Communauté et relations sociales
Nicola Cavalli - Oscar Ricci - Elisabetta Risi (sous la direction de)
M@gm@ vol.4 n.1 Janvier-Mars 2006
COMUNITÀ E INNOVAZIONE: LA DIMENSIONE SIMBOLICA
Nicola Cavalli
nicola.cavalli@unimib.it
Dottorato di ricerca Qua_si,
Università di Milano Bicocca; Laureato in Editoria Multimediale
presso il Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione della
facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino;
tutor nel Master in New Economy e WebMarketing anno 2002 a
cura dell'Istituto Europeo di Design di Torino; collabora
con diversi siti Internet in qualità di redattore (Alice,
Pronto e Sportal fra i principali) e ha partecipato all'ideazione,
al lancio ed alla gestione del sito internet LibriShop.it;
recentemente ha pubblicato un contributo alla prima conferenza
telematica sull'e-book, promossa da Italianisticaonline in
collaborazione con 365 giorni in fiera, il sito ufficiale
della fiera del libro di Torino; attualmente è responsabile
vendite e marketing della Libreria Ledi - International Bookseller,
libreria commissionaria milanese.
Nella
stampa popolare e nel senso comune i termini innovazione e
invenzione vengono spesso utilizzati in modo intercambiabile.
Il prefisso comune “in” conferisce una certa somiglianza semantica,
che si può cogliere abbastanza facilmente e che viene spesso
estesa a tutto il termine. E’ però utile notare come le radici
dei due termini siano chiaramente distinte. Nel termine innovazione
troviamo la radice latina “novus”, mentre in invenzione quella,
sempre latina, “venire”.
È quindi evidente come nel termine innovazione si possa ritrovare
il significato della novità, mentre in quello di invenzione
sia dominante il significato della scoperta. È a mio parere
necessario evidenziare questa differenza.
L’invenzione arriva normalmente prima dell’innovazione, anche
se è possibile porre dei casi di innovazione che non siano
preceduti da vere e proprie invenzioni. È altresì vero che
si possono dare casi di invenzioni che non risultino in innovazioni.
Andiamo a vedere perché.
Le pratiche innovative richiedono attenzione alle altre persone,
a quello che pensano, a come si comportano, a come si relazionano
con gli altri attori pertinenti. Le invenzioni richiedono
principalmente attenzione agli aspetti tecnici e tecnologici.
È utile e divertente, a questo proposito, riportare un’intervista
[1] a Bob Metcalfe, inventore dell’Ethernet,
che all’esclamazione del suo interlocutore: “Wow, it was the
invention of the Ethernet that enabled you to buy your house
in Boston’s Back Bay!” rispose: “No, I was able to afford
that house because I sold Ethernets for 10 years!”. La differenza
fra innovazione e invenzione, allora, risiede proprio nel
constatare come la prima sia primariamente un fatto sociale,
mentre la seconda rimanga primariamente un fatto tecnico.
Gli studi sui processi di innovazione sono diventati molto
popolari in particolare grazie agli apporti da parte di studiosi
provenienti dalle discipline economiche. Se andiamo ad esaminare
un testo ormai classico della cosiddetta Economia dell’Innovazione,
“Innovation and Entrepreneurship” di Peter Drucker, notiamo
come, nell’analisi delle componenti del processo di innovazione,
gli aspetti sociali siano presenti ed influenti.
Isolando infatti i cinque elementi principali:
- Searching for an opportunity (trovare un’esigenza insoddisfatta);
- Analisys (sviluppare un business plan, analizzare i costi…);
- Listening (ascoltare i potenziali utenti e capire i loro
bisogni);
- Focus (definire esattamente l’idea);
- Leadership (mobilitare le persone e “creare” un mercato
per la propria idea).
Risulta evidente che, in particolar modo nei passi di listening
e leadership, siano centrali le competenze di tipo comunicativo.
La dimensione sociale e comunicativa viene quindi a presentarsi
come uno dei cardini dei processi di innovazione. Uno dei
possibili indici di questo fenomeno si può ritrovare nell’alta
frequenza di riferimenti a tali dimensioni in letterature
come quella economica o quella informatica dove solitamente
tali accenni sono ridotti.
A che teorie rivolgersi per rendere conto di questi aspetti?
Che lenti è necessario indossare per discernere le pratiche
sociali e comunicative indispensabili affinché un’invenzione
divenga un’innovazione, e perché, come è solito dire, un’innovazione
abbia successo?
Credo che un’impostazione di tipo sociocostruttivista possa
essere in qualche modo utile. Non voglio qui entrare nel merito
della discussione sulla validità generale dell’approccio sociocostruttivista
ed in particolare della teoria Actor-Network, di cui molti
autorevoli studiosi [2] hanno dubitato, ma
credo che alcuni concetti possano risultare utili.
