Communauté et relations sociales
Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.1 Janvier-Mars 2006
CULTURE DEL CIBO E IDENTITÀ TERRITORIALI: IL RACCONTO ON-LINE DELLA CULTURA ALIMENTARE AUSTRALIANA IN ALCUNI THEME PUBS
Lorenzo Domaneschi
lorenzo.domaneschi@unimi.it
Dopo una laurea in Economia e
Commercio a Genova sta seguendo un corso di dottorato in sociologia
alla statale di Milano.
1. Introduzione
Le culture alimentari vengono spesso proposte attraverso i
locali pubblici metropolitani offrendo un tipico esempio dei
processi di mercificazione dell’ambito culturale, esprimendo
al limite una narrazione simulata di una certa identità geografica
(Bell e Valentine 1997; Bell 2002). D’altra parte, proprio
per questo, in un contesto globalizzato come quello contemporaneo,
il cibo rappresenta sempre di più uno dei canali principali
per veicolare, nella cultura popolare, immagini di differenti
identità nazionali (Cook e Crang 1996). In questo senso, l’ipotesi
su cui si basano queste note, parte dal presupposto che ogni
alimento sia sempre, contemporaneamente, tanto locale quanto
de-localizzato, nella misura in cui la sua de-localizzazione
è parte della sua rappresentazione locale (1996), in modo
tale che diventa possibile pensare i locali pubblici urbani
come delle vere e proprie agenzie in grado di veicolare e,
almeno temporaneamente, fissare certi significati legati al
cibo, selezionando certi racconti specifici di alcune identità
geografiche.
Tra gli altri strumenti comunicativi utilizzati da queste
agenzie, dunque, allo scopo di (rap)presentare una certa identità
territoriale, internet, nel senso delle homepages e dei relativi
forum che raccolgono i commenti del loro pubblico, si propone
come un laboratorio e, a un tempo, lo specchio di tali processi
di trasmissione e negoziazione di quei significati evocati
dal cibo all’interno della cultura popolare. Come insegnano,
a questo proposito, le teorie legate ai cultural studies,
dunque, queste formazioni identitarie vanno sempre considerate
come il prodotto di determinati rapporti di potere: in questo
caso determinati dal rapporto tra offerta e domanda di una
certa cultura alimentare. (si veda, per una rassegna generale
di questo tipo di approccio legato al cibo, Ashley, Hollows,
Jones, Taylor 2004).
Su queste basi, questo breve saggio prova ad analizzare il
tipo di racconto veicolato dal mondo on-line, al fine di registrare
le modalità di produzione e fissazione di una certa immagin(azion)e
dei confini della cultura alimentare australiana, esaminando
le definizioni ad essa assegnate attraverso le descrizioni
presenti in alcune homepages e un forum di alcuni pubs a tema
presenti nel territorio italiano. A questo scopo, l’esercizio
interpretativo che verrà proposto verterà sulla possibilità,
fondata sulle considerazioni più generali accennate sopra,
di utilizzare la categoria elaborata da E. Said di “geografia
immaginata” (1978). Come vedremo, questo permetterà di ricavare
uno specifico racconto, eminentemente italiano, capace di
produrre una altrettanto specifica identità geografica australiana.
2. L’identità narrata: la costruzione (on line) della
cultura alimentare
Una volta scivolati via i più forti legami d’appartenenza
centrati nei riferimenti valoriali, come la tradizione (Giddens
1994) così come quelli radicati nel territorio, come lo Stato-nazione
(Anderson 1996) o quelli legati alla classe sociale o alla
famiglia (Beck 2000), l’identità dell’individuo non dispone
più di uno spazio esistente a priori su cui innervarsi e riprodursi.
