Comunità e relazioni sociali su internet
Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (a cura di)
M@gm@ vol.4 n.1 Gennaio-Marzo 2006
IL SETTARISMO NELLA SOCIETÀ DELL'INFORMAZIONE
Oscar Ricci
or298@nyu.edu
Dottorato di ricerca Qua_si,
Università di Milano Bicocca.
I.
Comunità e società
In un mondo che si vuole sempre più globalmente interconnesso,
sorgono da più parti istanze che rivendicano una legittimazione
a separarsi dal resto del pianeta. Questo è ciò che Paper
intende indagare: la genesi teorica e pratica dello stare
assieme settario, distinguendolo da quello comunitario e da
quello societario.
Il dibattito su Comunità e Società prende obbligatoriamente
le mosse dall’opera classica di Ferdinand Tönnies. Per Tönnies
(1963) la Comunità si distingue dalla Società per una forma
di socialità prevalentemente affettiva, basata su relazioni
di tipo parentale e prossemico, alle quali si contrappongono
le relazioni contrattualiste e razionalizzate tipiche della
società. Con il concetto di razionalizzazione Max Weber ha
introdotto nelle scienze sociali l’idea che lo stare assieme
contemporaneo sia sempre più assimilabile ad un modo societario
piuttosto che comunitario; burocratizzazione e spersonalizzazione
dei rapporti sarebbero la norma nella “gabbia d’acciaio della
modernità”. A questa visione si contrappone chi vede nella
diffusione dei mass media elettronici una fonte di retribalizzazione
del moderno, un ritorno ad uno stare assieme comunitario.
Sono soprattutto i lavori di Marshall McLuhan ad aprire questo
filone di studi. Per lo studioso canadese, infatti, l’introduzione
dei media elettronici chiude definitivamente l’era dell’uomo
tipografico, nata con l’invenzione della stampa a caratteri
mobili:
“L’uomo è trasformato in tribù dai media elettrici (...) L’uso
dei media elettronici costituisce un punto di rottura tra
l’uomo Gutenberg frammentato e l’uomo integrale, proprio come
l’alfabetismo fonetico fu un punto di rottura tra l’uomo orale-tribale
e l’uomo visuale. Infatti, oggi possiamo voltar lo sguardo
indietro a 3000 anni di visualizzazione, atomizzazione e meccanizzazione,
riconoscendo alla fine l’età meccanica come un interludio
tra le due grandi ere organiche della cultura” (McLuhan, 1998,
pp. 92 e 98).
Lo studioso contemporaneo che più ha indagato la rinascita
di un sentire comunitario è sicuramente Michele Maffesoli,
nella cui opera il tema della retribalizzazione costituisce
un leitmotiv costante. Lo studioso francese, però, non si
concentra esclusivamente sui media, ma delinea lo sviluppo
di una società sempre più immaginale - e immaginale è anche
lo stile dell’autore - dove i media sono una delle componenti
che aiutano a comporre le reti tribali in cui le persone costruirebbero
la loro identità:
“Si potrebbe parlare della rinascita di un Homo religiosus,
che non sarebbe se non una variante dell’Homo aesthetichus,
vale a dire di un individuo sociale e di una società che non
poggiano più su una distinzione dall’altro, e neppure su un
contratto razionale che mi lega all’altro, ma su un’empatia
che mi rende con l’altro parte benificiaria di un insieme
più vasto, contaminato da cima a fondo da idee collettive,
emozioni comuni e immagini di ogni genere. È anche questo
che io propongo di chiamare mondo “immaginale” (Maffesoli,
1996, p.92).
Il forte accento sulla componente “immaginale”, se da un lato
può essere una delle caratteristiche più apprezzate delle
opere di Maffesoli, dall’altra tende ad infastidire non poco
studiosi abituati ad avere a che fare con lavori che, epistemologicamente
e metodologicamente, hanno, rispettivamente, maggiore tendenza
al “reale” e al “dato”.
Ad ogni modo, anche la presunta rinascita del sentimento comunitario
viene guardata con più di un sospetto da autori che vedono
in esso non tanto un ritorno al vivere assieme empatico ed
emozionale, quanto una chiusura difensiva verso l’esterno
da parte di gruppi di persone che vengono spaventate dalla
produzione incontrollata di flussi economici e di informazioni
tipici della società globalizzata. Chistopher Lash, ad esempio,
pensa che la società contemporanea sia contraddistinta da
un crescente narcisismo, causato anche dalle nuove tecnologie
informatiche. Egli mette in evidenza come:
“Un esagerato rispetto per la tecnologia possa coesistere
con il revival di superstizioni antiche, credenze nella reincarnazione,
crescente attenzione per l’occulto e le bizzarre forme di
spiritualità che sono comunemente legate al movimento della
New Age” [1] (Lash, 1992, p.271).
