,
dunque, l’ipotesi dell’oralità secondaria suggerisce uno schema
più definito per indagare i più recenti sviluppi della modernità
mediatica.
Tribù telematiche
Come abbiamo detto, Ong non ha mai davvero approfondito l’ipotesi
dell’oralità secondaria. Tuttavia non sono mancati gli autori
che, riprendendo tale ipotesi, hanno cercato di evidenziare
gli effetti retribalizzanti dei nuovi media. Curiosamente,
agli occhi dei successivi studiosi dei media, è parso che
fossero soprattutto le tecnologie telematiche a realizzare
le previsioni che Ong e McLuhan avevano sviluppato con riferimento
ai mezzi di ‘broadcasting’ (tipicamente la radio e la televisione).
Ciò è tanto più curioso nel caso dell’oralità secondaria,
giacché Ong stesso (1982) aveva esplicitamente sostenuto che
le tecnologie informatiche andassero piuttosto nella direzione
di rafforzare gli effetti dell’alfabetizzazione.
L’elaborazione e la spazializzazione sequenziali delle parole
infine, iniziate con la scrittura e intensificate dalla stampa,
hanno ricevuto infine ulteriore impulso dal computer, che
massimizza l’affidamento della parola allo spazio e al movimento
(elettronico) locale e ottimizza la sequenza analitica, rendendola
praticamente istantanea (p. 191 trad. it.).
Occorre però rilevare che Ong scriveva agli esordi della rivoluzione
informatica e di essa aveva potuto osservare soltanto l’impiego
nell’elaborazione dei dati. Sono, invece, le potenzialità
ipertestuali e connettive di Internet ad aver colpito gli
autori successivi[6].
Discuteremo ora le teorie di alcuni autori che hanno cercato
di applicare la nozione di oralità secondaria alla comunicazione
in Internet. Non potendo, in questo breve articolo, citare
tutti i contributi all’idea di ritribalizzazione telematica,
abbiamo deciso di limitarci a quelli che sono stati pubblicati
originariamente sulla Rete. Ciò non perché questi interventi
siano i migliori, ma perché riteniamo interessante mostrare
la riflessione che i gruppi telematici hanno sviluppato riflessivamente
circa le proprie modalità di comunicazione.
Uno dei primi utenti della Rete ad aver notato che la diffusione
della comunicazione mediata dal computer costituiva una sostanziale
rivoluzione nel panorama mediale è Steven Harnad (1991). Pur
senza riferirsi esplicitamente alla nozione di oralità secondaria,
Harnad rileva come l’accelerazione della mediazione telematica
sia destinata a condurre la società occidentale verso una
‘“galassia post-gutemberghiana’”, riportando lo scambio intellettuale
alla velocità tipica della discussione orale:
Mentre il linguaggio parlato si adatta facilmente alla capacità
d’emissione e ricezione del pensiero umano – e ciò forse per
riflesso del fatto di poter contare su un hardware neurologico
dedicato – la scrittura è in un certo senso fuori sincronia
con il pensiero. È lenta … Il fatto è che il medium della
scrittura è, senza rimedio, fuori sincronia con il meccanismo
del pensiero umano e con la velocità d’interazione che esso
avrebbe se solo ci fosse un medium che potesse supportare
il necessario feedback di ritorno, in tempo giusto![7]
Senza rimedio, fino all’avvento della quarta rivoluzione cognitiva
che ha reso possibile riportare la comunicazione accademica
ad un tempo molto più vicino al potenziale naturale del cervello
(traduzione mia).
Un paio d’anni dopo l’articolo di Harnad, nel 1993, Howard
Rheingold pubblica online e su carta un testo destinato a
influenzare enormemente la cultura della Rete. In “The Virtual
Community”, il giornalista americano racconta e analizza la
sua esperienza di comunicazione nella comunità del WELL (Whole
Earth 'Lectronic Link). La tesi avanzata da Rheingold, e in
seguito ripresa da moltissimi autori, è che le tecnologie
della comunicazione mediata dal computer (CMC) favoriscano
l’aggregazione e offrano la possibilità di un’esperienza di
socialità comunitaria sempre più rara nelle società contemporanee.
Ormai conosciamo qualcosa circa il modo in cui le precedenti
generazioni di tecnologie della comunicazione hanno cambiato
il modo di vivere delle persone. Dobbiamo capire come e perché
così tanti esperimenti sociali sono oggi in coevoluzione con
i prototipi delle più nuove tecnologie della comunicazione.