Penso in particolare alla “sociologia della traduzione”, così
come viene proposta da Michel Callon [3].
Gli elementi principali del processo di traduzione, che ha
come fine ultimo quello di proporre la propria definizione
della situazione, e quindi, riprendendo il lessico druckeriano,
quello di creare una situazione di leadership, evidenziano
chiaramente come si tratti di un processo in buona parte di
tipo simbolico, svolto attraverso competenze linguistiche
e relazionali.
Il primo passo, la problematizzazione, è chiaramente un’azione
di tipo retorico che mira a posizionare gli attori in una
situazione tale per cui l’intervento del soggetto propositore
diviene indispensabile; il secondo, interessement (inter-esse),
evidenzia delle azioni di tipo relazionale volte a stabilizzare
le identità e le posizioni già determinate retoricamente;
il terzo, enrolment, è la logica conseguenza del secondo e
ne va a rafforzare l’azione; il quarto e ultimo, la mobilizzazione,
evidenzia come attraverso un’azione di tipo retorico e comunicativo
si ottengano dei risultati sul piano relazionale e sociale.
Nella teoria di Callon il processo di traduzione viene ad
essere il meccanismo attraverso il quale: “the social and
natural worlds progressively take form” [4].
Il processo di traduzione viene compiuto attraverso delle
associazioni di tipo eterogeneo fra, per fare un esempio classico,
attori e oggetti tecnologici. L’associazione, che poi caratterizza
in modo forte la teoria, fra oggetti animati ed inanimati,
in questo caso interessa poco. Ciò che è più rilevante è il
processo di “heteregeneous symbolic engineering” [5],
ossia quel processo che mira a stabilire associazioni eterogenee
fra i simboli e i significati che vengono socialmente attribuiti
ed i gruppi sociali. Si può anche affermare che questo processo
mira a creare delle scatole nere a livello retorico. È stato
dimostrato, in primis da Latour, ma anche da buona parte della
sociologia della scienza, che il processo di creazione delle
scatole nere (black-boxing) è indispensabile alla chiusura
delle controversie scientifiche ed all’avanzamento della conoscenza
scientifica e tecnologica. Una parte fondamentale di questo
processo è svolto a livello retorico, per cui si viene a parlare
di “discursive black boxes” come il punto terminale di un
processo di creazione di simboli, volti a dare valore, significato
e ruolo agli oggetti tecnologici che aspirano a diventare
innovazioni.
In altri termini possiamo affermare che il discursive black
boxing è un processo che favorisce l’intersoggettività, intesa
come la creazione di un terreno di valori, credenze ed atteggiamenti
comuni su cui basare l’interazione. Le scatole nere retoriche,
quindi, sono dei punti di partenza da cui può scaturire il
processo di accettazione sociale di un’invenzione tecnologica,
che ne permette la trasformazione in una vera e propria innovazione.
Al di là di un’analisi e di una critica dettagliata della
teoria, ciò che ora maggiormente interessa è trovare un insieme
di concetti che possano essere operazionalizzati in modo tale
da essere in grado di rendere conto delle dimensioni sociali
e comunicativi nei processi di innovazione tecnologica.
Il concetto di “comunità discorsiva” può essere utilizzato
a questo scopo.
Questo concetto è stato inizialmente proposto in ambito retorico
ma credo possa essere di utilità anche al fine di offrire
la possibilità di evidenziare le dimensioni comunicative e
simboliche dei processi di innovazione, grazie all’utilizzo
del concetto di comunità.
Swales [6], pur riconoscendo come la definizione
sia problematica e spesso circolare, ha proposto alcuni criteri
utili per identificare una comunità discorsiva. Perché si
possa riconoscere una comunità discorsiva è necessario che
almeno alcuni dei tratti proposti qui sotto si presentino
congiuntamente:
- Dimostra un accordo di massima su un’insieme di obiettivi
comuni;
- Ha meccanismi di intercomunicazione fra i membri;
- Utilizza i meccanismo partecipatori per offrire informazioni
e feedback;
- Utilizza generi comunicativi riconoscibili;
- Possiede un lessico definito e specifico;
- I membri si riconoscono anche in base alle proprie competenze
relazionali e linguistiche.
Alcuni di questi tratti, come il punto relativo al lessico
ed ai generi comunicativi, sono riscontrabili con un’analisi
di tipo linguistico, mentre le altre sono rintracciabili partendo
da un punto di vista sociologico.
Perché il processo di innovazione abbia successo è necessario
che si possa riconoscere la presenza, la nascita o il mutamento
di comunità discorsive. Ogni oggetto tecnologico di nuova
introduzione dovrà far riferimento ai simboli ed alla struttura
di comunità discorsive esistenti, per poter trovare lo spazio
in cui creare le condizioni necessarie allo sviluppo di significati
stabili e di caratteristiche che rispondano alle esigenze
di quelle date comunità. L’introduzione, poi, di questo oggetto
tecnologico potrà essere considerato un fattore di mutamento
delle pratiche sociali.
