Contributi su aree tematiche differenti
M@gm@ vol.3 n.4 Ottobre-Dicembre 2005
LA VOCE DEI SILENZI, LE PAROLE DEL DISAGIO, LA DIVERSITÀ DELLE DONNE: UNA RIFLESSIONE SU DONNE E CITTADINANZA MULTICULTURALE
Monica D'Argenzio
senegal@inwind.it
Antropologa
culturale, etnologa; laureata in Sociologia con indirizzo etno-antropologico;
Mediatrice culturale presso Ass. Senegalese di Napoli.
“Siamo indù
che hanno attraversato le acque nere; siamo musulmani che
mangiano la carne di maiale. E di conseguenza […] apparteniamo
almeno parzialmente all’Occidente. Abbiamo un’identità allo
stesso tempo plurale e parziale. A volte ci sembra di cavalcare
due culture; altre volte ci pare di cadere fra due sedie”
(S. Rushdie, Patrie immaginarie, 1990; pag. 20)
Accompagnavo spesso Kuna, donna senegalese di 30 anni e madre di
5 figli, al consultorio dalla pediatra per i controlli periodici
dell’ultimo nato [1]. La mia presenza
serviva da interprete e per badare alle restanti “pesti”, in modo
che lei potesse dedicarsi completamente alla visita. Mi colpiva
il comportamento della mia amica che, alla presenza della dottoressa,
lasciava il piccolo sul lettino e mettendosi da parte aspettava
immobile “senza muovere un dito”. Il mio stupore nasceva dal fatto
che, anche io madre, al suo posto non avrei mai permesso ad una
estranea di spogliare e vestire mio figlio con quei modi che, agli
occhi apprensivi e possessivi di una madre, appaiono sempre troppo
rozzi. Mi sarei limitata a fare in modo che quelle mani avessero
svolto il necessario compito medico, lasciando a me l’onere di gestire
testine e braccia così delicate. Kuna, al contrario, appariva tranquilla,
non faceva domande, non chiedeva peso ed altezza del figlio né se
la crescita stesse procedendo nella norma.
Le prime volte sono restata in silenzio pensando che non fosse mio
compito parlare se non quando mi veniva chiesto di tradurre. Del
resto mi turbava anche l’atteggiamento della pediatra che non dava
nessuna spiegazione né informazioni sul bambino, si limitava a riportare
i dati sulla scheda del piccolo paziente. In occasione di una delle
tante visite, ho deciso di rompere quel silenzio e stranamente ho
sentito un senso di forte disagio nel prendere la parola. Con grande
sorpresa mi sono resa conto che se il mio imbarazzo era legato al
fatto di fare domande al posto di altri, la dottoressa viveva la
condizione opposta quella, cioè, di non aspettare altro per poter
parlare. Era, insomma, imbarazzata di fronte ad una madre “altra”
e non sapeva come gestire il suo ruolo nei suoi confronti. Non che
abbia esplicitato apertamente questi suoi dubbi, ma dalle tante
cose che disse nel corso della visita, mi resi conto di ciò. Sul
momento considerai quella donna dal camice bianco un groviglio di
“ignoranza e falsità”, oggi riflettendo a distanza di tempo capisco
che si trattava di una “mala cultura”, di cattiva informazione e
soprattutto di un forte senso di disagio.
Sulla strada del ritorno chiesi spiegazioni a Kuna sul perché di
determinati suoi comportamenti. Confesso che non ero molto contenta
nel farlo perché credo che ogni donna debba vivere il suo essere
madre secondo il proprio percorso esistenziale e anche attraverso
dei codici culturali che inevitabilmente le appartengono. Ma volevo
capire il significato dei suoi silenzi e della sua apparente passività,
specie se la rapportavo al modo di essere in casa come donna energica
e molto attenta ai suoi piccoli. Poche parole sono bastate per rappresentarmi
il suo mondo, un universo femminile fatto di tradizione, insegnamenti
materni, esperienza diretta, e convinzioni su “noi-altri”. “Ho deciso
di raggiungere mio marito, qui in Italia, solo per i nostri figli,
per farli crescere diversamente. Qui è tutto buono, scuole buone,
ospedali buoni e dottori bravi. Ho visto morire molti miei fratelli
piccoli; le mie sorelle più grandi non riescono a fare bambini e
mia madre diceva sempre che non siamo fortunati. Quando dottoressa
vede mio bambino io che posso dire? Niente! È lei il dottore io
sono solo sua madre”. Mi sono sentita spiazzata…
Dal ricordo di questo breve episodio ho maturato una serie di riflessioni
su me stessa, sulla mia amica e su quella dottoressa che, in quel
momento, volente o nolente rappresentava agli occhi di entrambe
un’istituzione , vissuta, però, in maniera diversa. Mi sono sentita
una madre coinvolta, secondo la quale esiste un unico modo per gestire
i figli. Madre apprensiva e partecipativa, che avrebbe fatto domande,
avrebbe dialogato e che di fronte ad un’estranea avrebbe mostrato
la sua presenza, pronta a delimitare il proprio “territorio” di
appartenenza: il figlio. Kuna, al contrario, mostrava quella stessa
condizione di madre col silenzio, l’apparente inattività di chi,
rispettosa del ruolo altrui (donna, bianca e medico), lascia nelle
mani degli altri la cosa più preziosa che ha, consapevole e convinta
della fiducia riposta nella figura della dottoressa. Ma sicuramente
la persona che maggiormente ha suscitato la mia attenzione e anche
il mio ritegno è stata la pediatra. Svolgeva il suo compito in modo
meccanico, quasi infastidita e la prova di ciò l’ho avuta quando
le è stata data la possibilità di parlare. E’ venuta fuori una teoria
sulle madri immigrate assolutamente “illuminante” che qui risparmio.