Anche Zigmunt Bauman è fortemente critico verso il neo-comunitarismo
contemporaneo. Se per Maffesoli, come abbiamo visto prima,
l’individuo e la società “non poggiano più su una distinzione
dall’altro”, per Bauman:
“l’attrazione che il sogno comunitario esercita sulla comunità
poggia sulla promessa della semplificazione; portata al suo
limite logico, semplificazione significa un livello minimo
di varietà in un mare di identicità. Questo obiettivo può
essere raggiunto soltanto attraverso l’espunzione delle differenze”
(Bauman, 2001, p.IX).
Un sociologo che tiene una prospettiva intermedia tra gli
entusiasmi dei tecno-utopisti e l’apocalitticità dei teorici
delle globalizzazione incontrollata è Manuel Castells, il
quale alla società delle reti ha dedicato una monumentale
trilogia. Secondo Castells lo stesso concetto di comunità
è fortemente messo in discussione nella società dell’informazione;
la comunità, infatti:
“si basa su valori e sulla relativa stabilità delle sue componenti.
Una comunità si definisce mediante i suoi confini. Le reti
invece sono prive di confini” (Castells, 2002, p.7).
Oltre all’introduzione delle nuove tecnologie lo stare insieme
comunitario è stato modificato dall’aumento del benessere
economico nelle società occidentali. Richard Sennett sostiene
che:
“il benessere aumenta il potere di creare l’isolamento nei
contatti comunitari e, allo stesso tempo, apre una strada
con la quale gli individui possono facilmente concepire la
loro relazione nel sociale in termini di somiglianza piuttosto
che di bisogno reciproco” (Sennett, 1999, p.55).
Che l’agiatezza, la costruzione di posti dove solamente un
clima pacifico debba regnare, siano un ostacolo al formarsi
delle relazioni comunitarie emerge anche dall’opera narrativa
di James Ballard, scrittore inglese che ha notevoli analogie
concettuali con l’opera sennettiana:
“questi ragazzi non si stavano ribellando contro la crudeltà
e la ferocia. Tutto il contrario. Quello che non riuscivano
più a tollerare era il dispotismo della bontà. Hanno ucciso
per liberarsi dalla tirannia dell’amore parentale (...) tutti
i ragazzi avevano ormai raggiunto l’età puberale e non ne
potevano più della dieta d’amore e comprensione che veniva
loro implacabilmente imposta al Pangbourne Village in base
a un’idea dei giovani inventata dagli adulti (...) i ragazzi
colpiranno ancora? A mio parere da questo momento tutti i
personaggi pubblici e le figure parentali sono diventati un
loro possibile bersaglio. Il regime indulgente e protettivo
instaurato con le migliori intenzioni al Pangbourne Village
ed entusiasticamente imitato nei lussuosi complessi residenziali
dell’Inghilterra meridionale, nonché nell’Europa occidentale
e negli Stati Uniti, ha generato una stirpe di vendicatori,
e li ha mandati a sfidare il mondo che li amava” (Ballard,
1993, pp. 63, 69, 109).
Sia nella visione sennettiana sia in quella ballardiana il
sentimento comunitario è dunque visto come una risposta ad
una incompletezza antropologica tipica dell’essere umano;
quando l’uomo tende a far scomparire l’intrinseca debolezza
del suo essere dietro a delle strutture, siano esse economiche,
culturali o sociali, il legame comunitario “genuino” rischia
di scomparire. Questo processo, che abbiamo ora esaminato
in testi sociologici e narrativi, è anche stato analizzato
da un punto di vista filosofico:
[l’uomo] “sente il bisogno di aiuto, ma di quell’aiuto che
sarebbe bene gli uomini si scambiassero tra loro, fatti scaltri
e maturi dalla consapevolezza della loro comune fragilità.
È questa la pietà suprema che la specie può avere di se stessa,
riconoscendosi in essa, divenendo per essa migliore. Non carità,
ma semplicemente, assolutamente pietà” (Natoli, 1995, pp.13-14).
Il dibattito sociologico tradizionale sulle comunità si è
esteso, grazie a Internet, allo studio delle comunità virtuali,
le quali hanno offerto preziosi spunti per analizzare un vecchio
fenomeno in un nuovo contesto. In realtà i giudizi sulle comunità
virtuali non si discostano più di tanto da quelli su quelle
“reali”; anche qui abbiamo gli utopisti, entusiasti o moderati,
come Rheingold (1994) o la Turkle (1997), e coloro che guardano
il fenomeno con occhio più critico come Maldonado (1997).
Spesso i termini del dibattito tra comunità on-line e off-line
sono talmente simili che è difficile notare una grossa differenza
che intercorre nelle due esperienze comunitarie: l’assenza
del corpo fisico nel caso del virtuale.