In generale, come afferma Alberto Melucci, “non esiste più
quell’appartenenza ovvia e naturale fornita da contenitori
sociali stabili” (1999: 131). Questo comporta l’inserimento
dell’identità individuale in un ambiente di forte complessità,
dove “complessità significa moltiplicazione degli ambiti,
dei tempi, dei possibili corsi d’azione, ma dietro questa
promessa abbagliante, l’esperienza dell’agire si compie soltanto
attraverso la perdita continua.” (Melucci 2000: 107). Frammentazione
dei corsi d’azione, insicurezza connaturata alla costante
deprivazione implicita in ogni scelta e rischio legato alle
possibili conseguenze della decisione presa, dunque, presentano
in modi inediti l’identità come problema (2000) nel senso
di porre come questione centrale il problema della “costruzione”
di un percorso identitario integralmente da immaginare. Queste
trasformazioni spingono, pertanto, sempre più lontano dall’idea
di un soggetto che avrebbe un nucleo forte, quasi metafisico
e spostano l’attenzione sui processi attraverso cui gli individui
o i gruppi si definiscono, “costruiscono” ciò che, con qualche
difficoltà, continuiamo a chiamare identità. (2000: 107).
“Il problema resta dunque quello di spiegare come succede
che ciascun individuo continui a parlare di sé come un io,
o che i membri di un gruppo si riferiscano a un noi collettivo.
A che cosa si fa dunque riferimento quando ci si identifica?
Se si assume che gli attori danno senso a quello che dicono
e fanno, occorre riconoscere che continuano a parlare di sé
con qualche senso di unità e permanenza, pur nella moltiplicazione
delle facce dell’identità e nella situazione di incertezza
cui ho fatto riferimento in precedenza. Si tratta allora di
spiegare i processi attraverso i quali questo senso di unità
e continuità si forma e si mantiene. (…) Le domande “chi sono
io”, “ chi siamo noi” non cessano di manifestare la loro forza,
anzi diventano più assillanti e ripetute. La risposta non
è già data, ma va continuamente costruita, come individui
e come membri di collettività.” (Melucci 2000: 109, 110, 111)
Si lavora così alacremente sul materiale offerto all’esperienza,
su quei dati via via acquisiti che si prestano ad una riorganizzazione
progettuale condotta riflessivamente. È evidente allora che
l’individuo deve fare i conti con un’ingente massa di risorse
di natura eminentemente simbolica, in quanto votate ad una
rielaborazione in termini di senso. Queste risorse, che sono
naturalmente di vari tipi e derivano rispettivamente da diverse
forme di esperienza, sono, nel caso specifico dei media elettronici,
definite da J. B. Thompson nei termini di forme simboliche
mediate (1998).
Le inedite condizioni dell’esperienza contemporanea accennate
sopra, in questo senso, invalidano la tradizionale concettualizzazione
del rapporto intersoggettivo riferito “ad un “mondo di esperienza
condivisa” le cui radici sono profondamente legate al mondo
della coesistenza, dell’immediatezza e familiarità dello spazio
e del tempo comune.” (Mandich 1999: 192). Questo vincolo,
come si è visto, non regge più, mentre si va sempre più verso
quelle forme di interazione costruite a partire dalla distanza
fisica dei soggetti e pertanto incapaci di prevedere la tradizionale
reciprocità dei comportamenti, definite in questo senso da
J.B. Thompson come forme di “intimità non reciproca a distanza”
(1998: 305). È evidente, allora, come questo nuovo tipo di
rapporti produca una mutualità del tutto non assimilabile
a quella che si crea in situazioni faccia a faccia.
In questo senso è utile riprendere il discorso elaborato da
B. Anderson a proposito del concetto di “comunità immaginata”
(1996), il quale permette di pensare alla forma comunitaria
in maniera indipendente dal vincolo territoriale, laddove
quest’autore consente di ripensarla “in termini di condivisione
di credenze, convinzioni, interessi, stili di vita grazie
alla quale operiamo classificazioni che ci permettono di sviluppare
un senso del “Noi”.” (de Benedittis 2003: 29). Ovvero il punto
centrale si colloca nell’osservare al lavoro quella “capacità
personale” del soggetto all’interno del nuovo ambiente simbolico,
allo scopo di mettere in comune e condividere una certa selezione
di significati, ritagliati da uno più contesti di vita, e
“immaginati” come armonici e coerenti.
Ora, se tutto questo è vero, possiamo pensare che questo tipo
di immaginazione venga a raccogliersi intorno ad un oggetto
come il cibo, grazie alle sue capacità di materializzare certi
significati, almeno temporaneamente (Douglas e Isherwood 1979).