L’osservazione diretta, in tutto il mondo e per gli ultimi
dieci anni, dei comportamenti online mi ha condotto a concludere
che ogni volta che la tecnologia della CMC è messa a disposizione
delle persone, ovunque esse inevitabilmente finiscono per
costruire con esse comunità virtuali, esattamente come i microrganismi
inevitabilmente formano colonie (traduzione mia).
Pur enfatizzando il potenziale della Rete nel promuovere forme
d’interazione comunitaria, Rheingold non attribuisce esplicitamente
tale potenziale al carattere orale della comunicazione telematica.
Questo passaggio è invece compiuto da John December (1993),
un altro pensatore molto influente nei primi anni della diffusione
di Internet. Secondo December, la comunicazione telematica
può essere ricondotta alla nozione di oralità secondaria proprio
per la sua capacità di creare un ambiente comunicativo ‘caldo’,
aperto alla partecipazione e al coinvolgimento:
La CMC crea un mondo, basato sul testo, che manifesta caratteristiche
proprie delle culture a oralità primaria. La differenza tra
la CMC e la comunicazione basata su testi cartacei non è semplicemente
analoga alla differenza tra la comunicazione scritta e quella
parlata o alla differenza tra scrittura e oralità. Le tecnologie
della CMC trasformano il pensiero e la cultura favorendo la
creazione di comunità in cui i partecipanti, proprio come
i membri delle culture a oralità primaria, possono prendere
parte ad una comunicazione emozionale, espressiva e coinvolgente
(traduzione mia).
Si deve comunque a Robert Fowler (1994) il tentativo più approfondito
di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria alla comunicazione
in Rete. In un articolo intitolato alla ‘“secondary orality
of the electronic age’”, Fowler passa in rassegna tutte le
caratteristiche attribuite da Ong alle culture orali, cercando
di mostrare come esse siano comuni anche alle interazioni
telematiche. Secondo l’autore, esattamente come quella orale,
la comunicazione mediata dal computer tende a essere:
– evanescente piuttosto che permanente (per la possibilità
dei testi elettronici di essere e rimanere costantemente modificabili
e dislocabili);
– aggregativa piuttosto che analitica (per la tendenza dei
testi ipertestuali a strutturarsi secondo logiche associative,
non-lineari e non-gerarchiche);
– vicina alla vita umana (per l’inclinazione a generare interazioni
immediate e personali);
– agonistica (per la facilità con cui si manifestano fenomeni
di flaming);
– enfatica e partecipativa piuttosto che distanziata ed oggettiva
(per il modo in cui favorisce l’aggregarsi di comunità virtuali);
Fowler annuncia quindi con entusiasmo l’avvento dell’oralità
secondaria profetizzata da Ong.
Attraverso i nostri computer, telefoni, televisioni, videoregistratori,
lettori CD e registratori a nastro, gli ipertesti irrompono
nelle nostre accoglienti case, ci prendono per illa colletto
e ci tuffano nell’avventura dell’oralità secondaria. Sorprendentemente,
gli ipertesti incarnano e attuano molti aspetti lontani ed
esotici dell’oralità primaria, immergendoci profondamente
nel cyberspazio. L’oralità non è più un’area di studio bizzarra
e antiquaria – è una descrizione calzante della realtà nella
quale noi tutti stiamo precipitando ogni giorno sempre più
a fondo (traduzione mia).
I limiti del determinismo telematico
Per quanto suggestive ed in parte condivisibili, le teorie
che abbiamo discusso tendono a sconfinare nell’equivoco determinismo
tecnologico. Più in generale, tutte le concezioni secondo
cui i media telematici sono destinati a trasformare le società
occidentali in comunità di “cacciatori e raccoglitori cyber-tribali”
(Barlow, 1994) commettono almeno tre errori:
1) non considerano la natura composita e differenziata dei
media telematici;
2) sottovalutano la complessità del sistema mediale moderno;
3) sopravvalutano l’influenza dei media sulla vita sociale.
Occorre anzitutto notare che le possibilità mediatiche aperte
dalla telematica sono molto più ampie e variegate di quelle
generate da qualunque tecnologia precedente. Lungi dall’avere
una natura uniforme e indifferenziata, le tecnologie telematiche
si caratterizzano soprattutto per la multimedialità, vale
a dire per la capacità di supportare molti media diversi.
Sulla Rete circolano e-mail, ipertesti, newsgroup, newsletter,
mailing-list, basi di dati, instant message, chat, mud, scambi
peer-to-peer e molto altro ancora. Ognuna di queste forme
di comunicazione è dotata di caratteristiche ed effetti peculiari
che non è possibile ridurre ad un unico movimento verso l’oralità.