“Il limite fondamentale della Comunità Virtuale è infatti
l’assenza del corpo nella condivisone dell’esperienza. Se
si tiene conto che il corpo è l’eccipiente che fornisce la
garanzia giuridica e politica all’identità sociale, è evidente
la straordinaria molteplicità di conseguenze che tale assenza
determina” (Terzo, in Carbone e Ferri, 1999).
La teoria sociologica e filosofica [2] ha
avuto negli ultimi due decenni una vera e propria “renaissance
comunitaria”, soprattutto tra Francia e Italia. I testi di
Jan Luc Nancy (1995), Maurice Blanchot (2002), Salvatore Natoli
(1995) e Giorgio Agamben (1990) hanno riconfigurato i discorsi
sull’esperienza comunitaria agganciandola alle tematiche contemporanee.
Nancy, ispirandosi a tematiche heideggeriane, pensa che la
comunità preesista all’individuo, che solo all’interno di
essa trova la risorsa per la sua, seppur labile, individualizzazione.
Per il filosofo francese non esiste nessuna comunità originaria
alla quale le nuove forme comunitarie devono guardare; infatti:
“non esiste per Nancy nessuna comunità perduta da ricostruire:
a suo parere, la “comunità perduta” è un mito, è uno degli
archetipi costitutivi della cultura occidentale da Omero (il
ritorno di Ulisse ad Itaca) al cristianesimo (il trionfo finale
della comunità dei fedeli) al marxismo (la comunità dei mezzi
di produzione)” (Ferri in Carbone e Ferri, 1999, p.88).
La nostalgia della comunità farebbe parte di quella “nostalgia
dell’assoluto” che Steiner (2000) scorgeva dietro le teorizzazioni
del marxismo, della psicanalisi e dello strutturalismo. In
realtà però non è detto che ciò che non esiste non possa fungere
da fondamento: già Frank faceva notare che:
“l’età dell’oro ha certo il difetto di non esistere: ma appunto
per questo essa ha anche il pregio di non arrugginire nel
corso della storia” (Frank, 1982, p.192).
Avendo ora brevemente ricostruito il dibattito intorno ai
concetti di comunità e società possiamo addentrarci nell’analisi
di quella forma di stare assieme su cui sarà incentrato l’articolo:
l’esperienza settaria.
II. L’esperienza settaria
La prima definizione di setta che prendiamo in considerazione
è quella di Max Weber, che in “Economia e società” definisce
come:
“una comunità che nel suo senso e nella sua essenza deve necessariamente
rinunciare all’universalità, e fondarsi necessariamente su
una stipulazione del tutto libera dei suoi membri. Essa deve
far ciò perché è una formazione aristocratica (…) Almeno nel
suo tipo più puro, essa rifiuta la grazia istituzionale e
il carisma d’ufficio” (Weber, 1968, p533).
Vediamo qui messe in luce due caratteristiche fondamentali
dell’esperienza settaria: il suo carattere volontario (in
contrapposizione con quello delle chiese che generalmente
è ascritto) e la rinuncia all’universalismo. Ma se l’analisi
di Weber sulle distinzioni tra la chiesa e la setta rimane
rigidamente “avalutativa”, non lo stesso si può dire di quella
dedicata allo stesso argomento da Ernest Troeltsch. Quest’ultimo
autore trova che la connotazione negativa che in genere viene
applicata all’idea di settarismo rappresenti il punto di vista
dominante della chiesa:
“il tipo chiesa è quello dell’organizzazione prevalentemente
conservatrice, relativamente affermatrice del mondo, dominatrice
delle masse e quindi per natura universale cioè intesa a comprendere
tutto. [la chiesa] mette al proprio servizio lo stato e gli
strati dominanti e se li incorpora, affermandosi così elemento
costitutivo dell’ordine generale e in parte determinando quest’ultimo
con la propria azione in parte consolidandolo, ma diventando
così dipendente da quei fattori e dal loro svolgimento” (Troeltsch,
1949, p.466).
Se la chiesa è la garante dell’ordine costituito la setta
diventa una organizzazione con fini politicamente sovversivi,
composta prevalentemente da persone provenienti da classi
sociali svantaggiate:
[le sette] “hanno relazioni con gli strati inferiori o almeno
con gli elementi sociali che si trovano in contrasto con lo
stato e la società, lavorano dal basso e non dall’alto” (Troeltsch,
1949, p.466) [3].
La struttura settaria tende comunque a cancellare qualsiasi
tipo di appartenenza precedente all’ingresso in essa. Fei-Ling
Davis mette bene in evidenza questo aspetto quando riporta
un verso rituale di una triade cinese:
“Dinnanzi alla Sala della Lealtà e della Giustizia non vi
sono né piccoli né grandi; né il titolato, né il ricco, né
il povero qui possono far credere di essere quello che non
sono (…) Una volta varcate le porte di Hung, non vi sono più
parenti, non vi è più storia. Sono uno straniero, senza genitori,
senza fratelli o sorelle, perciò vi prego, d’ora in poi, di
essere voi i miei genitori e fratelli” (cit. in Fei-Ling Davis,
1971, pp. 129-130).