Se analizzate in questo modo, ossia esplicitando il lavoro
selettivo di immaginazione che ne traccia i confini simbolici,
le narrazioni che possiamo raccogliere a proposito di una
specifica cultura alimentare, non ultime quelle presenti su
alcuni siti web, ci mostrano come il cibo stesso non pro-viene
semplicemente da certi luoghi, bensì, più significativamente,
esso contribuisce a creare un luogo [1] nella
misura in cui viene impiegato nella costruzione discorsiva
della località (Appadurai 2001). Questo significa, infine,
che differenziare i cibi per la loro provenienza, come avviene
sistematicamente on line nel caso della presentazione, promozione
e discussione della loro presunta autenticità, non è un mero
atto passivo di attribuzione di un oggetto ad un luogo – eventualmente
governato e diretto da certe forze di mercato – non si tratta,
ossia, di un mero uso di una classificazione: si tratta, come
per altri casi, di un’attività cruciale di classificazione
(Bourdieu 1990) [2]. Un certo alimento, una
particolare ricetta o una specifica modalità di elaborazione
del cibo non possono mai essere il riflesso di determinate
identità nazionali, piuttosto che di classe, di genere o etniche:
queste ultime saranno invece sempre (anche) il risultato e
il prodotto delle pratiche di produzione e consumo di cibo.
È così, infine, che si può dire che queste ultime coincidono
con le modalità di produrre e consumare un determinato luogo,
delineando cioè i tratti di una determinata identità locale:
in poche parole, da questo punto di vista, più che quello
che mangiamo, possiamo dire che siamo dove mangiamo (Bell
e Valentine 1997).
3. Pensare l’Austr(It)alia: il caso degli Aussie Pubs
“But Orientalism is a field with considerable geographical
ambition.”
E. Said [3]
Come anticipato dall’esergo, per tentare di rispondere alle
domande suscitate dall’approccio analitico discusso fin qui,
si è scelto, sulla scia delle indicazioni emerse da una analisi
delle interviste raccolte, di interpretare l’esperienza della
frequentazione degli “Aussie Pubs”, in particolare in quanto
offerta di un incontro con cibi e bevande provenienti da quel
luogo, attraverso la categoria proposta da Said di “geografia
immaginata” (1978: 49). Nel corso del suo famoso testo in
cui descrive e ricompone dettagliatamente le modalità tramite
le quali il mondo occidentale ha costruito una più o meno
precisa idea di Oriente – ciò che appunto egli definisce tramite
il termine Orientalismo – Said utilizza, infatti, come fulcro
di tale analisi proprio l’idea di una definizione specifica
di un campo geografico. Si tratta, in altre parole, di una
costruzione di geografie operata da un certo pubblico (gli
abitanti del mondo europeo, in particolare) grazie ad un certo
numero e tipo di agenzie (accademiche, prima di tutto).
Non è poi così difficile, allora, sulla scia di quanto argomentato
finora, pensare al cibo come uno dei veicoli tramite cui analizzare
queste modalità di produzione – nel senso appunto di immaginazione
– di certe aree geografiche. A dimostrazione di questa possibile
lettura, infatti, vi sono alcuni tentativi teorici che hanno
optato per un’analisi di questa esperienza urbana [4].
Si deve proprio al lavoro di J. May (1996) l’intuizione di
una potenzialità esplicativa di tale categoria se applicata
alla vita quotidiana: l’autore, in quel caso, avanza una considerazione
interessante, peraltro comunque almeno implicita nel discorso
di Said, a proposito della possibilità di ri-volgere tali
analisi direttamente alla propria cultura, in modo da cogliere
alcuni tratti di questa piuttosto che una qualche descrizione
dell’Altro o delle sue manifestazioni, da spiegare attraverso
le classiche variabili strutturali (1996: 3). In questo senso,
infatti, pur con un taglio diverso, sembrano andare, per esempio,
alcuni interessanti lavori in campo antropologico (Narayan
1995) e semiotico (Ferraro 1998).
Seguendo rigorosamente l’argomentazione di Said [5],
dunque, la prima considerazione che possiamo trarre da un’analisi
iniziale dei racconti esaminati, riguarda proprio la costruzione
di un’area geografica comune, in questo caso quella australiana,
considerata come fissa e conchiusa, rispetto alla (immaginazione
della) quale non vi è di fatto alcuna effettiva analogia con
un’ampia varietà di realtà sociali, linguistiche, politiche
e storiche situate nella zona cui tale geografia farebbe riferimento.