In questo senso l’utilizzo del concetto di comunità discorsiva
può essere utile per analizzare le dinamiche del cambiamento
socio-tecnologico, in quanto la circolazione dei simboli e
l’aspetto comunicativo sono di primaria importanza nei processi
di innovazione sociale.
Un caso di innovazione tecnologica (ancora) non compiuto
Tutti abbiamo sentito parlare di libri elettronici: avrebbero
dovuto uccidere il libro cartaceo, poi sono stati dichiarati
morti, e ora sembrano risorti sotto altre spoglie. Se andiamo
a leggere alcuni articoli della stampa di larga diffusione
possiamo notare come ottimismo e pessimismo si susseguono
a cicli quasi regolari. Ovviamente questo riscontro non ci
sorprende, perché sappiamo bene che la stampa popolare è solita
estremizzare le proprie affermazioni per cercare di ottenere
l’attenzione del lettore. Ci sorprende però che questo oggetto
tecnologico sia ancora, potremmo dire, a rischio di vita:
molti altri oggetti sono morti definitivamente in tempi assai
più ristretti o hanno spiccato il volo verso un vita, più
o meno lunga e felice, ma almeno “sopra la soglia”.
Possiamo dire, intuitivamente, che ci troviamo di fronte ad
un’innovazione che non trova il suo spazio nella società e
che stenta ad affermarsi.
In realtà, se andiamo ad osservare la mole di letteratura
scientifica e non, che ruota intorno a questo termine, ci
stupisce la sua vastità, che potrebbe rappresentare un indice
della sua buona salute. Se però andiamo ad analizzarla nel
merito notiamo con facilità una caratteristica predominante.
Gli articoli e le pubblicazioni di un certo periodo (fine
anni ’90 – inizio secolo) si caratterizzano in buona misura
per il proprio incipit: il paragrafo “definizione di ebook”,
“cos’è un libro elettronico” o “ebook: una proposta di definizione”
è sempre presente e, aspetto ancora più sorprendente, fornisce
quasi sempre una prospettiva diversa dalle altre. Nei lavori
dei primi anni del duemila notiamo una leggera variazione
stilistica: più che proporre proprie definizioni gli autori
iniziano col dire che non c’è accordo sulle diverse definizioni
[7], riscontrando sicuramente un fatto reale. Arriviamo
quindi al cuore del problema, affrontato in un documento [8]
“The problem of defining electronic books”, che vuole affrontare
esplicitamente il problema della definizione di libro elettronico.
Alla luce di quanto detto in precedenza mi sembra di poter
affermare che il problema non risieda nell’astratta ricerca
accademica di una definizione che renda conto di tutte quelle
precedentemente proposte o di tutte le caratteristiche possibili
riconducili ai libri elettronici, quanto piuttosto nella constatazione
che nessuna definizione si sia ancora stabilizzata.
Dall’analisi della letteratura sembrano quindi emergere diverse
definizioni dell’ebook con caratteristiche tecniche e valenze
sociali alquanto differenziate. I significati ed i simboli
che vengono associati a questo oggetto tecnologico non sono
ancora stati stabilizzati, riconosciuti, accettati e condivisi.
Analizzando i risultati di una ricerca commissionata dall’associazione
degli editori inglesi [9] notiamo come l’incertezza
e le opinioni contrastanti rispetto all’emergente sistema
dell’editoria elettronica siano ancora dominanti. Da un’analisi
fattoriale degli atteggiamenti verso la pubblicazione elettronica
di riviste gratuite emerge infatti come non ci sia accordo
su cosa debba offrire questo tipo di pubblicazione e quali
siano gli scenari evolutivi. La ricerca enuclea tre gruppi
principali di attori pertinenti: gli opportunisti (che hanno
atteggiamenti negativi verso il sistema ma che lo utilizzano),
gli utopisti (gli editori offriranno servizi migliori, la
qualità degli articoli pubblicati migliorerà, le biblioteche
avranno più soldi da spendere…) ed i pessimisti (la rivista
cartacea morirà, la qualità scenderà…). L’unico punto sul
quale i diversi gruppi sembrano trovare un accordo è sulla
gratuità del sistema per tutti gli attori pertinenti, siano
essi autori, lettori o biblioteche: risulta evidente come
non sia possibile che il punto di coerenza retorica, la “scatola
nera discorsiva” su cui trovare il punto di contatto simbolico
e su cui fondare lo sviluppo del sistema, si basi su una evidente
contraddizione dal punto di vista economico.