Tuttavia l’escludere l’importanza di status al di fuori del
gruppo di riferimento non è una caratteristica esclusiva delle
forme settarie; già Simmel faceva notare come ogni forma di
socievolezza comportasse questa particolarità:
“nella socievolezza non deve rientrare ciò che la personalità
possiede come importanza oggettiva, quella che ha cioè il
suo centro al di fuori della cerchia che esiste in quel momento.
Ricchezza e posizione sociale, erudizione e fama, capacità
eccezionali e meriti dell’individuo non hanno nessun ruolo
nella socievolezza, ma sono tutt’al più una lieve sfumatura
di quella immaterialità con cui alla realtà soltanto è permesso
insinuarsi in quell’opera d’arte sociale che è la socievolezza”
(Simmel, 1997, p.45).
Anche per Troeltsch, come per Weber, la forma settaria rinuncia
all’universalismo; ma nell’analisi del teologo tedesco la
rinuncia diventa più marcata, la setta rinuncia anche all’idea
di intervenire nel mondo; l’unico atteggiamento che rimane
verso le regole e le persone esterne alla setta è quello di:
“evitarli e lasciarli sussistere come sono accanto a sé o
sostituirli con la loro speciale società” (Simmel, 1997, p.45).
La setta diventa quindi una sorta di isola che tende a formarsi
regole morali, estetiche, e sociali diverse dal resto del
mondo, e sostituisce la natura tipicamente estensiva della
chiesa con uno stare assieme basato su una intenzione dei
rapporti tra gli appartenenti della stessa. Troeltsch prosegue
precisando che la rinuncia a interessarsi al potere e al mondo
viene sostituita da un intensificarsi dell’importanza dei
rapporti affettivi, dell’amore e della sensualità:
“la pura e semplice opposizione al mondo e ai suoi ordinamenti
sociali […] crea condizioni particolari per una vita conforme
[…] all’ideale del comunismo d’amore. L’ideale delle sette
non è la repressione della sensualità e del naturale sentimento
di sé, bensì una congiunzione d’amore, che vada immune alle
lotte e dalle graduazioni del mondo” (Simmel, 1997, p.467).
Possiamo anche ribaltare questo giudizio pensando che non
solo l’amore può essere un tipico contenuto della forma settaria,
ma l’amore stesso possa costituire essenzialmente una forma
settaria; tuttavia di questo parleremo più approfonditamente
nel quinto paragrafo.
Se l’amore è un’emozione in grado di annullare differenze
tra gli individui inducendoli a formare delle comunità estemporanee,
duali e non, esso non è tuttavia l’unico stato emozionale
che può pervenire a questi risultati. Le comunità emozionali
di weberiana memoria, infatti, sono tutte quelle comunità
di persone che si formano in seguito a un determinato avvenimento
che, producendo uno stato emozionale particolare e comune
a tutto il gruppo, tende ad annullare le differenze che nella
routine della vita quotidiana le avrebbero tenute distanti:
“una strada, una conflagrazione, o un incidente di traffico
riuniscono persone che non sono definite dal punto di vista
della classe sociale. Esse si presentano come raggruppamenti
concreti, ma socialmente rimangono astratti” (Benjamin, 1978).
Resta importante sottolineare la differenza tra la particolare
esperienza settaria e la generale adesione a un movimento
politico, differenza fondamentale anche, come vedremo in seguito,
se rapportata alla situazione politica contemporanea. Il movimento
agisce sempre con intenti “positivi” verso l’esterno: esso
vuole sempre, con differenti mezzi e gradazioni, migliorare
il mondo:
“i movimenti sociali [hanno] azioni collettive orientate a
uno scopo, i cui esiti, sia nella vittoria sia nella sconfitta,
inducono una trasformazione dei valori e delle istituzioni
della società” (Castells, 2003, p.3).
La setta invece, come abbiamo già avuto modo di mettere in
luce, ha un rapporto con il mondo che oscilla dal disinteresse
totale all’aperto conflitto:
“le sette che negano il mondo sarebbero quelle le cui dottrine
enfatizzano il male del mondo moderno (…); esse proclamano
che gli uomini devono essere salvati dal mondo (…), tendono
a condurre fuori dal mondo i loro adepti, inserendoli in comuni
o collettività separate dove si pratica un più puro stile
di vita. Le sette indifferenti al mondo tollerano il mondo
secolare mentre incoraggiano i loro fedeli a cercare una via
migliore e una vita più pura, tentando di essere nel mondo
e non del mondo” (Wilson, 1985, p.134).