Le aveva categorizzate tutte, per nazionalità o per colore e su
ognuna aveva ormai “imbastito” una spiegazione ai loro comportamenti.
Ma di fondo c’era un atteggiamento che le accomunava: secondo lei
facevano troppi figli!
Un aspetto che viene riconosciuto come proprio dell’indole femminile,
l’essere madre, non è poi questione così spicciola; non si fonda
su una presunta naturalità e quindi non ha caratteristiche universali.
Che fare? Per dirla con Martha Nussbaum ci sarebbe bisogno di “coltivare
l’umanità” (Nussbaum, 1999).
Col termine multiculturalismo ci si riferisce allo stato delle attuali
società occidentali dato dalla presenza simultanea di una pluralità
di gruppi differenti che fungono da base per l’identificazione,
il riconoscimento e l’orientamento dell’azione dei loro membri.
Così definito, multiculturalismo tende ad evidenziare gli effetti
dei processi di globalizzazione e della centralità assunta dall’informazione
che comportano una più frequente esperienza della differenza e tendono
ad indebolire lo stato-nazione tradizionalmente, nel mondo occidentale
moderno, fonte di identificazione, riconoscimento e solidarietà
tra i cittadini (Colombo, 2002).
Così scrive Gualtiero Harrison: “Multiculturalismo sta a designare
una nozione di coesistenza per entità distinte e separate, ma che
vengono ideologicamente connotate da uno statuto di riconoscimento:
la fantomatica identità etnica e culturale. E’ proprio il pluralismo
di realtà diverse, che repentinamente sono venute a convivere, ad
attribuire alle differenze un nuovo statuto per cui vengono assunte
contemporaneamente come “uguali” - nei termini del diritto alla
buona accoglienza e ad un trattamento equo e non discriminatorio
- ma per cui vengono anche assunte come “distinte” - per ciò che
attiene alla loro vita familiare, ai loro valori religiosi, ai loro
modelli sociali di comportamento” (Harrison, 2001, pp.61-62). Di
tale presenza, per quanto vista come momento di arricchimento e
di confronto fruttuoso, si sono sottolineati soprattutto gli aspetti
problematici che essa ha posto, non da ultimo quella della cittadinanza.
La questione cittadinanza e immigrazione sembra ricondurre ad un’altra,
quella che denota la posizione di un soggetto di fronte ad un determinato
Stato rispetto al quale o si è “cittadini” o si è “stranieri”.
Uno dei grossi paradossi contemporanei è che l’esclusione di alcuni
(che poi sono i “molti”) e del loro modo di vivere dal dominio del
sapere e del potere appare come una cosa naturale e non costruita
socialmente, mentre la richiesta di inclusione (benevolmente concessa
dai “pochi”) pare essere motivata da una finalità politica. A questo
problema fa in fondo riferimento il sociologo franco-algerino Sayad
quando scrive che “pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato
ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione” (Sayad,
1996, pp.8-16). Aspetto, questo, che è stato posto a lungo in secondo
piano a vantaggio di una immagine inclusiva ed espansiva della cittadinanza;
al contrario, oggi, si assiste all’ampia diffusione della categoria
di “esclusione” in riferimento sia alla posizione dei migranti nelle
società occidentali che come più generale strumento interpretativo
di sviluppi che sono ben lungi dall’essere limitati ai migranti.
La grande idea da cui è nata la democrazia - vera e propria “invenzione”
dell’Europa moderna – è quella dell’universalismo della cittadinanza,
basato sull’uguaglianza di tutti gli individui davanti alla legge
e sul riconoscimento della loro pari dignità in quanto caratterizzati
dai medesimi diritti/doveri, indipendentemente dalla provenienza,
dalle credenze, dal colore o dal genere. E’ nello scenario del mondo
moderno che per la prima volta nella storia si riconosce all’individuo
la titolarità di diritti innati e inalienabili - il primo dei quali
è quello della libertà - che lo Stato non solo non può calpestare
ma che, anzi, ha il dovere di proteggere. Tale diritto di libertà,
nel senso forte di capacità di auto determinarsi e di porsi come
fonte e fondamento delle leggi, apre un orizzonte nuovo e dà avvio
al progetto di trasformazione da “suddito” a “cittadino”, che trova
nella Rivoluzione francese uno dei suoi momenti più alti.
Una delle controversie aperte dal multiculturalismo riguarda proprio
la possibilità di far convivere i principi e le regole della tradizione
democratica liberale, legati all’universalismo, all’uguaglianza
e all’idea che solo l’individuo può essere titolare di diritti,
con le richieste di riconoscimento delle specificità e dell’appartenenza
legate al particolarismo. La promozione del pluralismo che caratterizza
le democrazie occidentali è un buon punto di partenza per pensare
una società multiculturale perché rappresenta un concreto tentativo
di favorire l’espressione della differenza all’interno di uno spazio
comune regolato. Si chiede Touraine, al riguardo, se si può vivere
insieme, liberi e diversi, ma non disuguali (Touraine, 2002). Per
l’autore questa è la sfida fondamentale a cui il mondo post-industriale
è chiamato a rispondere. L’unica soluzione percorribile è l’appartenenza
ad una comunità aperta agli scambi con l’altro. La democrazia si
nutre di diversità, si fonda sulla capacità di creare condizioni
idonee perché le differenze si incontrino e trovino stimolante confrontarsi,
discutere e, anche, scontrarsi. Una società in cui è presente una
molteplicità di valori e di punti di vista sulla realtà consente
una maggiore libertà di scelta e ampia le possibilità e le opportunità
per i singoli individui.