Da una prima serie di interviste esplorative in profondità
da me condotte in vista della stesura di un disegno di ricerca
empirico, volto a rendere conto delle diverse percezioni e
aspettative intorno al sistema editoriale digitale, sembra
effettivamente risultare che vi siano diversi nuclei possibili
di significati condivisi (in termini sociocostruttivisti verrebbero
chiamati “sotto-artefatti”), ancora in contrasto fra di loro
e probabilmente correlati all’appartenenza a diversi gruppi
sociali identificati sulla base dell’occupazione professionale
[10] . Oltre alle prevedibili diversità
di opinione sull’utilità e sulle caratteristiche stesse delle
tecnologie di comunicazione digitale ed alle differenti aspettative
sul loro possibile utilizzo da parte di gruppi sociali differenti
e con interessi anche contrapposti come autori ed editori,
sembra però emergere una mancanza di accordo anche all’interno
di queglii stessi gruppi identificati in base all’occupazione
professionale. Esistono infatti autori molto preoccupati delle
problematiche relative alla protezione del diritto d’autore,
mentre altri non lo sono per nulla e sono maggiormente interessati
ad ottimizzare il tasso di diffusione del proprio lavoro.
Pur potendo ricondurre questa discordanza di opinioni ad un
sottogruppo occupazionale, da una parte gli autori di romanzi
e letteratura, dall’altra gli autori accademici di saggistica,
è pur vero che ritroviamo la stessa discrepanza, sia pure
in misura minore, anche restringendo il nostro campione ai
soli autori accademici, come emerge dall’analisi del rapporto
sopraccitato [11].
Sembra quindi che la mancanza di accordo sulle caratteristiche
e le funzionalità delle tecnologie di editoria digitale sia
una delle possibili cause della mancata affermazione (per
il momento) dell’ebook, della sua essenza di tecnologia “vaporware”.
Credo sia utile indagare le percezioni riguardo le emergenti
tecnologie editoriali digitali e credo costituisca un’ipotesi
di ricerca plausibile il tentativo di individuazione di alcuni
cluster di percezioni condivise fra i diversi attori pertinenti,
al fine di poter proporre dei possibili scenari evolutivi
sia dell’artefatto tecnologico, denominato come “ebook”, sia
nel complesso dell’ emergente sistema dell’editoria digitale.
Il concetto di comunità discorsiva, con le sue relative operazionalizzazioni
sopra evidenziate, può rappresentare il punto di partenza
per cogliere la dimensione simbolica e comunicativa dei processi
sociali di cambiamento e di accettazione dei diversi artefatti
tecnologici, momenti cruciali per arrivare all’innovazione
tecnologica ed alla comprensione del cambiamento sociale.
NOTE
1] Così come riportata da
P. Denning, ex presidente ACM, in “The Social Life of Innovation”
COMMUNICATIONS OF THE ACM April 2004/Vol. 47, No. 4.
2] Un buon resoconto si può
trovare in Yearley, Steven “Making sense of science : understanding
the social study of science” Sage 2005.
3] Mi riferisco qui in particolare
a Michel Callon "Some elements of a sociology of translation:
domestication of the scallops and the fishermen of St Brieuc
Bay" First published in J. Law, Power, action and belief:
a new sociology of knowledge? London, Routledge, 1986, pp.196-223.
4] Callon, Michel, ibid,
pag. 211.
5] Bazerman, C. "The Languages
of Edison Light“, Mit Press 1999.
6] Swales, J M "Genre Analysis"
, Cambridge: CUP 1990.
7] Un esempio può essere
Roncaglia, G. “Libri elettronici: problemi e prospettive”
Bollettino AIB 2001 n. 4 p. 409-439.
8] accessibile fra i documenti
del progetto EBONI (Electronic Ebook On Screen Interface)
a quest’indirizzo https://ebooks.strath.ac.uk/eboni/documents/definition.html,
a cura di Ruth Wilson.
9] Rowlands, I. Nicholas,
D. Huntingdon, P. “Scholarly communication in the digital
environment: what do authors want? Findings of an international
survey of author opinion: project report” London., Ciber,
18 March 2004.
10] Per una prima mappa
di tali significati rimando al mio “Systemic Approach to Digital
Publishing” in ELPUB2005. From Author to Reader: Challenges
for the Digital Content Chain: Proceedings of the 9th ICCC
International Conference on ElectronicPublishing held at Katholieke
Universiteit Leuven in Leuven-Heverlee(Belgium), 8-10 June
2005 / Edited by: Milena Dobreva & Jan Engelen, ed. by Peeters
Publishing Leuven, ISBN 90-429-1645-1, 2005.
11] Rowlands, I. Nicholas,
D. Huntingdon, P. “Scholarly communication in the digital
environment: what do authors want?” Learned Publishing, vol.
17 n.4/2004.
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in Academy of Management Review, Vol. 17 n.2 299-326.
Yearley, Steven (2005), Making sense of science : understanding
the social study of science, London, Sage.
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