Se è vero che alcune di queste forme manifestano aspetti decisamente
orali (ad es. gli istant-message, i mud e i newsgroup), è
altrettanto vero che altre sembrano piuttosto orientate verso
una sorta di alfabetizzazione secondaria (ad es. le basi di
dati e le newsletter)[8].
In secondo luogo, credere che Internet trasporti l’intera
modernità occidentale verso una nuova era di oralità secondaria
vuol dire trascurare il fatto che la telematica non è né l’unica
né la principale tecnologia mediale a disposizione delle società
contemporanee. Se c’è una legge che la storia dei media non
ha mai falsificato è che i nuovi media non sostituiscono,
ma si affiancano ai vecchi: l’alfabetizzazione non ha cancellato
la parola parlata; la stampa non ha estinto la scrittura manuale;
la radio non ha eliminato la stampa e non è stata eliminata
dalla televisione. È dunque inverosimile che l’avvento dei
nuovi media telematici produca l’accantonamento dei vecchi.
Al contrario, per le risorse multimediali di cui abbiamo detto,
le tecnologie telematiche si prestano piuttosto a farsi veicolo
di forme comunicative originarie di altri canali come dimostrano
gli esperimenti di voice-over-ip, editoria elettronica e web-casting.
Infine anche ammettendo che Internet sia un mezzo prevalentemente
orale e che esso riesca a prendere il sopravvento su tutti
gli altri media, questo non vuole automaticamente dire che
le società moderne acquisiranno caratteristiche simili a quelle
delle comunità tradizionali. Il sistema dei media non è che
uno dei molti sotto-sistemi che compongono le nostre società.
Differenze economiche, politiche, giuridiche, artistiche e
religiose ci separano dalle comunità tradizionali e non è
ragionevole ritenere che tali differenze scompaiano semplicemente
perché si evidenziano alcune somiglianze nel campo dei media.
Si dovranno dunque guardare con sospetto tutte quelle concezioni
che, come la teoria del villaggio globale di McLuhan e l’ipotesi
dell’oralità secondaria di Ong, usano lo sviluppo dei media
per annunciare un generalizzato ritorno al passato. Sarà invece
più utile concentrarsi su una singola innovazione mediale
e analizzarne nel dettaglio le caratteristiche e le conseguenze
peculiari. Ciò è esattamente quello che ci accingiamo a fare
nell’ultima parte di questo articolo. Nelle prossime pagine
prenderemo in considerazione un modello comunicativo introdotto
recentemente nel panorama mediatico della Rete e detto ‘wiki’
o ‘ipertesto a scrittura collaborativa’. Analizzando tale
modello speriamo di mostrare non solo come la nozione di oralità
secondaria, ma la stessa distinzione oralità/scrittura sia
ormai da superare o, quantomeno, da ripensare radicalmente.
L’origine dei wiki
Il modello comunicativo ‘wiki’ nasce nel 1995 con l’implementazione,
ad opera di Ward Cunningham, di ‘WikiWikiWeb’. Inizialmente
destinato a servire da documentazione per il progetto Portland
Pattern Repository[9], WikiWikiWeb fu sviluppato
con l’obiettivo di facilitare lo scambio di idee tra i programmatori,
favorendo la collaborazione in linea. Da questa esigenza,
nacque l’idea di creare un ipertesto in cui gli utenti potessero
non solo aggiungere nuovi contenuti (come già avveniva nei
forum), ma anche modificare i contenuti esistenti. In sostanza,
si trattava di mettere in pratica l’idea di “intelligenza
collettiva” di Pierre Léevy (1994), costruendo una rete i
cui nodi e legami potessero essere modificati liberamente
da qualunque utente e per un qualunque numero di volte.
Quattro erano le caratteristiche di questo primo prototipo
che furono ereditate da tutti i successivi esperimenti di
wiki. Primo, le pagine che costituivano WikiWikiWeb potevano
essere editate molto rapidamente[10] e utilizzando
un semplice browser web, vale a dire lo stesso applicativo
utilizzato per leggerle. Secondo, le pagine potevano essere
collegate le une alle altre via hyperlink con la medesima
facilità. Terzo, non era presente alcuna moderazione ex-ante,
vale a dire che non era prevista alcuna revisione prima che
le modifiche alle pagine fossero pubblicate. Quarto, dal 1996
fu implementata la possibilità di cancellare rapidamente l’ultima
modifica operata su una pagina.