Uno dei motivi della separazione [4] dal
resto del mondo è di natura tipicamente esistenziale; l’appartenenza
a una setta fornisce un bisogno d’ordine che il resto della
società tende continuamente a negare:
[le sette sono composte da] “uomini che di tanto in tanto,
nel corso della storia, sembrano voler imporre leggi rigide
alla società senza disciplina che non ha potuto soddisfare
il loro desiderio di rigore. [Questi uomini,] allontanandosi
con disgusto dalla società, andavano a vivere altrove sotto
istituzioni più severe” (Caillois, 1983, p.52).
Nel caso però questa severa autodisciplina venga a mancare,
il furore della setta si può liberamente scatenare, senza
nessuna remora morale nei confronti delle persone non appartenenti
alla setta dato che:
“l’etica di tali comunità prevede stretti obblighi fra gli
adepti e li spinge a considerare il resto degli esseri umani
non tanto come uguali nei diritti, quanto materia prima delle
proprie imprese” (Caillois, 1983).
Abbiamo dunque fatto una veloce panoramica sul concetto di
setta; resta da vedere se e come l’esperienza settaria possa
oggi trovare un fertile terreno per rinascere.
Le ipotesi reperibili in letteratura sono che la rinascita
del settarismo può essere provocata da:
1) una reazione socio-politica agli esiti spersonalizzanti
del processo di globalizzazione;
2) una reazione antropologico-cognitiva allo sviluppo della
tecnica.
Il secondo punto può essere ulteriormente suddiviso in due
aspetti: il settarismo viene favorito da un meccanismo di
riduzione di complessità messo in atto dall’uomo per difendersi
dall’aumento di disagio cognitivo dovuto anche alla presenza
straniante della tecnica, oppure il settarismo viene aiutato
dalla nuova frattura cognitiva che si è creata con le tecnologie
della comunicazione.
Per quanto riguarda la prima suddivisione la tecnica viene
vista sia come prolungamento del processo di razionalizzazione
e sia come uno dei principali fondamenti dello sviluppo del
processo stesso. Già Georg Simmel notava che:
“la macchina è diventata molto più “spirituale” del lavoratore.
Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria,
sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che
fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina?
(…) Come la nostra vita esterna viene invasa da un numero
sempre crescente di oggetti il cui spirito oggettivo, lo spirito
impiegato nel processo di produzione, neppure lontanamente
concepiamo, così la nostra vita interiore e di relazione è
riempita da strutture che sono divenute simboliche, strutture
nelle quali è cumulato un ampio contenuto intellettuale; ma
lo spirito individuale di solito ne utilizza solo una minima
parte.(…) Ogni giorno e da ogni parte si accresce il patrimonio
della cultura oggettiva, ma lo spirito individuale può accrescere
le forme e i contenuti della sua formazione solo con grande
ritardo poiché procede con un’accelerazione assai minore”
(Simmel, 1984, p.634).
Lo stesso tema del divario tra cultura oggettiva e spirito
individuale è trattato anche da Weber, che, nel passo che
segue, ne accentua il carattere tragico-esistenziale:
“Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva
“vecchio e sazio di vita”, perché si trovava nell’ambito della
vita organica, perché la sua vita, anche per il suo significato,
alla sera della sua giornata gli aveva portato ciò che poteva
offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere
ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Un uomo incivilito,
invece, coinvolto nel continuo arricchimento della civiltà
con idee, conoscenze, problemi, può diventare “stanco”, ma
non “sazio” della vita. Egli, infatti, di ciò che la vita
dello spirito di nuovo sempre produce, coglie solo una minima
parte, e sempre qualcosa di provvisorio e mai definitivo,
e quindi la morte per lui è un accadimento assurdo. Ed essendo
la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale,
in quanto appunto con la sua assurda “progressività” fa della
morte un assurdo” (Weber, 1971, pp.20-21).
Nell’ottica di questa visione, quindi, la tecnica si configura
come un oggetto che aumenta l’alienazione, anche in senso
marxiano, dell’uomo con il mondo:
“chiamiamo “dislivello prometeico” l’asincronizzazione ogni
giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti,
la distanza che si fa ogni giorno più grande” (Anders, 1963,
p.24).
Se le teorie che abbiamo appena elencato sono corrette, è
possibile ipotizzare che la rivoluzione tecnologica, comprendente
ovviamente quella informatica, sia un importante agente della
desacralizzazione del mondo, e della sua conseguente perdita
di significato. A queste analisi può essere affiancata la
riflessione di Arnold Ghelen, anche lui convinto che nella
sua essenza antropologica l’uomo sia sempre a rischio di un
sovraccarico cognitivo.
Abbiamo così visto come una visione della tecnica come struttura
“alienante” possa portare come reazione una accentuazione
della chiusura dell’uomo verso l’esterno; esterno pieno di
insidie cognitive e spersonalizzanti.
