Pratiche narrative per la formazione
Francesca Pulvirenti (a cura di)
M@gm@ vol.3 n.3 Luglio-Settembre 2005
LA NARRAZIONE: DIMENSIONE ONTOLOGICA DELLA FORMAZIONE
Francesca Pulvirenti
f.pulvirenti@unict.it
Professore associato di Pedagogia
Generale e docente di Metodologia della ricerca pedagogica
presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università
degli Studi di Catania; Teacher educateur; Collabora con la
Libera Università dell’autobiografia; ha pubblicato di recente
"Il labirinto del sapere: Didattica per concetti" (Catania,
1999, a cura e in coll.), "Un maestro di scalata: Materiali
di pedagogia dell’insegnamento scolastico" (Catania, 2000,
in coll.), "Ecologia del conoscere ed ecologia del pensare"
(Catania, 2000, a cura e in coll.), "Formazione e responsabilità:
Epistemologie personali in reti di incontro: Bateson, Lipman,
Novak" (Pisa, 2004).
In una ricerca di
approcci innovativi alla conoscenza, all’insegnamento e alla
formazione la narrazione assume un ruolo centrale: consente
agli individui di conoscere, di farsi conoscere e di produrre
effetti (Cortese, 2002, p.XII). I racconti delle proprie esperienze
personali, scolastiche e professionali costituiscono uno strumento
primario nell’insegnamento e nelle professioni di orientamento
e di supporto, in quanto illustrano chiaramente il primato,
sia nella vita individuale che nella pratica educativa, della
ricerca di un significato per la vita e del ruolo dell’attenzione
per il prossimo (Atkinson, 2002, p.27).
E’ stato Jerome Bruner, psicologo cognitivo, a dimostrare
che il significato personale (e la realtà personale) si costruisce
effettivamente durante la concettualizzazione e l’esposizione
della propria narrazione; che le nostre esperienze assumono
la forma delle narrazioni che usiamo per descriverle, e che
i racconti sono il nostro modo di organizzare, interpretare
e dare significato alle esperienze, assicurando loro un senso
di continuità (Bruner, 1988, 1992). E’ la modalità narrativa
del pensiero a permetterci di riflettere sull’esperienza (Dewey,
1967, 1990). Il pensiero - scrive Napoletani - si produce
all’interno di un intreccio relazionale complesso: la relazione
tra i due (o più) interlocutori presenti (concretamente o
immaginariamente) nel contesto narrativo attuale; la relazione
tra il dispositivo autopoietico di ciascuno di essi ed il
proprio universo identificatorio, che fonda l’identità-nella-continuità
rispetto alle proprie origini personali e transgenerazionali;
la relazione che ciascuno intrattiene con la propria personale
comunità (famiglia, lavoro, aggregazioni personali) con cui
il pensiero mantiene un costante rapporto che per lo più si
muove in una dimensione etica. Questa molteplicità sincronica
di relazioni costituisce lo spessore, la profondità spaziale
della circolazione eclettica della mente; i rimandi ricorsivi
fra questi tre tipi di relazione provocano modificazioni in
ciascuno di esse, e quindi modificazioni della stessa compagine
dei due poli gravitazionali (Napoletani, 1999, p.198).
La narrazione, pertanto, innesca e indirizza una ricerca di
significati all’interno di uno spettro di significati possibili,
permettendo di coniugare la realtà al congiuntivo, di riflettere
in termini di passato, presente e futuro. “Narrare significa
mettere dei confini e nello stesso tempo superarli, significa
anche stabilire una continuità, non come nesso univoco di
causa-effetto bensì come possibilità di riconoscere il filo
che ci lega al passato e al futuro. La narrazione come spazio
che contiene e che apre nello stesso tempo, come parola detta
e come intenzione al senso non del tutto conclusa, sembra
rispondere al difficile compito di tenere insieme la molteplicità
e l’incompiutezza dell’io contemporaneo e il suo bisogno di
riconoscersi e di essere riconosciuto” (Melucci, 1999, p.145).
La possibilità di mantenere le nostre narrazioni sufficientemente
aperte perché possono essere luoghi di incontro è una delle
strade - scrive Melucci - che abbiamo a disposizione per tenere
aperti e continuamente ricreare spazi pubblici dove la diversità
della parola possa essere contenuta ed ascoltata senza violenza
in un mondo politeistico in cui i linguaggi e i sistemi di
riferimento sono sempre più diversificati, ma in cui occorre
convivere mettendosi d’accordo sulle regole comuni (Melucci,
1999, p.145).