Fig. 5 – Il logo di Wikipedia |
Fu presto chiaro che l’idea di
Cunningham era straordinariamente brillante e destinata ad
applicazioni che andavano ben oltre il suo impiego originario.
Tuttavia, perché le potenzialità del concetto di wiki trovassero
piena espressione si dovette attendere il 15 gennaio 2001
quando Jimmy Wales and Larry Ranger lanciarono il progetto
‘Wikipedia’. Oltre ad alcuni perfezionamenti riguardanti l’aspetto
grafico, il motore di ricerca e la gestione dei contenuti
multimediali, il progetto Wikipedia ha introdotto nel modello
di wiki due innovazioni fondamentali. In primo luogo, il software
su cui si basa Wikipedia permette di conservare l’intera storia
della modifiche a una pagina (e in seguito mostreremo quanto
ciò sia fondamentale). In secondo luogo, a differenza di WikiWikiWeb,
Wikipedia non pone alcuna limitazione al tipo di contenuti
trattabili, orientandosi verso il modello dell’enciclopedia
generalista.
L’introduzione di queste due innovazioni apparentemente minori
ha segnato una svolta nella diffusione dell’idea di wiki.
Negli ultimi cinque anni, Wikipedia ha conosciuto un successo
inaspettato ed una crescita esponenziale. Oggi, Wikipedia
raccoglie oltre due milioni e mezzo di pagine e può contare
su 100.000 collaboratori regolari di cui 30.000 attivi nell’ultimo
mese. Da sola, l’edizione inglese [11] di
Wikipedia sfiora il milione di pagine (vedi figura 6) ed è
stata editata da oltre 50.000 collaboratori. Inoltre, in questi
cinque anni, Wikipedia ha ottenuto un ottimo posizionamento
online, comparendo fra i primi risultati di molti motori di
ricerca per un numero crescente di ricerche e posizionandosi
al trentesimo posto tra i siti più visitati della Rete (secondo
Alexa.com).
Fig. 6 – La crescita delle pagine dell’edizione inglese di Wikipedia |
Fino ad oggi il dibattito sul
successo di Wikipedia è stato monopolizzato dalla questione
dell’affidabilità delle sue voci. Interminabili discussioni
si sono consumate sulla possibilità che un’enciclopedia compilata
anonimamente e senza alcun processo di revisione possa produrre
articoli di qualità comparabile a quelli delle enciclopedie
tradizionali. Da un lato, molti autori hanno criticato il
progetto per la completa mancanza di filtri contro errori
e vandalismo; dall’altro lato, i sostenitori di Wikipedia
hanno replicato che la logica wiki è tende facilitare le correzioni
piuttosto che ad impedire gli errori. Si tratta, naturalmente,
di una controversia appassionante[12], ma
un eccesso d’interesse per questo tema rischia di celare la
vera innovazione comunicativa dei wiki. Come abbiamo detto
fin dall’inizio, i segni, per definizione, non coincidono
con i referenti. Di conseguenza, per lo studio della comunicazione,
il dibattito circa l’attendibilità delle definizioni è, tutto
sommato, secondario. Molto più interessante è invece la questione
del modello di comunicazione di Wikipedia: che tipo di media
sono i wiki? Sono assimilabili ai media orali o a quelli chirografici?
Wikipedia oltre la distinzione oralità/scrittura
La caratteristica comunicativamente più saliente di Wikipedia
(e, in generale, dei wiki), è il fatto di non poter essere
ricondotta semplicemente alla distinzione oralità/scrittura,
almeno non alla versione che di tale distinzione dà Ong (1982)[13].
Sebbene ad un primo sguardo Wikipedia possa apparire come
un media prevalentemente chirografico, ci sono buone ragioni
per sospendere tale giudizio. La superficiale somiglianza
con un’enciclopedia tradizionale non deve trarre in inganno.
Wikipedia differisce dalla scrittura e dalla stampa secondo
svariate dimensioni.