Ci rimane ora da vedere il secondo tipo di teorie che nascono
da una riflessione sulla tecnica: se nelle prime, la tecnica
veniva vista in maniera, per così dire, “negativa”; nelle
seconde, la tecnica è uno strumento che permette all’uomo
di chiudere definitivamente pratiche di esistenza rimaste
ormai obsolete. Come mette bene in evidenza Franca D’Agostini,
Heidegger è un pensatore che può ben essere usato come cerniera
per collegare queste due parti:
“c’è una potenzialità prefilosofica (o postfilosofica) inesplorata
che sembra aprirsi nel mondo tecnico-scientifico; il compimento
della filosofia nella scienza, e quindi nella tecnica, coincide
con la nascita di nuove antiche condizioni di pensiero. Avanza
qui quella visione duplice della tecnica, come “buon” compimento
della metafisica, e come territorio dell’estremo “oblio dell’essere”,
che domina negli ultimi scritti heideggeriani. Nella tradizione
che si ispira a Heidegger, questa duplicità ha dato luogo
a posizioni disparate, che variano da una soluzione di assecondamento,
più o meno radicale della fine della filosofia, a posizioni
di condanna del pensiero “calcolante” che si esprime nella
tecnica” (D’Agostini, 1997, p.36).
L’autore con cui possiamo porre le basi per affrontare questa
seconda visione della tecnica è sicuramente Marshall McLuhan.
Il legame tra Heidegger e McLuhan verte proprio sulla considerazione
della tecnica non solo come qualcosa di strumentale, ma piuttosto
come qualcosa di formativo:
“l’interrogativo sull’essenza della tecnica conduce Heidegger
a sostenere che l’essenza della tecnica non è in realtà qualcosa
di tecnico. Heidegger non è il solo – anche se forse il primo
– nel panorama della cultura contemporanea, a sostenere questa
tesi. Per esempio, anche Marshall McLuhan ha sostenuto che
l’aspetto essenziale del medium tecnico non è strumentale,
ma formativo, sicché esso è una condizione dell’esperienza,
non un tramite per ottenere certi scopi o per trasmettere
certi messaggi” (Perniola, 1985, p.40).
Per introdurre questa seconda visione possiamo trovare spunto
dalla citazione di McLuhan con la quale iniziavamo questo
saggio:
“l’uomo è trasformato in tribù dai media elettrici (...) l’uso
dei media elettronici costituisce un punto di rottura tra
l’uomo Gutenberg frammentato e l’uomo integrale, proprio come
l’alfabetismo fonetico fu un punto di rottura tra l’uomo orale-tribale
e l’uomo visuale. Infatti oggi possiamo voltar lo sguardo
indietro a 3000 anni di visualizzazione, atomizzazione e meccanizzazione,
riconoscendo alla fine l’età meccanica come un interludio
tra le due grandi ere organiche della cultura” (McLuhan, 1998,
pp. 92-98).
Se, però, prima questa citazione ci era servita per introdurre
un’analisi politico-economica, in questo caso l’attenzione
sarà incentrata maggiormente sull’aspetto cognitivo, su come
cioè la struttura mentale dell’uomo sia influenzata dalle
tecnologie della comunicazione che prevalentemente egli usa,
anche se poi le conseguenze delle differenze tra gli effetti
dell’uso dei diversi media ricadono sulla struttura sociale
predominante in una data epoca.
Il punto di partenza per riflettere su questo tema rimane
il testo di Walter Ong “Oralità e scrittura” (Ong, 1986),
nel quale si sostiene che l’introduzione della scrittura,
con le sue caratteristiche di razionalità, progettualità e
analiticità ha permesso che questi aspetti si diffondessero
anche in ambiti che con la scrittura apparentemente poco avrebbero
a che fare:
“senza saper leggere e scrivere, non si è in grado di eseguire
un esame dei fenomeni o delle affermazioni che si fondi sull’astrazione
e sia sequenziale, classificatorio ed esplicativo [...]. Dove
non esiste scrittura non vi è nulla del pensatore stesso,
nessun testo che lo aiuti a riprodurre il medesimo sviluppo
di pensiero, o anche a verificare se lo ha fatto” (Ong, 1986,
pp. 27 e 62).
Ong ritiene che i media elettronici, compreso il computer,
ci stiano portando verso una “oralità secondaria”, che ha
molte analogie con l’oralità pre-alfabetizzata:
(...) “per la sua mistica partecipatoria, per il senso di
comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino
per l’utilizzazione delle formule” (Ong, 1986, p.191).
Che l’utilizzo del computer stia rivoluzionando i principi
base della comunicazione è un fatto talmente evidente che
anche uno dei più “classici” e anche per certi versi conservatori
dei critici letterari americani, George Steiner, non ha potuto
fare a meno di prendere atto che:
“i computer sono ben più che semplici strumenti pragmatici.