In questo senso, afferma Said come riportato in esergo, possiamo
parlare di un’ambizione considerevole nel chiudere in una
totalità geografica quella complessità umana.
Tale ambizione geografica, per così dire, sembra potersi ritrovare
in diversi passaggi delle interviste, ogni volta che viene
messa in discussione l’etichetta di “australianità” del locale:
come si può vedere dal passo riportato qui sotto, infatti,
pur essendo evidentemente consapevoli della costruzione fittizia
del tema con cui il pub si presenta, non viene invece mai
messo in discussione il contenuto di tale tema – vale a dire
l’Australia.
“(…) qui per la prima volta ho mangiato carne di canguro,
anche se senza saperlo! (…) Sì, erano degli «stuzzichini»
della casa a base di carne di canguro DOC australiano, o almeno
così dicevano… comunque non erano niente male. La scelta della
birra era discreta… comunque secondo me è un pub come tanti
altri… e’ arredato discretamente, ma l’Australia non la ricorda
poi molto. Però c’è una buona gestione e il personale è gentile,
alla fine. (…)” [6]
Ancora più precisamente, questo tipo di geografia raccolta
intorno al nome Australia, piuttosto che essere ingenuamente
vissuta come una possibile esperienza di differenza culturale
o di incontro con l’esotico, è al contrario pensata principalmente
rispetto alla sua funzione di tematizzazione del luogo: ma
proprio per questo, tale formazione spaziale viene infine
data per scontata, costruendosi proprio come nel caso dell’Oriente,
attraverso la mescolanza di misure enormi e indiscriminate
insieme ad una minuta capacità di suddivisione e di dettaglio.
In questo modo, tale geografia compone al suo interno l’idea
degli spazi aperti e incontaminati ricercati nella scenografia
dell’arredamento o nelle immagini cui facilmente rimanda la
carne di canguro insieme alle minuzie più specifiche suscitate
dall’incontro con il personale e con la sua estetica fino
alle immagini di salute e atleticità veicolate dallo sport
e dalla birra.
“(…) Un po’ spoglio, è il primo commento che mi è venuto in
mente, la prima volta. Pochi o quasi nessun oggetto alle pareti,
nessun elemento decorativo o di arredamento che lo possa qualificare
come Australian Pub. Va bene che servono la Foster’s, che
è australiana, e hanno carne di canguro, ma mi sembra un po’
pochino per poterlo chiamare Australian Pub. (…)”
“(...) all’australiano la cosa è diversa perché il modo in
cui è costruito il posto.. cioè no, non costruito, come si
dice.. allestito, addobbato.. è roba che in giro non vedi..
è roba con cui non sei pratico… perché se ci pensi: tu non
lo hai mai visto un australiano.. magari sì in televisione,
al cinema.. che so quel film, quello con Patrick Swaize Point
break, alla fine non era ambientato in Australia… la storia
dell’ultima onda, quella non era in Australia?”
Quello che si può ricavare, intanto, da questo tipo di descrizioni,
è la considerazione, peraltro non così sconvolgente, che al
di là del giudizio positivo o negativo rispetto alla (riuscita
della) tematizzazione del pub, sembra essere molto chiaro
ai soggetti intervistati la natura di tema, appunto, con il
quale ci si confronta entrando in questi luoghi. A parte alcune
rare eccezioni, insomma, il dato che sembra emergere e’ piuttosto
il tipo di contrapposizione tra la consapevolezza di essere
dentro ad un mondo fittizio, ricostruito per l’occasione (un
mondo a tema, appunto), da una parte, e la nozione apparentemente
comune e sistematicamente utilizzata di spazio australiano.
Benchè quasi nessuno degli intervistati sarebbe così ingenuo
da sostenere di aver vissuto all’interno del mondo australiano
per una sera, o di aver trovato nella carne di canguro o nella
birra una porzione di un mondo sconosciuto, sembra altrettanto
corretto descrivere queste esperienze come sostenute da una
immaginazione comune della geografia australiana. Di qui,
quindi, scaturisce la domanda a proposito delle modalità con
cui si stipula tale “interseting reletionship between knowledge
and geography” (Said 1978: 53). Ossia, in che modo il cibo
possa essere veicolo di sapere geografico.