Innanzi tutto, i messaggi di Wikipedia, a differenza di quelli
inscritti in un qualsiasi medium chirografico, non esistono
in una forma definita. Poiché non vi sono ostacoli alla trasformazione
continua, le pagine sono costantemente aperte alla mutazione
e, conseguentemente, non esiste una versione stabile cui fare
riferimento. La logica di apertura del sistema impedisce,
inoltre, che qualcuno detenga il controllo definitivo dei
messaggi. In altre parole, per definizione, non esiste alcun
autore delle pagine di Wikipedia, nessuno può arrogarsene
la paternità e nessuno può ottenere di stabilizzare la propria
versione di una definizione. A ben vedere, non si possono
individuare nemmeno autori collettivi. Neppure l’insieme di
tutti coloro che hanno editato un articolo può essere chiamato
a ragione il suo autore, giacché esiste sempre la possibilità
che qualcun altro operi ulteriori modifiche. Ne consegue,
che a differenza dei messaggi inscritti su un supporto durevole
(la pietra, la pergamena, la carta), i messaggi dei wiki,
per conservarsi invariati, devono essere continuamente ripetuti,
esattamente nello stesso modo in cui miti e leggende sono
costantemente ripetuti nelle comunità orali. E come nelle
comunità orali, il risultato delle continue ripetizioni tende
ad essere orientato al consenso e perciò al conformismo. Poiché
le tesi controverse tendono a divenire rapidamente illeggibili,
esiste una precisa regola dell’etichetta di Wikipedia che
sconsiglia di riportare nelle definizioni ‘“ricerche originali’”,
vale a dire informazioni incerte o semplicemente innovative.
Infine, la comunicazione wiki è per sua natura orizzontale
e non lineare. I wiki sono orizzontali perché non esiste una
chiara gerarchia tra autori e lettori. Poiché lo strumento
utilizzato per leggere le pagine (il browser) è lo stesso
strumento impiegato per modificarle, non è possibile distinguere
nettamente emittenti e riceventi. Come nella comunicazione
faccia a faccia o in quella telefonica, tutti i partecipanti
sono allo stesso tempo oratori e ascoltatori. In ultimo, i
wiki non sono lineari perché hanno una struttura ipertestuale
e perché le modificazioni possono essere inserite in qualsiasi
punto degli articoli e in qualsiasi articolo, senza alcun
ordine predefinito.
Le caratteristiche di cui abbiamo parlato potrebbero portare
a ritenere che Wikipedia si configuri come la più prototipica
delle comunità virtuali e che essa veicoli una forma di comunicazione
di stampo decisamente orale. Non è così. Anzi, i wiki manifestano
proprietà che sono del tutto incompatibili con lo stile comunicativo
orale. Innanzi tutto, già a prima vista è evidente che Wikipedia
è costituita soprattutto di testo. Sebbene Wikimedia (il software
su cui si basa Wikipedia) consenta la gestione di contenuti
multimediali, i partecipanti tendono a sfruttare poco questa
potenzialità. Di conseguenza, le pagine di Wikipedia finiscono
per essere composte principalmente di testo e per essere formalizzate
in modo decisamente esplicito. Mentre le interazioni orali
tendono ad affidare a canali impliciti come la prossemica
ed il linguaggio non-verbale gran parte del loro significato,
Wikipedia, aspirando ad essere un’enciclopedia, è votata alla
più netta formalizzazione linguistica. Quasi tutte le pagine
di Wwikipedia cominciano come ‘stub’, vale a dire come bozze
di definizione, e quasi tutte procedono più o meno velocemente
verso una precisione sempre maggiore. D’altra parte, è evidente
che Wikipedia partecipa di quel processo di estroflessione
cognitiva che secondo Giuseppe Longo (2003) è la caratteristica
distintiva di tutti i media chirografici. Le definizioni di
Wikipedia non sono conservate nel sistema cognitivo (nella
memoria) dei partecipanti, ma sono inscritte nelle memorie
elettroniche degli elaboratori su cui i wiki si basano. Tale
proprietà fa sì che i messaggi dei wiki non siano dipendenti
dal contesto come quelli orali: la partecipazione a Wikipedia
non necessità la compresenza spazio-temporale. Chiunque può
leggere e scrivere quando vuole e dove vuole. Questo fa di
Wikipedia un mezzo di broadcasting (come la radio e la televisione)
e permette che il numero dei suoi partecipanti sia virtualmente
indefinito[14]. Inoltre, il fatto che i
messaggi di Wikipedia siano salvati su memorie espandibili,
fa sì che Wikipedia cresca (in termini di lunghezza e numero
delle definizioni) a differenza delle culture orali che, come
insegna Ong (1982), tendono ad essere omeostatiche. Infine,
sebbene sia orizzontale, la comunicazione di Wikipedia non
è dialogica. I partecipanti alla comunicazione di Wikipedia,
editano articoli in modo collaborativo ma non dialogano come
nei forum o nellea mailing list.
Ad un’osservazione attenta Wikipedia non sembra dunque lasciarsi
ridurre a nessuna delle due parti della distinzione oralità/scrittura.
Per comodità del lettore, sintetizziamo in un breve schema
le caratteristiche che differenziano Wikipedia dai media chirografici
e dai media orali.