Suscitano e sviluppano metodi e configurazioni non verbali
di pensiero, di processi decisionali, persino - ce ne viene
il sospetto - di percezione estetica. Sono i padroni del nuovo
ordine di chierici, composta da giovani e giovanissimi che
ignorano o rifiutano, con flessibilità, la cultura del testo
scritto. Gli schermi non sono libri, la “narratività” di un
racconto formale non è quella di un racconto discorsivo. Così
i veicoli preminenti dell’energia speculativa, delle scoperte
verificabili e applicabili all’informazione non sono più il
Logos in una qualsiasi connotazione trascendentale, né i sistemi
secolari, empirici dell’enunciazione e della scrittura lessico-grammaticale,
bensì la funzione algebrica, l’equazione lineare e non lineare,
il codice binario. Al cuore dell’avvenire prevedibile si trovano
il byte e il numero” (Steiner, 1999, p.114) [5].
Il dibattito tra oralità e scrittura tende sovente ad avere
forti conseguenze politiche, in senso esteso, soprattutto
quando mette in evidenza come la nascita di una economia scritturale
abbia relegato tutte le persone che della scrittura non avevano
conoscenza ai margini della società. Le forme culturali connesse
con la scrittura, in questo caso, non vengono più viste come
intrinsecamente superiori a quelle connesse con l’oralità,
ma semplicemente diverse; l’unica superiorità della scrittura
rispetto all’oralità sarebbero i maggiori rapporti che essa
intrattiene con i sistemi economico-politici [6];
la scrittura sarebbe la forma di cultura istituzionale alla
quale si contrapporrebbero le culture “antagoniste” dell’oralità:
“questo potere, essenzialmente scritturale, non contesta solamente
il privilegio della “nascita”, ovvero della nobiltà: definisce
il codice della produzione socio-economica e domina, controlla
e seleziona tutti coloro che non possiedono questa padronanza
del linguaggio. La scrittura diviene un principio di gerarchizzazione
sociale che privilegiava ieri il borghese, oggi il tecnocrate.
Funziona come una legge di una educazione organizzata dalla
classe dominante che può fare del linguaggio (retorico o matematico)
il suo strumento di produzione. Ancora una volta Robinson
chiarisce una situazione: il soggetto della scrittura è il
padrone, e l’operaio che maneggia una strumento diverso dal
linguaggio sarà Venerdì” (De Certeau, 2001, p.203).
Diventa così interessante scoprire se il linguaggio dei nuovi
media sia più assimilabile alla scrittura o all’oralità; se
i nuovi linguaggi della comunicazione, cioè, siano nuove forme
di dominio oppure resistenza a forme di dominio tradizionali.
La connessione tra linguaggio e potere economico-politico
è del resto al centro della riflessione di numerosi autori;
la tesi da molti proposta è che nell’epoca post-fordista,
caratterizzata da un declino della produzione materiale, ciò
che diventa produzione sia la comunicazione e il linguaggio
stesso. Mentre nell’epoca fordista il lavoratore subordinato
era costretto a una attività monotona e silenziosa, oggi:
“il processo produttivo ha per “materia prima” il sapere,
l’informazione, la cultura, le relazioni sociali. Chi lavora
è (deve essere) loquace. La celebre opposizione stabilita
da Habermas tra “agire strumentale” e “agire comunicativo”
(o lavoro e interazione) è radicalmente confutata dal modo
di produzione post-fordista. L’“agire comunicativo” non ha
più il suo terreno privilegiato, o addirittura esclusivo,
nelle relazioni etico culturali, nella politica, nella lotta
per il “reciproco riconoscimento”, esulando dall’ambito della
riproduzione materiale della vita. Al contrario, la parola
dialogica si insedia nel cuore stesso della produzione capitalista.
Il lavoro è interazione” (Virno in Zanini e Fadini, 2001,
p.181).
Il tema del presunto potere scritturale nei confronti dell’oralità
è interessante anche perché può essere usato, e viene usato,
sia da autori “progressisti” sia da autori “conservatori”.
Prova ne è che il saggio di José Bergamin “Decadenza dell’analfabetismo”
(Bergamin 2000) è stato recentemente ripubblicato in Italia
da Bompiani con due prefazioni, una di Giorgio Agamben e una
di Vittorio Sgarbi - due autori dai background teorici e dalle
idee politiche notevolmente differenti.
NOTE
1] Ben diversa è l’interpretazione
del fenomeno New Age data da Maffesoli: “...io stesso ho parlato
a questo proposito di cultura del sentimento.[...] Non si
può ridurre questa cultura (ri)nascente al suo aspetto concettuale
o razionale, dato che quest’ultimo è d’altronde ben povero
e si traduce il più delle volte in un bric-à-brac ideologico
che non merita una grande attenzione” (Maffesoli, 1996, p.
12). Maffesoli sembra qui rispondere indirettamente alle accuse
al fenomeno New Age portate avanti da Lash. La New Age può
essere uno dei campi da studiare dove il fenomeno del neo-comunitarismo
è di grande evidenza. Su questi temi Hellas, 1999 e Jacobelli
et al., 1999.