Allo stesso modo, dunque, sembra costruirsi all’interno di
questi luoghi, nel corso di queste esperienze impiantate intorno
all’incontro con il cibo, una certa geografia immaginata.
Quest’ultima viene poi articolata certamente attraverso quel
processo di separazione tra uno spazio “nostro” rispetto ad
uno “altro” ben descritto dalla tradizione strutturalista
(Levi-Strauss 1994) e in particolare veicolato certamente
in questo caso dalla carne di canguro; ma in maniera altrettanto
rilevante, tale spazio viene ricostruito anche emotivamente
dai suoi frequentatori attraverso un processo di continua
reinvenzione, attraverso il quale le distanze tracciate secondo
il meccanismo descritto appena sopra vengono convertite in
significati familiari (de Certeau 2001).
“(…) originale il panino con il canguro, anche se il suo sapore
si avvicina molto a quello dei sofficini... comunque le birre
sono buone e sempre riempite fino al bordo, senza lasciare
tre dita di schiuma come fanno in certi locali (...)”
“(...) Per me e’ veramente una specie di seconda casa, rigorosamente
un boccale di birra, una partita in TV, con bolgia da stadio
annessa, e d’estate si puo’ anche andare tutti fuori sul marciapiede
a bere e fumare (...)”
“(...) a me sinceramente piace perche’ trovi tutte le birre
che vuoi, i prezzi non sono esagerati e la frequentazione
e’ varia, liceali, universitari, over 30 e gente che va e
fissa gli schermi... mah... Comunque, ci si puo’ andare tranquillamente
per una ‘tazzata’ tra amici, soprattutto se si abita da quelle
parti... (...)”
Da questa lettura, allora, possiamo vedere come un approccio
non dicotomico all’analisi del cibo (Ashley et al 2004) permetta
di descrivere la costruzione di queste geografie immaginate
in quanto queste vengono continuamente rinforzate in una loro
definizione, rimarcando ogni volta la delimitazione di certi
confini (Said 1978: 55).
In conclusione, quindi, per rispondere alla domanda da cui
siamo partiti per quest’analisi, ovvero a quali condizioni
possiamo pensare che si costruisca una certa rappresentazione
dell’identità culturale australiana attraverso la presentazione
di cibo e le bevande all’interno dei pubs a tema – sembra
che questa dimensione di geografia immaginata emerga con nitidezza
dai racconti dei esaminati, in particolare, volendo riassumere,
in due tratti. Intanto, nella sua mescolanza tra una vaghezza
indistinta e relativa tanto a misure gargantuesche quanto
a dettagli minuti e anodini; in secondo luogo, nella sua ambivalenza
che tiene insieme una consapevolezza per la dimensione fittizia
di tale geografia insieme ad una sua materializzazione e indiscutibilità
della nozione di spazio australiano.
In ultima analisi, pertanto, con riferimento al campo indagato
da questi racconti, si tratta specificamente di un racconto
italiano della geografia australiana, raccolto o costruito
(pensando) attraverso il cibo. In questo senso, se nel discorso
originale di Said è l’Europa che “articola” l’Oriente, in
questo caso si può dire che sia l’Italia, ovvero un certo
patrimonio di routine e abitudini legate alla frequentazione
dei locali pubblici e dei ristoranti – in altri termini una
certo set di pratiche di incorporazione di cibo – ad articolare
l’Australia, descrivendo così i confini peculiari della sua
rappresentazione. Unendo, attraverso una peculiare attribuzione
di coerenza (Poggio 2004), in un’unica narrazione, la definizione
di geografia australiana secondo le coordinate offerte da
questi luoghi e successivamente negoziate nella loro apertura
interpretativa da parte del pubblico. Ancora, pertanto, per
ritornare alle prime pagine di questo saggio, è opportuno
ricordare come questa prospettiva che tenta di superare alcune
visioni dicotomiche, sfocia in un’analisi dei rapporti di
potere che vengono articolati, appunto, tra produttori e consumatori,
nella stipulazione di un certo dato per scontato, di un certo
senso comune veicolato dal cibo (Ashley et al 2004).