Negli ultimi decenni, numerosi sono stati gli studi basati
sull’utilizzo di materiali narrativi, e, senza dubbio, particolarmente
significativi sono stati i contributi in termini di idee e
di proposte, nei nuovi scenari organizzativi che per le loro
caratteristiche di accelerazione del cambiamento e di intensificazione
della turbolenza sollecitano sempre più i processi di sensemaking
che la narrazione sostiene e promuove (Cortese, p.IX). Non
a caso, tra le strategie di ricerca, l’intervista narrativa,
già presente nella letteratura internazionale da molti anni,
si sta diffondendo sempre più in quanto offre al ricercatore
un elevato potenziale di accesso all’oggetto della sua ricerca,
ovvero consente di “avvicinarsi” al mondo cognitivo dei suoi
interlocutori, di riconoscerne le rappresentazioni della realtà,
di portare avanti le istanze di cambiamento che la ricerca
genera, in quanto momento di esplicitazione e dunque di trasformazione
delle rappresentazioni della realtà.
Raccontare è scoprire significati profondi della nostra vita,
riappropriarsi dell’esperienza vissuta, è ri-membrare, ovvero
‘ricostruire il corpo’ della propria esperienza, che il rincorrersi
delle azioni e situazioni aveva ‘smembrato’, rendendolo irriconoscibile
persino a noi stessi. Ed è per questo che le storie svolgono
una funzione di empowerment, e ciò risulta oltremodo evidente
per i gruppi che risultano svantaggiati all’interno delle
relazioni di potere del nostro sistema sociale: donne, immigrati,
disabili, anziani, ecc. Nella narrazione le storie non si
pongono come un pallido riflesso dei fatti, ma come l’unica
verità possibile sui fatti stessi, in quanto le storie sono
il processo in cui la verità viene costruita coinvolgendo
autore e ascoltatore e sono, altresì, il contenuto della verità
stessa, ovvero la posizione che il soggetto assume di fronte
al mondo, ossia la sua esperienza. Ogni storia è, pertanto,
verità (soggettiva) ma non è - né può essere - realtà; è esperienza
dell’evento, ma non è - né può essere - l’evento (Cortese,
pp. XIV, XXXIII).
Il valore delle narrazioni autobiografiche è riconosciuto
dagli psicologi per la comprensione dello sviluppo e della
personalità, dagli antropologi come riferimento per la valutazione
delle affinità e delle differenze culturali, dai sociologi
per capire e definire le relazioni e le interazioni di gruppo,
dagli storici come fonte importante per l’approfondimento
della storia locale, dai pedagogisti, nella formazione scolastica
come mezzo innovativo di conoscenza e d’insegnamento e nella
formazione degli adulti come un luogo di double-loop learning,
in cui non solo le azioni e i risultati, ma anche le assunzioni
sottostanti vengono messe a fuoco, in un percorso che punta
a riconoscere progressivamente la storia di apprendimento,
in un’alternanza di momenti di lavoro individuale e di lavoro
di gruppo (Argyris, Schon, 1998).
L’attività del narrare e del comunicare narrativamente costituisce
pertanto, nel contesto odierno, uno strumento di indagine
che si applica, sempre più, per la promozione dei processi
di apprendimento dall’esperienza, a livello individuale e
organizzativo; livelli che, se possono considerarsi separabili
quando si fa teoria, risultano inestricabilmente intrecciati
nella pratica quotidiana. In particolare, nell’ambito dell’organizzazione
la raccolta di storie offre validi contributi ponendosi sempre
più come locus in cui si formano le istituzioni e le identità
organizzative; le organizzazioni, infatti, non sono solo radicate
nelle azioni di scambio di beni, prodotti e servizi, ma, come
sottolinea Czarniawska, anche nel mondo del pensiero, ovvero
nelle conversazioni che si svolgono tra interlocutori interni
ed esterni. Le narrazioni organizzative ed autobiografiche
sono, pertanto, narrazioni che costituiscono l’identità organizzativa
nel suo inarrestabile movimento (Czarniawska, 2000).
La ricerca ha mostrato come l’epoca degli yes men sia finita.
La gente è pagata per pensare, per negoziare, per migliorare.
La supposta razionalità dell’organizzazione è svanita, e con
essa la fiducia nelle certezze formative. I paradigmi narrativi
non possono più essere considerati un optional, ma una dimensione
ontologica della formazione stessa: la prassi dell’osservatore,
con il suo desiderio di razionalizzazione del mondo, diviene
ontologia dell’osservare. L’esperienza autobiografica si pone,
in tale ottica, come oggetto della ricerca pedagogica e formativa
consentendo al “récit de vie” di diventare “récit de formation”:
consente di esperire il ri-mando delle immagini soggettive
che costruiscono la propria realtà, di integrare in esse i
metalivelli delle prospettive soggettive e legare, così, il
senso privato dell’esperienza di vita narrata, ricercata,
raccontata e riflessa all’esperienza stessa (Cassani, Fontana
2000, pp.27, 30, 53, 62). Il pensiero autobiografico determina
una sorta di morfologia dell’essere, un design cognitivo che
va ad operare, nel loro assoluto rispetto, su quegli spazi
interni che divengono ambiti di appartenenza biografica: ad
una cultura, ad una famiglia, ad un gruppo amicale, ad un
hobby, ecc., in breve: ad una cognizione mentale e ad un’espressività
affettiva.