2] Il dibattito tra società
e comunità e uno di quei campi dove risulta molto difficile
tenere una rigida distinzione disciplinare. Per quanto mi
riguarda cercherò di fare riferimento esclusivamente al dibattito
sociologico e filosofico.
3] In realtà quest’ultima
affermazione è quantomeno discutibile. Storicamente, infatti,
l’esperienza settaria ha abbracciato persone di rango assai
elevato, basti pensare alle confraternite artistiche che,
soprattutto a fine ottocento, dilagarono in tutta Europa.
L’analisi di Troeltsch rimane qui un po’ troppo sterilmente
legata a un concetto di classe piuttosto limitato, che era
già stato messo in discussione da Simmel con l’idea delle
cerchie sociali, e che verrà riformulato in maniera analiticamente
più coerente da Bourdieu con la sua divisione tra capitale
economica, sociale e culturale. Lo stesso Bourdieu risulta
utile proprio per osservare le dinamiche di distinzione all’opera
nelle sette artistiche, dove “l’intolleranza estetica conosce
violenze terribili” (Bourdieu, 1979, p 56).
4] Uno strumento molto utile
per costruire la possibilità di una separazione dal mondo
è l’uso sapiente del segreto. Su questo tema cfr. Simmel (1989).
5] Secondo alcuni autori
una mediazione tra la cultura scritta e quella orale sarebbe
costituita dalla forma ipertestuale, che riunirebbe in sé
aspetti di entrambe le culture. Su questi temi fondamentale
è Landow (2000), che affronta il tema riunendo opinioni di
tecnologi, critici letterari, sociologi e filosofi. È proprio
sul versante filosofico che però, a mio parere, libri come
quello di Landow si dimostrano più deboli. Landow prende le
mosse dalle teorizzazioni dei post-strutturalisti a riguardo
dell’apertura del testo, della morte dell’autore, della non-linearità
della lettura e le applica automaticamente alle nuove forme
ipertestuali. Ma se così Landow riesce a centrare alcuni fondamentali
aspetti dell’innovazione prodotta dall’ipertesto, egli, decontestualizzando
le analisi dei filosofi presi in questione, ne snatura notevolmente
i presupposti teorici. Quando Barthes teorizzava il lettore
attivo, infatti, egli lo vedeva all’opera di fronte a un testo
– il libro – che tradizionalmente era stato sempre visto come
chiuso. È ben diverso teorizzare un’esperienza di lettura
libera di fronte a un testo chiuso piuttosto che teorizzarla
di fronte a un testo – l’ipertesto – che già nasce intrinsecamente
aperto: quella che prima era un atto di libertà di fronte
a un imposizione di senso esterna – una decodifica oppositiva
(Hall, 1980) – diventa così un mero accondiscendere alle strutture
di significazione normalmente accettate. Alla base del pensiero
di tutti gli autori post-strutturalisti presi in esame da
Landow vi era un fondamentale atteggiamento critico; questo
atteggiamento sparisce completamente nelle pagine dell’autore
dell’ipertesto. Del resto anche Landow nota che “l’ipertesto
elettronico e le idee della teoria letteraria contemporanea,
soprattutto post-strutturalista, possiedono infatti molti
punti di convergenza, ma divergono nel tono. Mentre la maggior
parte degli scritti teorici, fatta eccezione per quelli di
Deridda, sono esempi di solennità accademica, che presentano
atteggiamenti di disinganno e di intrepido sacrificio umanistico,
gli scritti sull’ipertesto sono chiaramente celebrativi. Mentre
la teoria letteraria è piena di parole come morte, svanire,
perdita e di espressioni di esaurimento e di impoverimento,
gli scritti sull’ipertesto sono caratterizzati da termini
come libertà, energia, potenziamento [...]. La maggior parte
dei post-strutturalisti vive nel crepuscolo di un sogno di
gloria; chi si occupa di ipertesti parla delle stesse cose
ma le considera l’alba di un nuovo giorno” (Landow, 2000,
pp. 139-141). Ma la chiosa migliore a questa mia critica viene
forse dalla pagina 352 dell’edizione italiana: al momento
di citare in nota “la condizione postmoderna” il traduttore,
probabilmente inconsciamente influenzato da quello che aveva
appena letto, sbaglia e scrive “la conciliazione postmoderna”.
L’autore della “condizione”- Lyotard - qualche anno dopo il
testo del ’79 scriverà un libro intitolato “il dissidio”.
Dissidio o conciliazione, appunto, è una questione di prospettiva.
6] Il tema del conflitto
politico tra forme espressive scritturali e forme espressive
orali riecheggia il dibattito che, nella teoria culturale,
vi è stato tra un modo di pensiero discorsivo–testuale-cognitivo
al quale si contrappone un pensiero essenzialmente figurale
e sensuale. Su questi temi Lyotard, 1971 e Deleuze, 1995.
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