Lo stesso Geertz si chiede (rispondendo affermativamente) se un
certo tipo di liberalismo possa reggere questa sfida; un liberalismo
che riconosca le sue origini e i suoi caratteri culturali (sostanzialmente
occidentali) e che abbia fiducia nelle esperienze, ma che sappia
ascoltare e comprendere anche “chi è altro da noi”. Se questo meccanismo
dell’ascolto funzionerà, anche “noi” verremo ascoltati e si verrà
così a creare un’influenza reciproca tra le nostre esperienze e
quelle altrui, come richiederebbe un significativo confronto interculturale
basato sulla logica dello scambio e non dello scontro (Geertz, 1999,
pp.57-76).
E’ possibile cercare di conciliare riconoscimento della differenza
e patrimonio democratico attraverso forme di solidarietà e di fratellanza
compatibili con il diritto a vedersi riconosciuta la propria ineliminabile
unicità (Colombo, 2002, p.98). Ma è anche vero che per realizzare
un minimo di comunicazione e di relazione sociale è necessario riconoscere
l’esistenza di caratteri universali che accomunano. Senza il riconoscimento
di una base comune la convivenza tra differenze si riduce a indifferenza
reciproca e manca la possibilità di stabilire una relazione autentica
non limitata alla semplice tolleranza. Ed è sufficiente condividere
delle regole minime per mantenere le condizioni del dialogo e il
riconoscimento della specificità dell’altro; ciò che deve essere
riconosciuto come valore universale sono le regole non ciò che si
realizza quando le si utilizza.
Per trovare un terreno di solidarietà comune con chi è percepito
come diverso è necessario sottoporre a critica la propria condizione
in modo da superare una posizione etnocentrica; il primo passo per
riconoscere la differenza dell’altro consiste nel riconoscere di
essere a nostra volta differenti per l’altro. Del resto una società
effettivamente multiculturale non può limitarsi ad una passiva accettazione
delle differenze trattate come semplici equivalenti ma richiede
un effettivo riconoscimento della specificità e del valore della
differenza. La teoria postmoderna sottolinea come i processi sociali
contemporanei, che hanno portato la differenza ad assumere un ruolo
centrale nella definizione dell’identità, implichino una vera e
propria svolta epistemologica cioè un nuovo modo di guardare alla
realtà sociale, di comprenderla e di descriverla. La crisi della
modernità ha portato a quello che Lyotard ha definito come “la fine
delle grandi narrazioni” (Lyotard, 2001). Non c’è più una sola verità
conoscibile attraverso un metodo razionale universale, ma una serie
di verità locali, legate ai contesti in cui vengono rilevate e agli
attori che le pronunciano. Emerge, così, il carattere relativo e
situato di ogni conoscenza; per evitare che ciò porti ad un relativismo
radicale, la teoria postmoderna sottolinea l’importanza della relazione
e dei processi sociali di costruzione della realtà.
L’attenzione ai processi e alle relazioni permette di vedere la
differenza, la cultura e le identità non come essenze statiche e
chiuse ma come costruzioni fluide e aperte. Il multiculturalismo
non è semplice coabitazione tra comunità distinte e incapaci di
comunicare ma un campo di confronto e di scambio che supera le singole
culture per crearne di nuove ed ibride. Non esistono differenze,
identità o culture pure ma solo processi continui di confronto,
mutamento, mètissage (Amselle, 1999). L’immagine più utilizzata
per riferirsi al carattere processuale e ibrido di ogni differenza
è quella della diaspora. Questo termine introduce una dimensione
storica e diacronica sottolineando che le culture e le identità
si costruiscono nella mediazione, nello spostamento, nell’incontro
con l’alterità. E’ il problema che si potrebbe definire della doubleness
(Gilroy, 2003, p.870) “doppia coscienza” dei migranti, cittadini
della frontiera. Originariamente coniato da W.E.B. Du Bois, questo
concetto è stato ripreso da P. Gilroy in “The black Atlantic” per
indicare la particolare posizione dei blacks ad un tempo interna
ed esterna al grande calderone della modernità, così come scrive
E. Colombo: “[…] si nutrono di passato e di futuro, di memorie e
di utopie; sono il risultato di un continuo lavoro di bricolage,
che tiene assieme pezzi diversi trovati in luoghi diversi; sono
il risultato di un continuo sincretismo, un processo di conservazione
e di mutamento che aggiunge e ingloba elementi nuovi armonizzandoli
con i vecchi, senza necessariamente abbandonarli o ripudiarli” (Colombo,
2002, p.109).
La diaspora consente, così, di cogliere gli intricati networks che
si costruiscono a seguito di spostamenti pluridirezionali, i cui
fili tessono una ragnatela di trasformazioni cui è soggetta sia
la cultura di arrivo sia la cultura di partenza. Tale strumento
analitico permette di gettare lo sguardo oltre i confini dei contesti
locali e nazionali, ponendo la questione dell’identità e della cultura
in una prospettiva globale. Ed è per questo che non bisogna dimenticare
di includere la “cultura” nel paniere dei beni fondamentali a cui
lo Stato liberale deve garantire eque possibilità di accesso a tutti
i cittadini. L’accesso ad una cultura è un “bene primario”, cioè
un bene di cui le persone hanno bisogno a prescindere dal modo di
vivere che hanno scelto, in quanto costituisce il contesto entro
il quale effettuano le loro scelte. Gli individui, quindi, “dovrebbero
essere in grado di vivere e lavorare nella loro cultura” (Kymlicka,
1999, p.167). Non a caso il filosofo Kymlicka parla di cultura sociale,
“una cultura che conferisce ai propri membri modi di vivere dotati
di senso in un ampio spettro di attività umane, ivi compresa la
vita sociale, formativa, religiosa, ricreativa ed economica, nonché
la sfera pubblica come quella privata” (Kymlicka, 1999, p.134).