Wikipedia non è un media chirografico:
non ci sono ostacoli alla trasformazione dei messaggi;
i messaggi non esistono in una forma definita;
nessuno ha il definitivo controllo dei messaggi;
i messaggi devono essere ripetuti per conservarsi;
la trasformazione dei messaggi è orientata al consenso;
la comunicazione è orizzontale e interattiva;
la comunicazione non è lineare.
Wikipedia non è un media orale:
i messaggio sono costituiti da testo (poca multimedialità);
i messaggi sono espliciti ed estroflessi;
la memoria non è l’unico supporto;
i messaggi sono indipendenti dal contesto;
il numero dei partecipanti è virtualmente indefinito;
Wikipedia cresce (non è omeostatica);
la comunicazione non è dialogica.
Media aperti e media chiusi
Altrove[15], abbiamo usato la distinzione
oralità/scrittura per giustificare le diverse forme di innovazione
culturale tipiche delle comunità tradizionali e dei network
moderni. In quella sede ci siamo serviti dell’opera di Jack
Goody e Ian Watt (1968) per ricondurre le differenze tra culture
orali e culture chirografiche alla distinzione tra media incorporati
e media inscritti. Per mezzi incorporati intendiamo quei media
che sono inscindibilmente legati all’interazione diretta (faccia
a faccia, corpo a corpo) dei partecipanti. Con l’invenzione
dell’inscrizione (e in seguito della scrittura alfabetica,
della stampa e dei mezzi di broadcasting) la comunicazione
si svincola dalla necessità della compresenza spazio-temporale:
inscritti su supporti durevoli e autonomi dal contesto dell’interazione,
i messaggi possono conservarsi nel tempo e viaggiare a grande
distanza. L’utilizzo di media inscritti comporta tuttavia
un costo: la necessità di convertire i discorsi aperti in
testi chiusi. Una volta inscritti su un supporti durevoli,
i messaggi perdono la fluidità e l’apertura caratteristiche
dei discorsi orali. L’inevitabile chiusura dei testi inscritti
produce conseguenze che si manifestano soprattutto nel diverso
stile d’innovazione caratteristico dei network chirografici
rispetto alle comunità orali.
Da un lato, le culture orali, custodite nella memoria individuale
e trasmesse attraverso l’interazione faccia a faccia, si caratterizzano
per l’apertura ad un processo continuo di trasformazione e
d’innovazione lineare.
Il linguaggio è sviluppato in intima associazione con l’esperienza
della comunità ed è appreso dagli individui attraverso il
contatto faccia a faccia con gli altri membri. Ciò che continua
a essere socialmente rilevante è immagazzinato nella memoria
mentre il resto è di solito dimenticato: ed il linguaggio
è il mezzo efficace di questo processo cruciale di digestione
ed eliminazione sociale analogo all’organizzazione omeostatica
del corpo umano (Goody e Watt, 1968, pp. 30, 31, traduzione
mia).
Dall’altro lato, le culture alfabetizzate, vincolate a documentazioni
più stabili, tendono ad irrigidirsi e a mutare in modo più
consapevole, discontinuo e radicale.
Invece del discreto adattamento delle tradizioni passate ai
bisogni attuali, molti individui trovano nei documenti scritti,
che danno forma permanente a larga parte del loro repertorio
culturale, così tante incoerenze nelle credenze e nelle categorie
del pensiero che hanno ereditateo che sono costretti a un
atteggiamento molto più consapevole, comparativo e critico
verso la visione collettiva del mondo (Goody e Watt, 1968,
p. 48, traduzione mia).
L’impiego di media inscritti impone di affrontare un problema
simile, ma opposto, a quello del Dorian Gray di Oscar Wilde
(1980). Inscrivendo la propria cultura su supporti indipendenti,
le società moderne rischiano di provare l’alienazione di colui
che, cercando di fissare la propria immagine all’esterno,
è continuamente costretto a confrontarsi con la mancanza di
corrispondenza tra essenza e immagine. Mentre le culture orali
sono, dunque, culture intrinsecamente aperte ad un cambiamento
lineare, le culture chirografiche sono invece destinate ad
evolvere attraverso il susseguirsi di stasi e rivoluzioni.
Nell’articolo citato, concludevamo, dunque quindi, ipotizzando
l’esistenza di un ‘“effetto di discontinuità’” proprio dei
media inscritti.