Partendo da questa considerazione di geografia immaginata,
allora, possiamo pensare a questi luoghi come alcune delle
lenti attraverso le quali l’Italia vede l’Australia, e cioè
a luoghi che contribuiscono a creare un linguaggio, una percezione
e, infine, ma in questo senso preciso, una modalità di incontro
tra l’Italia e Australia. In questo senso, allora, per introdurre
e tentare di risolvere la seconda domanda posta all’inizio,
relativa agli effetti di tale rappresentazione dell’identità
culturale, possiamo chiederci in che modo e cosa dia alla
pluralità e varietà in cui accadono questi incontri una certa,
particolare, unità attorno alla quale si costruisce quell’idea
comune di geografia.
Uno sguardo ai racconti analizzati permette di isolare due
elementi, in particolare, che sembrano a questo punto dare
concretezza a quell’idea di “geografia immaginata” come modalità
di rappresentazione dell’identità culturale. In primo luogo,
quando ci si riferisce a questa area geografica, la si costruisce
sempre a partire da uno spazio conchiuso: vale a dire che
tale idea di rappresentazione è di tipo drammaturgico, in
ultima analisi, come avviene spesso nel caso della definizione
dell’identità on-line (Boni 2004). L’Australia come geografia
immaginata viene prodotta all’interno del luogo che la propone,
il quale si pone come una sorta di palcoscenico (vicino e
familiare) in cui il racconto di ciò che è lontano e sconosciuto
può avere luogo. In questo senso, in tale palcoscenico si
muovono figure – non ultima, naturalmente quella del cibo
– il cui ruolo è rappresentare il più ampio complesso del
quale invece esse sono presentate come originarie. In questo
modo, questa delimitazione e gerarchizzazione spaziale materializzata
in maniera eclatante dal cibo, l’Australia diventa qualcosa
di maneggiabile ed esperibile come lontano, ma secondo logiche
familiari e consuete.
“(…) Dopotutto, non e’ male, voglio dire, nulla di sconvolgente,
insomma a meno che non passiate proprio di lì non lo consiglierei,
però: la birra e’ buona, si mangia discretamente e qualcosa
di divertente, e comunque i prezzi sono ragionevoli. Ecco,
forse lo consiglieri giusto per vedersi una partita la domenica
sera o ber una «birretta» con qualche amico, in tranquillità
(...)”
In questo senso, perciò, come si vede, l’atmosfera del pub
in quanto luogo di ritrovo di un pubblico prevalentemente
giovane e articolato secondo determinate abitudini di frequentazione
(come ogni altro luogo di consumo), gioca un ruolo decisivo
nella definizione empirica di questa geografia immaginata.
Da questo punto di vista non è irrilevante considerare dunque
il ruolo peculiare che questa istituzione è venuta a giocare
nel panorama dell’eating out italiano, rispetto ad altri contesti
occidentali [7].
Un secondo elemento che aiuta a definire gli effetti di questo
tipo di rappresentazione, è centrato più direttamente sul
ruolo giocato dalle pratiche di consumo all’interno di questi
luoghi, poiché, insieme alle coordinate predisposte dai locali,
certamente l’audience è altrettanto responsabile nella costruzione
di tale immaginazione quanto coloro che la mettono in scena
tecnicamente. Questo significa, quindi, che se possiamo considerare
queste attività del tempo libero come encounters in cui vengono
create certe rappresentazioni dello spazio (Crouch 1999),
le pratiche di incorporazione di cibo parteciperanno alla
definizione di tale geografia immaginata, finendo per contribuire
a produrre l’oggetto stesso del loro divertimento. In questo
senso, allora, si possono leggere le valutazioni che si concentrano
sull’atmosfera creata in una certa sera e sulle emozioni suscitate
dal locale durante serate passate in compagnia con amici.
“(…) facciamo un riassunto, prendiamo le classiche cose che
devono esserci in un pub come quello: l’ambiente è carino
e ampio ma non ci trovo molto di australiano; la gente viene
qui per un motivo solo: la birra, perchè lì dentro la puoi
assaporare in piedi, seduto sugli sgabelli o dovunque, senza
problemi e c’è sempre una buona scelta; la musica non è troppo
alta; le cameriere, alcune, meritano davvero; forse solo i
prezzi, ecco, sono un pò più alti del normale (...)”