Quando gli immigrati arrivano portano con sé la loro lingua e le
loro narrazioni storiche, un vocabolario di tradizioni e consuetudini;
spesso si tende a creare un dualismo negli ambiti di appartenenza
per cui la sfera pubblica diventa il mondo del contatto con gli
autoctoni, della lingua europea, del lavoro, della scuola, mentre
le mura domestiche sono il luogo della “tradizione”, dei “valori
di casa”, della lingua madre, del cibo etnico. Sarebbe un errore
favorire una scissione così netta, si rischierebbe davvero di creare
due mondi separati tra i quali muoversi con non poche difficoltà,
specie se si pensa alla presenza delle seconde generazioni. Al contrario,
l’impegno di tutti dovrebbe sostanziarsi non tanto nella ri-creazione
di una cultura sociale distinta, quanto nel contribuire con nuove
opzioni e prospettive alla più ampia cultura di accoglienza, arricchendola
e rendendola variegata. Da qui il senso della libertà come possibilità
di effettuare delle scelte fra più alternative e soprattutto il
valore della cultura, non preziosa in quanto tale, ma perché per
un individuo avere accesso ad una cultura sociale significa avere
accesso ad un ventaglio di opzioni dotate di senso. Ciò che è importante
- secondo Kymlicka – da un punto di vista liberale, è la possibilità
per gli individui di accedere ad una cultura sociale che dia loro
opzioni dotate di significato per l’intero ventaglio delle attività
umane. E nella misura in cui agevolano l’accesso ad una cultura
sociale, i diritti polietnici degli immigrati o i diritti di autogoverno
delle minoranze nazionali possono contribuire alla libertà individuale.
Ma non va dimenticata una questione fondamentale: non ci si troverebbe
di fronte ad un’azione fondamentalmente intollerante se si costringesse
una minoranza a riorganizzare la sua comunità secondo i nostri principi
di libertà individuale? In fondo la tolleranza non è anch’essa un
fondamentale valore liberale? (Kymlicka, 1999, p.268). Ritorna il
dilemma etnocentrico. Come scrive Glissant: “[…] il termine “universale”
per la cultura occidentale, molto spesso ha significato la generalizzazione
dell’esperienza occidentale in esperienza universale del mondo,
così ciò che è occidentale diventa universale e ciò che è Terzo
Mondo diventa locale. Il locale viene misurato dalla distanza dalle
metropoli del mondo occidentale” (Glissant, 1998, p.23). Il multiculturalismo
non è un attacco all’Occidente quanto all’etnocentrismo che fonda
la sua visione del mondo in cui quest’ultimo è visto come unica
fonte di significato, di conoscenza e di valori, motore del mutamento
storico e in posizione centrale nel progresso scientifico e democratico
dell’umanità, mentre il resto del mondo è un luogo da colonizzare,
proteggere, istruire, sviluppare.
Comunicare con chi è diverso espone al rischio di dover mettere
in discussione le proprie credenze più profonde e per fare ciò è
necessario essere interessati al confronto e al dialogo. Non c’è
una via obbligata che porta dalla differenza alla tolleranza e da
questa alla solidarietà e al dialogo: le differenze potrebbero anche
convivere ignorandosi oppure provare a distruggersi reciprocamente.
Perché ciò non accada è necessario un impegno etico che faccia della
discussione con la differenza un valore e un dovere. Questo significa
riconoscere quale posizione si occupa nello spazio sociale e a nome
di chi si parla. “Provincializing Europe” direbbe Dipesh Chakrabarty
(Chakrabarty, 2000).
E le donne? L’eternizzazione della condizione di immigrato per chi
è diventato residente permanente in uno Stato nazione diverso da
quello in cui è nato, ostacola il passaggio da “immigrato” a “cittadino”.
Utilizzare il termine “immigrato” per chi è residente stabile di
un paese comporta una sorta di eternizzazione di un evento biografico,
quello della migrazione, che sul piano concreto si svolge per lo
più in un arco temporale definito. Quando un individuo da “immigrato”
diventa un “cittadino”? Difficile dirlo; dipende dalle variabili
storiche, sociali, economiche, istituzionali in gioco nonché dalle
restrizioni legislative all’ottenimento della cittadinanza che non
sono omogenee all’interno dell’area europea.
E se donna? Tutto si complica... La rappresentazione sociale della
donna immigrata varia da una società all’altra; la migrazione è
un momento di interazione tra popoli e, per questo, è all’origine
della produzioni di rappresentazioni dell’altro. Se negli Stati
Uniti la migrazione è stata una dimensione costitutiva della società,
in Europa il fenomeno è stato sottovalutato se non occultato del
tutto. Costretti ad accettare l’immigrazione non solo per ragioni
di lavoro ma anche demografiche, si è posto l’assimilazione come
punto d’approdo del percorso migratorio (il caso francese) oppure
si è considerati gli immigrati come “lavoratori-ospiti”, dei birds
of passage (come nel contesto tedesco) oppure ancora si è optato
per una politica pluralista come nell’esempio nella Gran Bretagna.
Ma se negli Stati Uniti la componente migratoria femminile è rappresentata
come partecipativa alla costruzione della nuova nazione (almeno
nelle prime raffigurazioni), all’esplorazione della frontiera e
alla mobilità sociale; in Europa l’immagine della donna immigrata
è bollata dal marchio dell’arretratezza, dell’analfabetismo e dell’isolamento
[2]. Non a caso Stefano Petilli,
riprendendo una riflessione di Cohen sulla povertà, si chiede: “qual
è attualmente lo stereotipo del povero? - E’ una donna: una donna
africana” (Petilli, 1999).