Ora, tuttavia, l’analisi di Wikipedia ci costringe a rimettere
in discussione la distinzione che avevamo proposto tra media
incorporati e media inscritti. È, infatti, evidente che i
wiki sono media inscritti, dal momento che i messaggi che
veicolano sono conservati su un supporto indipendente dal
contesto, dalla memoria individuale e dall’interazione diretta.
D’altra parte, è altrettanto evidente che i messaggi di Wikipedia
non sono chiusi nella maniera tipica dei messaggi inscritti,
giacché essi non esistono in una forma definitiva e sono invece
caratterizzati dall’evoluzione fluida caratteristica dei media
incorporati.
Cominciamo ad avvicinarci alla ragione dell’imbarazzo che
abbiamo incontrato nell’attribuire Wikipedia a uno dei lati
della distinzione oralità/scrittura. Tale imbarazzo deriva,
in gran parte, da un equivoco in cui è facile cadere considerando
le differenze tra oralità e cultura: quando parliamo di oralità,
tendiamo a guardare al processo della comunicazione, all’interazione
orale; quando ci riferiamo alla scrittura, siamo invece portati
a considerare il prodotto della comunicazione, cioè i testi
scritti. Per capire la natura dei wiki, dovremo invece sforzarci
di guardare contemporaneamente al processo e al prodotto.
Ci accorgeremo, allora, che i media incorporati generano un
prodotto più aperto (perché più flessibile) attraverso un
processo più chiuso (perché limitato dal contesto spazio-temporale);
mentre i media inscritti generano un prodotto più chiuso (perché
cristallizzato in una forma definita), attraverso un processo
più aperto (perché svincolato dalla compresenza dei partecipanti).
Per quanto riguarda i wiki, infine, essi sono caratterizzati
da una significativa apertura sia per quanto riguarda il processo,
sia che per quanto riguarda il prodotto.
Questa è la vera innovazione mediatica di Wikipedia:, il superamento
della distinzione tra testo e discorso a favore di una forma
di comunicazione che, pur essendo autonoma dal contesto spazio-temporale,
non richiede la cristallizzazione dei messaggi. Non si tratta
di un’innovazione limitata ai wiki. Prima dei wiki, la medesima
logica aveva assicurato la diffusione e il successo del movimento
del software open-source. Con Wikipedia, però, l’apertura
radicale dei nuovi media compie un significativo balzo in
avanti, perché esce dalla cerchia relativamente ristretta
dei programmatori per offrirsi come mezzo di comunicazione
tutto sommato generalista.
Wikipedia porta alle estreme conseguenze la nozione di ‘opera
aperta’ (cfr. Eco, 1962). Anticipata dalla critica letteraria
post-moderna e parzialmente realizzata dalla diffusione degli
ipertesti, la nozione di ‘opera aperta’ si riferisce alla
capacità dei testi di offrirsi ad interpretazioni multiple
da parte del lettore. Con i wiki la medesima logica di apertura
si estende dal piano dall’interpretazione al segno stesso.
La comunicazione è ormai irrimediabilmente aperta, in ogni
sua componente, dal processo al prodotto, dal significante
al significato.
Resta, in conclusione, da chiedersi cosa consenta a Wikipedia
di mantenere un’apertura così radicale pur senza trasformarsi
in un caleidoscopio caotico di discorsi sconclusionati. Per
rispondere a questa domanda, occorre richiamare l’attenzione
del lettore su una caratteristica apparentemente minore di
Wikipedia. Abbiamo rilevato, di sfuggita, che una delle innovazioni
apportate dal progetto Wikipedia al concetto e alla pratica
della scrittura collaborativa è la possibilità di richiamare
l’intera storia delle modifiche subite da un articolo. Non
solo, ma il software su cui si basa Wikipedia è anche in grado
di evidenziare automaticamente le differenze tra due o più
versioni del medesimo articolo. Lungi dall’essere una proprietà
secondaria, la conservazione della storia della comunicazione
è esattamente ciò che permette alle pagine di Wikipedia di
mantenere unità e senso. Senza la possibilità di consultare
in modo rapido e preciso la storia di ogni messaggio, di confrontare
versione versioni diverse e di ritornare indietro ove opportuno,
il destino della comunicazione wiki sarebbe inevitabilmente
il disordine, il rumore ed infine il silenzio. Ed è questo
che fa di Wikipedia un mezzo autenticamente post-moderno.
Come scrive Umberto Eco nelle “Postille al Nome della Rosa”
(1983):
La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere
che il passato, visto che non può essere distrutto, perché
la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato:
con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento
post-moderno come a quello di chi ami una donna molto colta,
e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché
lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi
le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà
dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo
punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente
che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà
però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma
che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta
al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente.
Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi
avranno accettato la sfida del passato, del già detto che
non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente
e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti
ancora una volta a parlare d’amore.
NOTE
1] La difficoltà di destreggiarsi
tra questi opposti errori ha generato, nel campo della ricerca
mediatica, un’interminabile disputa tra sostenitori del determinismo
sociologico e sostenitori del determinismo tecnologico. Di
questa disputa Peppino Ortoleva (1995) osserva giustamente
che “nonostante l’alternarsi, in diverse epoche, di concezioni
dominanti differenti, una caratteristica di questa discussione
che non può sorprendere chi la studi da vicino è la sua inconcludenza…
[i sostenitori delle due tesi] si affrontano, da decenni,
sempre con gli stessi argomenti, e sembrano ricominciare ogni
volta a discuter daccapo, a testimonianza del fatto che non
di un vero dibattito si tratta, ma di una lacerazione tra
due opposte «evidenze» (p. 173).
2] Si noterà che, in questo
articolo, abbiamo preferito impiegare la coppia segno-referente,
piuttosto di quella significante-significato. Per non scendere
in disquisizioni semiotiche, diremo soltanto che tale preferenza
è dovuta al desiderio di evitare la connotazione, spesso implicita
nella coppia significante-significato, per cui la relazione-distinzione
semiotica sarebbe composta da una parte relativamente più
concreta (il significante) ed una relativamente più astratta
(il significato).
3] Sul determinismo tecnologico
si veda, tra gli altri, Wiebe Bijker e John Law (1992).
4] Cfr. Joshua Meyrowitz
(1985).
5] Sul mito occidentale del
progresso tecnologico si veda Serge Latouche (1994), soprattutto
alle pp. 137-181.
6] È comunque interessante
notare che l’idea di applicare l’ipotesi dell’oralità secondaria
ai media informatici si è sviluppata relativamente presto
nella storia della telematica. Gli autori che citeremo non
fanno riferimento alle applicazioni più avanzate di multimedialità,
grafica 3D, realtà virtuale. Al contrario, paradossalmente,
quasi tutti i sostenitori dell’oralità del computer si riferiscono
ad applicazioni sostanzialmente testuali della galassia Internet.
7] In Italiano nel testo.
8] Cfr. Stuart Moulthrop
(1991) per una delle prime riflessioni su come alcune forme
di comunicazione telematica possano essere concettualizzate
in termini di alfabetizzazione secondaria.
9] L’obiettivo dei fondatori
del Portland Pattern Repository era quello di costituire un
luogo di raccolta e scambio di pattern di programmazione.
Nel lessico informatico un pattern è un blocco di codice che
offre una soluzione riutilizzabile ad un problema ricorrente
di programmazione.
10] Il termine ‘wiki’ deriva
da una parola hawaiana che significa, appunto, ‘veloce’.
11] Wikipedia è oggi disponibile
in 211 lingue. Ciascuna edizione è largamente indipendente,
anche se alcuni articoli possono essere parzialmente o interamente
tradotti da un’edizione all’altra.
12] Per chi fosse comunque
interessato ad approfondire questo argomento, segnaliamo un’inchiesta
curata da Jim Jiles (2005) per Nature. In essa i revisori
della prestigiosa rivista scientifica hanno esaminato 42 articoli
estratti da Wikipedia e dall’Enciclopedia Britannica. Inaspettatamente
per gli stessi autori, i risultati della inchiesta hanno suggerito
che non esistono sostanziali differenze di attendibilità tra
le due enciclopedie.
13] La distinzione oralità/scrittura
come distinzione tra mezzi di comunicazione incorporati nell’interazione
faccia a faccia tra i partecipanti e mezzi di comunicazione
inscritti in supporti durevoli e mobili, si inserisce in un
filone di storia dei media cui appartengono, oltre ad Ong,
anche altri importanti studiosi quali Jack Goody e Ian Watt
(1968) ed Elisabeth Eisenstein (1983).
14] Dico virtualmente perché,
evidentemente, ci sono limiti informatici (soprattutto di
banda) al numero di persone che possono essere connesse contemporaneamente
ai database di Wikipedia. La crescita esponenziale degli utenti
negli ultimi anni ha infatti messo a dura prova l’hardware
di Wikipedia che necessità di un costante aggiornamento ed
ampliamento.
15] Nell’articolo “Verba
Volant, Scripta Manent: The Discontinuity Effect of Explicit
Media” in corso di revisione presso la rivista American Behavioral
Scientist.
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