4. Conclusioni. Kitchen Confidential, ovvero come
raccontare la normalità del cibo
A conclusione di questo breve excursus all’interno degli “Aussie
pubs”, dunque, possiamo concludere che in questi particolari
palcoscenici rappresentati da tali luoghi di consumo vengono
impartiti determinati insegnamenti – una disciplina, nel senso
foucaultiano (1993) – tramite il lavoro dei quali la “verità”
– rimessa poi in discussione nel palcoscenico virtuale rappresentato
dal mondo del web – è da intendere come fedeltà del tema “australiano”
ad un referente empirico (geografico) situato a migliaia di
chilometri di distanza. In questo senso, questo lavoro di
autenticazione diviene, de facto, una funzione del lavoro
di valutazione – ossia di classificazione dello spazio. In
questo modo, si è dunque visto come divenga del tutto irrilevante
il referente geografico empirico rispetto alla valutazione
della autenticità del pub. Piuttosto, sempre di più, tale
verità, ossia la presunta autenticità del luogo, sembra dipendere
dalla solidità, ossia legittimità, dell’immaginazione geografica
che la sostiene.
Il punto non è quindi tanto che si verifichi questo processo
di traduzione dalla molteplicità storica, politica, economica
e sociale di un universo culturale in un blocco o insieme
di conoscenze esperibile da un altro universo culturale. Il
punto, piuttosto, è che tale processo è “disciplinato” come
afferma ancora Said richiamando la teoria foucaultiana (1993):
o, in altri termini più vicini all’impostazione seguita fin
qui, possiamo vedervi all’opera specifici rapporti di potere
per i quali tale immaginazione viene insegnata sempre in certi
modi, dispone di tempi e luoghi legittimati, di un vocabolario
e una retorica, articolata quindi tra gruppi sociali che la
propongono (secondo una certa filosofia più o meno standard
di presentazione del pub) e che la consumano (secondo pratiche
di incorporazione del cibo più o meno differenziate). La geografia
immaginata dell’Australia, materializzata in modo esemplare
dal cibo, legittima dunque un determinato vocabolario: in
particolare, un peculiare universo discorsivo tramite il quale
viene reso indiscusso e, per questa via, compreso – in una
parola, incorporato – lo spazio australiano all’interno del
sistema alimentare dell’eating out italiano.
Infine, come conseguenza di tale visione di questo tipo di
esperienze contemporanee, e seguendo l’approccio sostenuto
fino a questo punto per l’analisi del cibo (Ashley et al 2004),
possiamo concludere che proprio queste operazioni (ambivalenti)
di normalizzazione, ossia la procedura automatica con cui
vengono nominati certi luoghi attraverso l’incontro con certi
cibi, saranno quindi il risultato di specifiche certe “geometrie
di potere” (Massey 1993). Come si diceva più sopra, questo
significa, intanto, che non vi è assolutamente niente di controverso
o riprovevole in quell’operazione di conversione che traduce
una certa forma espressiva non comune in un linguaggio comprensibile
ad un determinato pubblico. Detto in altri termini, non è
utile guardare ad una eventuale corrispondenza mancata tra
quel linguaggio utilizzato per descrivere e raccontare l’Australia
attraverso certi cibi e l’Australia in se stessa. Questo,
come si intuisce, non sarà utile non tanto perché tale linguaggio
sia impreciso o poco fedele, quanto perché non vuole nemmeno
provare ad essere tale. Quello che prova a fare, piuttosto,
come si è visto dall’analisi dei racconti degli intervistati,
è piuttosto caratterizzare l’Australia come lontana e aliena,
incorporandola schematicamente su di un palcoscenico – in
questo caso il pub – del quale pubblico e direttori e attori
recitano per l’Italia e solo per lei, costruendo insieme una
particolare geografia immaginata.
In ultimo, dunque, questi racconti a proposito della costruzione
di un’identità alimentare contemporanea evidenziano la procedura
ordinaria di deterritorializzazione attraverso la quale operano
queste agenzie di comunicazione (Tomlinson 1999), per cui
si genera, rispetto ad un oggetto come il cibo (e le bevande)
australiane, una sorta di ambivalenza per la quale ci si sente
a casa in questi luoghi pur riconoscendoli come estranei.