La stereotipizzazione è conseguenza di un approccio di tipo evoluzionista,
fondato sul passaggio dalla tradizione alla modernità, dove le nozioni
di integrazione e acculturazione hanno largo spazio. Infatti alla
tradizione e alla modernità vengono fatti corrispondere rispettivamente
comportamenti di subalternità e di emancipazione. Al contrario,
ci troviamo di fronte a concetti da non utilizzare in maniera dicotomica
ma dialettica. Subalternità ed emancipazione non sono da attribuire
ad una scelta tra società di origine e società d’accoglienza, così
facendo si perpetua uno stigma che trova la sua maggiore e nefasta
applicazione nell’intervento educativo e sociale che si configura
spesso come paternalistico e tendente alla svalorizzazione di saperi
e pratiche tradizionali. Le politiche migratorie e legislative continuano
ad avallare un’immagine di passività e subordinazione, costringendo
la donna in una posizione di dipendenza rispetto al marito/compagno,
come accade per esempio nel caso dei ricongiungimenti familiari.
E’ ancora troppo recente l’uso della variabile “genere” per analizzare
il percorso migratorio e pochi la considerano un elemento cruciale
nella selezione iniziale dei migranti. Basti pensare al fenomeno
della scolarizzazione femminile di massa che ha interessato molte
donne dei P.V.S. e che non è estraneo ai processi migratori attuali
o alle nuove tipologie di donne migranti presenti, oggi, in Europa
che partono da sole e non più per ricongiungimento familiare. Le
donne scolarizzate sviluppano aspettative nei confronti del lavoro
e più in generale della vita che non trovano realizzazione nel paese
di origine. Una delle cause, infatti, dell’aumento dei flussi femminili
è l’insoddisfatta richiesta di lavoro o la mancanza di opportunità
lavorative se non in mestieri sotto-qualificati e sotto-pagati per
meccanismi di discriminazione di genere esistenti anche nei paesi
di partenza.
Le migrazioni e l’incontro interculturale sono un’occasione per
ribadire che la differenza di genere è costantemente ricostruita
e contribuiscono a svelare i processi di “falsa naturalizzazione”
delle differenze e delle disuguaglianze sociali che sono presenti
nel pensiero occidentale. Il genere è una categoria socialmente
costruita (Campani, 2000, pp.78 e segg.). La collocazione delle
donne rispetto alla cittadinanza illumina alcune delle tensioni
insite nello stesso concetto così come si è sviluppato in Occidente.
I “bisogni” delle donne, infatti, hanno faticato ad essere riconosciuti
come diritti individuali e al contrario sono stati definiti come
un limite rispetto alla capacità di cittadinanza; e i “doveri” delle
donne sono stati utilizzati come ragione della loro esclusione dalla
cittadinanza stessa. In particolare, la loro collocazione rispetto
alla cittadinanza rende visibili una serie di tensioni irrisolte
nella teoria e nella pratica che potrebbero essere riassunte come
tensione tra diritti individuali e diritti comunitari.
Il vero problema è che l’universalismo classico occulta il meccanismo
di esclusione su cui si fonda e si presenta “come la langue del
genere (umano), mentre è la parole di un genere (maschile)” (Bonacchi
e Groppi, 1993, p.25) e nascondendo la differenza di genere ha l’effetto
di escludere tutto ciò che non corrisponde ai requisiti cosiddetti
universali, ma in realtà maschili, dalla cittadinanza. La distinzione
pubblico/privato corrisponde, in effetti, alla differenza di genere
dove pubblico sta per maschile e privato per femminile così come
i due generi sono stati simbolicamente elaborati nella cultura patriarcale.
Inoltre tale dicotomia non impone una distinzione orizzontale ma
implica un ordine verticale di importanza dove pubblico è sovra-ordinato
a privato, cui è associata non solo un’immagine di protezione e
rifugio ma anche di mancanza e assenza [3].
Tanto vero se si considera l’immigrata maghrebina che ha finito
per diventare nei diversi paesi europei lo stereotipo della donna
passiva, custode della tradizione, dipendente dal marito e dai figli
per qualsiasi contatto con la società d’accoglienza. Immagine ulteriormente
rafforzata dal fatto che tale donna è di religione musulmana ed
è considerata, nella rappresentazione comune, come una creatura
subordinata, dominata, rinchiusa, velata. E’ indubbio che, negli
anni ’60 e ’70, sono giunte in Europa per ricongiungimento familiare
e che il loro statuto giuridico è dipeso, per anni, dall’essere
“compagne dei migranti”; ma è anche vero che tradizione pre-islamica,
processi di destrutturazione indotti dalla colonizzazione, modernizzazione
e laicizzazione delle strutture pubbliche fanno si che non sia possibile
considerare l’Islam come la causa determinante di tutti i fenomeni
culturali. Questo vale ancor più per le donne la cui condizione,
di fronte a contraddizioni, conflitti, ripensamenti, ricerca di
identità e di modelli in bilico tra “il vecchio e il nuovo”, diventa
uno dei nodi centrali e dei temi simbolici intorno a cui si coagulano
le incertezze sul progetto di società futura.
La maggior parte delle donne di prima generazione ha subito, piuttosto
che scelto, la migrazione. Arrivate in Europa hanno mantenuto un
tasso di natalità alto, non sono entrate nel mercato del lavoro
e hanno sviluppato una socialità all’interno dello spazio privato,
lo spazio femminile. Diversi sono i percorsi della seconda generazione.
Le giovani hanno assorbito più rapidamente delle loro madri i valori
culturali della società d’arrivo, in particolare per quel che riguarda
i rapporti tra i sessi e i ruoli familiari; non si tratta di un
percorso che avviene senza contraddizioni e sofferenze ma si è comunque
di fronte ad una generazione che tra le tante difficoltà ha “preso
la parola”. La frequenza dei matrimoni misti è indice della volontà
di cambiamento da parte delle donne e della crisi dei meccanismi
di controllo familiare e riflette il processo di autonomizzazione
delle ragazze rispetto al loro gruppo d’origine. Il reale problema
è non cadere nella banalizzazione dicotomica modernità/tradizione:
alla prima è dato il volto della donna europea, moderna, lavoratrice,
attiva, scolarizzata e alla seconda quello della donna immigrata
non europea, inattiva, analfabeta, reclusa e superstiziosa. Questa
opposizione ha effetti devastanti nella pratica delle assistenti
sociali, degli insegnanti e degli operatori sanitari.