Si tratta, infatti, di un’esperienza che viene vissuta e assimilata
rapidamente nella pratica della vita quotidiana, più che come
una deviazione traumatica dal modo in cui l’esperienza dovrebbe
essere (1999). Ossia, se da una parte vi è l’opera deterritorializzante
del mercato che sradica la consueta connessione tra certi
cibi e certi luoghi, dall’altra parte è altrettanto cruciale
l’opera sistematica e, se si vuole, banale, tramite cui una
certa comunità, attraverso la stipulazione di un corpo di
tradizioni, viene costantemente ripetuta e inventata.
Questi incontri con il cibo e le loro valutazioni e narrazioni,
danno luogo, in senso stretto, ad una certa geografia, in
modo che non rappresentano tanto un modo per ricevere nuove
informazioni, quanto piuttosto un modo di controllo, un modo
di controllare, cioè, ciò che sembra essere una minaccia ad
un modo prestabilito, abituale, di vedere e pensare le cose.
Così, tale modalità di costruzione di una geografia immaginata
viene ripetuta sistematicamente attraverso questi luoghi legittimati,
secondo le retoriche esaminate nelle pagine precedenti, in
modo che, ogni volta che questa viene ripetuta, ogni volta
che viene pronunciata – come abbiamo visto accadere tipicamente
nel caso dell’universo on-line – e sa diventa più solida,
contribuendo a quella capacità di materializzare certe immaginazioni
da parte del cibo ipotizzata all’inizio. È così, pertanto,
che, infine, coloro che la ripetono ottengono “ a little more
authority in having declared it.” (Said 1978: 72). Pertanto,
trattandosi di un vissuto normalizzato attraverso il consumo,
perciò, possiamo leggerlo, per tornare al proposito iniziale
di una certa lettura del cibo all’interno della tradizione
dei cultural studies, secondo il meccanismo di potere egemonico
(ossia di una sua articolazione tra diversi soggetti), in
cui questo non è tanto repressivo quanto invece produttivo
– produttivo, come si è visto in questo caso, di identità
geografica, e di qui, secondo le modalità descritte, di appartenenza
culturale. Nondimeno, tale identità non potrà che essere prodotta
con un particolare linguaggio molto più che con altri. In
modo che, infine, verrà creato un certo tipo di identità più
di altre, in diversi contesti.
NOTE
1] Nel senso, in questo caso,
di una definizione dei confini simbolici tramite i quali viene
pensata tale località.
2] Si ricorda solo a margine,
come Pierre Bourdieu nella sua teoria dell’habitus come generatore
di classificazioni che, in quanto tali, classificano a loro
volta i soggetti, abbia discusso a lungo i rapporti tra la
costruzione di una certa doxa e le relazioni di potere veicolate
tramite la stipulazione di tale senso comune (1990).
3] La citazione si riferisce,
naturalmente, al classico lavoro di Edward Said, Orientalism
(1978: 50).
4] Tra gli altri, il lavoro
di John May (1996) sembra interessante: da una parte, mostra
direttamente l’efficacia di questo tipo di interpretazione,
sottolineando come attraverso il cibo sia possibile verificare
l’importanza pratica di queste immaginazioni geografiche,
nel momento in cui queste, attraverso il consumo, permettono
la riproduzione di certi stereotipi culturali relativi all’Altro.
D’altra parte, però, rimanendo sempre sulla scia delle letture
tradizionali di questo tipo di fenomeno, anche questa resta
ancorata all’idea di una riproduzione di certe posizioni di
classe a cui sono in definitiva affidate le spiegazioni della
costruzione di tali geografie con le loro relative disuguaglianze.
5] La sottolineatura di questa
necessità di un’attenzione più stretta rispetto al discorso
di Said si basa innanzitutto sulla considerazione che, di
fatto, il cibo non rientra tra le rappresentazioni geografiche
discusse da Said: di qui un necessario rigore nel voler sovrapporre
le due analisi.
6] I seguenti estratti, laddove
non indicato diversamente, sono ricavati dal Forum relativo
al Kirribilly Pub, uno dei più noti Aussie Pub milanesi.
7] Per una ricognizione comparativa
rispetto alla storia di questi luoghi di consumo in diversi
paesi europei si rimanda al lavoro di Schollier e Jacobs (2003).
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