Una rappresentazione così devalorizzante e miserabilista occulta
l’azione sociale delle donne immigrate, impedisce di comprendere
l’esistenza di contro-strategie femminili per ritagliarsi spazi
di potere nelle strutture familiari patriarcali e misconosce il
potere di trasmissione educativa nonché il peso e l’importanza del
lavoro domestico e, soprattutto, non permette di riscoprire un Islam
al femminile che può diventare centrale nella ricerca di una identità
plurale. Sono le donne a preservare le pratiche ancestrali, anche
come reazione o difesa di fronte ad un contesto di vita che esse
non possono dominare. Il ricorso alle confraternite, ai rituali,
alle pratiche magiche tradizionali, può rappresentare un sollievo,
tanto più se ciò implica la solidarietà , l’aiuto e, dal punto di
vista simbolico, il mantenimento della propria identità. Le reti
permettono la circolazione delle informazioni, il mutuo soccorso
e l’aiuto in caso di difficoltà, il mantenimento di pratiche collettive
come feste, matrimoni, battesimi. Sono l’occasione di riprodurre,
trasportare o re-interpretare delle forme di solidarietà caratteristiche
della comunità di villaggio. Tuttavia, non ripetono il modello comunitario
originario ma vengono usate come strategie mirate all’inserimento
nella società d’immigrazione, secondo la dialettica “dell’esclusione
e dell’identità” (Campani, 2000, p.164). La possibilità di uscire
dall’esclusione e di avere un pieno accesso alla cittadinanza dipende
non solo dall’inserimento professionale ma anche dalle reti di cui
l’immigrata dispone. Infatti, nel contesto migratorio, l’uomo perde
il suo potere nello spazio pubblico; la donna si rende conto ben
presto che non può più contare sul marito per risolvere i suoi problemi
ma sulle strutture burocratiche, sulle assistenti sociali, sui figli
scolarizzati, sulle vicine autoctone. L’immigrazione, togliendo
agli uomini parte del valore che avevano nella società d’origine,
rimette anche in questione i principi su cui si fondava la supremazia
maschile. La donna vede il suo spazio sociale diversificarsi e vede
crollare la netta separazione tra lo spazio domestico, interno,
e lo spazio pubblico, esterno.
In questo frangente il network svolge il ruolo di momento di socializzazione
delle difficoltà e di tentativo di soluzione collettiva di esse.
Si assiste, in questo, nella ricerca ed elaborazione di una “terza
via” da parte delle donne immigrate che respingono la tradizione
in quanto tale ma rifiutano l’accettazione del modello di donna
occidentale che è esso stesso un modello “etnico” (Campani, 2000,
p.180) e quindi non universale. Non a caso il femminismo black inglese
critica il modello emancipatorio proposto attraverso la figura della
donna occidentale. Le donne nere e quelle immigrate hanno altre
priorità di lotta rispetto a quelle delle femministe “di casa nostra”.
Per esempio il significato (nella sua valenza positiva) che il lavoro
fuori casa riveste per le donne occidentali non deve mascherare
il fatto che esse ne sopportano da sole il costo sociale al prezzo
della doppia giornata lavorativa e che ciò per nulla ha modificato
gli stereotipi relativi ai ruoli sessuali. Per certi versi il lavoro
rappresenta un elemento di mantenimento della relazione patriarcale
piuttosto che un elemento di liberazione. Infatti, se la remunerazione
ottenuta permette di elevare il livello dei consumi della famiglia,
resta comunque un salario complementare che non permette, in alcuni
casi, di accedere all’indipendenza economica.
Al contrario, in molti paesi da cui provengono gli immigrati, la
donna è co-produttrice nell’economia familiare e dispone di reti
di solidarietà più diffuse di quelle di cui dispone la donna occidentale
la quale, quando non lavora, è destinata al lavoro domestico solitario
tra le mura di casa. Il discorso svalutante sull’oppressione della
donna dei P.V.S. utilizza categorie (per esempio la donna-oggetto)
che hanno senso solo rispetto ad un sistema economico dato, quello
capitalistico occidentale, cioè il nostro. Da qui viene a cadere
la centralità del lavoro nel processo di emancipazione della donna
immigrata, portando ad una rivalutazione di risorse che possono
essere rappresentate dalle strutture organizzative e dai modelli
culturali tradizionali. Ritorna, così, il tema della sfida multiculturale
che, rifiutando qualunque progetto integrazionista visto come assimilazionista
e criticando radicalmente l’universalismo a favore del localismo,
richiede adeguati spazi, riconoscimenti e supporti istituzionali
per ogni gruppo “differente” presente nella società in questione.
Qui si ascrive anche il movimento di rivendicazione femminile che
evidenzia come la società moderna, che si dice aperta e paritaria,
si fondi in realtà sull’esclusione del soggetto femminile dalle
attività più gratificanti e dagli ambiti decisionali più rilevanti.
I movimenti delle donne denunciano che l’uguaglianza è pensata per
gli esseri umani di sesso maschile ed è parte di un linguaggio patriarcale
che assume l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma,
allo stesso tempo, come paradigma universale dell’intera specie.
Tale ideale di uguaglianza costituisce in realtà una negazione delle
donne e un’affermazione della superiorità maschile: dire che tutti
gli uomini sono uguali significa letteralmente sostenere che tutti
i maschi sono uguali [4]. La richiesta
delle donne, quindi, non passa solo per una loro accettazione “alla
pari” nella società (con un conseguente accesso alle mansioni e
ai luoghi di potere in precedenza esclusivamente riservati agli
uomini) ma per un riconoscimento del valore della diversità femminile
[5]. La domanda femminile di
cittadinanza vuole essenzialmente produrre un senso di appartenenza
materiale e simbolica alla vita collettiva e un segno del loro “voler
esserci”. I diritti sociali, più che un’estensione all’insieme dei
cittadini di diritti originariamente sviluppati nella negoziazione
più o meno conflittuale dei rapporti di lavoro, continuano ad essere
dei diritti di lavoro veri e propri: sia perché sono connessi ad
uno statuto di lavoro remunerato, sia perché quando sono svincolati
dai rapporti di lavoro si configurano per lo più come diritti precari,
discrezionali e a tempo determinato. E in questo a farne le spese
sono soprattutto le donne; infatti è difficile pensare ad una uguale
cittadinanza quando c’è chi, per definizione, è titolare di doveri
di cura e chi, viceversa, è titolare di diritti di cura per sé e
per i propri cari.
Il “pensiero della differenza” degli anni ’80 e ’90 svela il paradosso
di una politica moderna che ha incluso le donne escludendole automaticamente;
in particolare evidenzia come le norme sul corpo femminile, la sessualità
e il rapporto fra i sessi, non riconoscendo alle donne quella sovranità
sul proprio corpo che è riconosciuta agli uomini, comporti una limitazione
dell’autonomia femminile intesa come libertà, capacità di autoprogettarsi
e autodefinirsi e di conseguenza una cittadinanza ancora incompiuta
e limitata. Infatti la questione centrale è, ormai, diventata non
tanto la debolezza della cittadinanza quanto la debolezza prodotta
dalla cittadinanza. C’è da chiedersi se la cittadinanza sia ancora
un fattore di inclusione o non sia invece l’ultimo fattore di esclusione,
l’ultimo relitto premoderno delle disuguaglianze personali in contrasto
con la conclamata universalità ed uguaglianza dei diritti fondamentali.
Prendere sul serio questi diritti vuol dire disancorarli dalla cittadinanza
in quanto appartenenza (a una determinata comunità statale), riconoscerne
il carattere sovra-statale e tutelarli non solo dentro ma anche
fuori gli Stati.
CONCLUSIONI
Le donne migranti costituiscono, oggi, circa la metà del totale
dei migranti nel mondo e, a differenza del passato, sono riuscite
ad inserirsi anche in settori tradizionalmente occupati solo dagli
uomini come quello agricolo e quello industriale. Bastenier e Dassetto
hanno fatto notare che ricongiungimenti familiari, nascita dei figli
e scolarizzazione incrementano i rapporti tra gli immigrati e le
istituzioni della società ricevente, “producendo un processo di
progressiva “cittadinizzazione” dell’immigrato/a, ossia un processo
che lo porta ad essere membro e soggetto della città intesa nella
più larga accezione del termine” (Bastenier e Dassetto, 1990, p.147).
La nascita e la socializzazione delle seconde generazioni, anche
indipendentemente dalla volontà dei soggetti coinvolti, producono
uno sviluppo delle interazioni, degli scambi, a volte dei conflitti
tra popolazioni immigrate e società ospitante; rappresentano un
punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando a prendere
coscienza di una trasformazione irreversibile nella geografia umana
e sociale dei paesi in cui avvengono. Ne deriva una preoccupazione
fondamentale, quella del grado, delle forme, degli esiti dei percorsi
di assimilazione delle popolazioni immigrate nella società d’accoglienza,
definibili secondo la classica formulazione di Park, Burgess e McKenzie
come “un processo di interpenetrazione e fusione in cui persone
e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti
di altre persone e gruppi e, condividendo le loro esperienze e la
loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune”
(Park, Burgess, McKenzie, 1979, p.98).
Nell’ambito delle comunità di immigrati, proprio la nascita e la
socializzazione delle seconde generazioni rappresentano un momento
decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze
ormai entrate a far parte di un contesto diverso da quello della
società d’origine. Con esse sorgono esigenze di definizione, di
rielaborazione e trasmissione del patrimonio culturale, nonché dei
modelli di educazione familiare. A questo riguardo le differenze
religiose (specie dopo gli ultimi eventi “terroristici”) sono assurte
negli ultimi anni a nodo cruciale della regolazione del pluralismo
etnico e culturale nei diversi contesti europei. Inoltre la crescita
delle seconde generazioni è diventata centrale in relazione all’istanza
della trasmissione dell’identità culturale, stimolando domande di
spazio per il culto collettivo e pubblico, di regimi alimentari
appropriati nelle mense scolastiche, di opportunità di impartire
un’educazione religiosa ai minori nella scuola pubblica. Tali richieste
introducono in un’istituzione cardine per la riproduzione culturale
della società, come la scuola, elementi di difformità rispetto a
presupposti considerati condivisi e indiscutibili. Dietro questi
dubbi si coglie un problema più profondo: la relativizzazione del
preteso universalismo dei presupposti culturali dell’educazione
scolastica definita come occidentale, secolarizzata, moderna.
L’immigrato, e forse ancor più l’immigrata, diventa il simbolo più
eloquente delle difficoltà che le società avanzate incontrano nel
costruire nuove forme di legame sociale e di appartenenza ad un
destino comune, più flessibili e inclusive eppure capaci di salvaguardare
i valori fondanti delle società aperte e democratiche. Le “mitiche”
unità di terra, razza, lingua e religione, che hanno alimentato
tra ‘700 e ‘900 l’idea di nazione, sono destinate a conoscere una
profonda ridefinizione, se non una crisi irreversibile. Ciò fa sì
che il discorso attuale sulla cittadinanza debba prendere sempre
più in considerazione le recenti acquisizioni del dibattito postcoloniale
(di cui si è citato qualche autore nelle pagine precedenti). E’
così che la stessa categoria di cittadinanza può essere ristrutturata
e rivista alla luce dei diversi piani d’analisi. Analizzare “da
chi” e “per chi” i discorsi sulla cittadinanza vengano prodotti
e attraverso quali meccanismi retorici essi vengano fatti circolare
e si radichino nella coscienza comune delle popolazioni residenti
e migranti in un dato territorio significa incrinare l’idea che
essere cittadini sia un dato acquisito una volta per tutte per causa
di nascita, di sangue, di residenza acquisita o per maturazione
intellettuale e sociale all’interno di un dato contesto. Scomporre
le modalità di costruzione e trasmissione all’interno del senso
di appartenenza ad una data comunità significa comprendere sia il
contenuto intrinseco sia le narrative attivate da ciascuno degli
individui-cittadini per giustificare la propria adesione o negarla
e contestarla. L’accento quindi dell’analisi dei processi di costruzione
della cittadinanza multiculturale deve passare per la chiave antropologica
di lettura dei processi politici di partecipazione e identificazione
comunitaria e trovare uno dei suoi punti cardine nell’osservazione
delle politiche e delle strategie formative delle nuove generazioni
e dunque sui contesti educativi e scolastici in cui tale appartenenza
o la sua contestazione vengono a sedimentarsi nei cittadini in divenire.
Indubbiamente un’immigrazione stabilmente insediata è destinata
ad accentuare la segmentazione culturale della società italiana
e a rimescolare i criteri, già di per sé incerti, di definizione
dell’identità nazionale. Il passaggio da un’idea di nazione basata
implicitamente su una presunzione di relativa omogeneità della popolazione,
ad una concezione pluralistica e negoziata dell’appartenenza nazionale,
in cui conti non solo il sangue, ma anche la socializzazione, la
residenza prolungata, la volontà di adesione al patto di cittadinanza,
sarà il luogo critico della costruzione di un’identità nazionale
capace di incorporare le seconde generazioni.
I principi di uguaglianza e di inviolabilità dei diritti individuali
andranno rivisitati e declinati nel nuovo contesto pluralistico.
Più esplicitamente nessun ordinamento occidentale accetta la poligamia
o la disparità giuridica tra uomo e donna, per non parlare delle
mutilazioni genitali femminili; viceversa l’abbigliamento, l’alimentazione,
le festività, le pratiche religiose, sono un terreno in cui aperture
e negoziazioni sono possibili e praticate. La stessa laicità degli
ordinamenti statuali andrà forse rivisitata, aprendo una rinnovata
discussione sul contributo delle identità religiose alla coesione
complessiva. Insomma nulla di più complicato e di meno naturale
della compresenza sulla stessa tavola di riso, zafferano, pomodori
e cioccolato: ma non sono in fondo le donne grandi maestre in cucina?
NOTE
1] Tra il 2000 e il 2001
ho svolto un tirocinio formativo post-laurea presso l’Associazione
Senegalese di Napoli, nell’ambito del Progetto P.Or.T.A. per
le attività di orientamento al lavoro dei laureati gestito
dall’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Mi sono
occupata di attività di segretariato, di sportello e di assistenza
diretta agli immigrati, soprattutto donne.
2] Per un’analisi più approfondita
al riguardo, rimando a G. Campani, op. cit., in particolare
il capitolo introduttivo e il cap. I.
3] Il divieto di essere un
cittadino (per le donne) è formulato con chiarezza proprio
nella patria della democrazia antica, Atene. Nei miti fondativi
gli uomini discendono da un individuo mentre le donne sono
un gènos, nato dalla rottura del vaso di Pandora che ha portato
i mali sulla terra. E, a conferma di ciò, in greco non esiste
il termine per indicare le “ateniesi”. Il risvolto politico
della divisione dei sessi a seconda dell’appartenenza alla
polis o all’oikos è che le donne appartengono alla sfera privata
in quanto in essa non è possibile la libertà. (G. Bonacchi,
A. Groppi , op. cit., p. 88).
4] La modernità cade, qui,
in una vistosa contraddizione: proprio nel momento in cui
crea lo spazio pubblico fondato sul principio universalistico
dell’uguaglianza, dove ci si può avvalere delle libertà finalmente
conquistate, al tempo stesso vieta alla donna la possibilità
di accedervi e non le riconosce il diritto ad avere diritti,
così che dall’orizzonte egualitario viene esclusa l’altra
metà del genere umano e il nuovo ordine politico resta una
prerogativa maschile. Ecco il paradosso: appena proclamati,
i diritti vengono esplicitamente e sistematicamente negati
alle donne che, escluse dalla partecipazione attiva alla sfera
pubblica, sono relegate nella condizione di non-cittadine.
Tale esclusione è legittimata in nome della differenza di
genere, cioè in base all’idea già dominante nell’antichità
e giunta alla sua compiuta formulazione nel ‘700, che la donna
in quanto tale possiede una “natura” specifica, legata alla
corporeità e alla sua potenzialità produttiva, che ne determina
il modo di essere e la confina nella dimensione privata dell’esistenza
familiare. La donna, diversamente dall’uomo, non è definita
in base alle sue attitudini in quanto persona, ma a partire
dalla sua identità biologica, che diviene sinonimo di disuguaglianza
e di inferiorità.
5] D’altra parte una simile
richiesta di “differenziazione” è diventata sempre più forte
all’interno delle Conferenze di Pechino e di Pechino +5, quando,
soprattutto le donne di colore, hanno fatto blocco contro
la possibilità che si parlasse del mondo femminile in modo
unitario e uniforme senza considerare le differenze specifiche
che lo caratterizzano al suo interno.
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