Le metodologie autobiografiche, concentrandosi sulla soggettività
e sull’unicità irriducibile di questa esperienza di vita soggettiva
e sottolineando le traiettorie di apprendimento del soggetto,
attraverso il pensiero narrativo che diventa poi pensiero
autobiografico, chiamano in causa proprio quei processi di
pensiero, quei modelli affettivi, quelle dinamiche valoriali
che fanno parte della persona umana e costituiscono la sua
eredità storica. Ciò permette al soggetto, come già evidenziato,
di ritornare verso se stesso, di interrogarsi e ricostruire
un senso che egli ri-consegna, sia pure in modo imperfetto,
a se stesso nella privazione epistemologica di certezze, per
incontrare e confrontarsi, a partire dalla propria intimità
storica, con quella altrui (Cassani, Fontana, 2000, pp.69-70).
Le pratiche narrative promuovono pertanto, a qualunque età
e in qualunque contesto, quella che, di contro alla formazione
negata, Spaltro definisce la bella formazione, intendendo
con tale espressione una formazione che esca allo scoperto,
che proponga e realizzi modi di pensare e di agire nuovi:
prima di tutto, la voglia di stare bene. La formazione, sottolinea
lo studioso, è stata sinora negata in Italia; la grande maggioranza
di quello che è stato definito formazione non è servito alla
produzione di benessere e di ricchezza, ma al mantenimento
dello status quo e al rallentamento dei processi di sviluppo
dei soggetti temuti ed osteggiati come pericolosi produttori
di innovazione e di possibile annullamento dei privilegi vigenti.
Oggi il nuovo trend fa pensare al futuro come ad una scena
dominata dall’estetica, dalla progettazione, dall’innovazione;
una scena che non impedisce più ai soggetti di essere plurali
e di scegliere continuamente tra molte verità e molte relazioni
possibili, una scena dominata dalle risorse umane, dalla loro
capacità di produrre cambiamenti (Spaltro, 2004).
In tale scena, la narrazione si pone come fondamento ontologico
di una formazione-sviluppo, di una formazione non confinabile
alla sola area del saper fare e del conoscere in funzione
disciplinare o lavorativa, ma che si estende all’area di un
sapere - un sapere narrativo - che rivendica in ogni soggetto,
uomo/donna, bambino/a, giovane, adulto/a, anziano/a, il piacere
e il dovere di usare la parola “io” (Demetrio, 2003, pp.VI-VII).
Un sapere che, coniugando la ricerca con l’essere, e non soltanto
con il suo fare, fa inceppare il tritacarte [1]
nei processi formativi e fa sì che gli individui imparino
a narrarsi, a svelarsi, a pensare e pensarsi e a restare nella
memoria, in quella propria e in quella altrui (Demetrio, 2000,
pp.11-15).
NOTE
1] Nella prefazione al testo
di Cassani e Fontana, lo studioso Demetrio riferisce la metafora
con cui, un autorevole uomo d’azienda, responsabile di formazione,
rispondendo alla richiesta avanzata da Demetrio, di realizzare
sperimentalmente un laboratorio di scrittura di “sé” nel suo
importante gruppo, rispettando l’anonimato e la privacy, spiega
la sua idea di storia di vita: “Hai presente quei tritacarne
che usiamo per disperdere in mille stelle filanti i documenti?
Ebbene, in azienda, le biografie è bene che facciano questa
fine”.
BIBLIOGRAFIA
C. Argyris, D. A. Schon, Apprendimento organizzativo, tr.
it., Milano, Guerini Associati, 1998.
R. Atkinson, L’intervista narrativa: Raccontare la storia
di sé nella ricerca formativa, organizzativa e sociale, Milano,
Raffaele Cortina Editore, 2002.
J. Bruner, La mente a più dimensioni, trad. it., Bari, Laterza,
1988. J. Bruner, La ricerca del significato: Per una psicologia
culturale, trad. it., Torino, Boringhieri, 1992.
E. C. Cassani, A. Fontana, L’autobiografia in azienda. Metodologie
per la ricerca e l’attività formativa, Milano, Guerini Studio,
2000.
C. G. Cortese, Prefazione in R. Atkinson, L’intervista narrativa:
Raccontare la storia di sé nella ricerca formativa, organizzativa
e sociale, Milano, Raffaele Cortina Editore, 2002.
B. Czarniawska, Narrare l’organizzazione: La costruzione dell’identità
istituzionale, trad. it., Torino, Edizione di comunità, 2000.
D. Demetrio, Il tritacarne inceppato, Prefazione a E. C. Cassani,
A.Fontana, L’autobiografia in azienda: Metodologie per la
ricerca e l’attività formativa, Milano, Guerini Studio, 2000.
D. Demetrio, Ricordare a scuola: Fare memoria e didattica
autobiografica, Roma-Bari, Laterza, 2003.
J. Dewey, Esperienza e Educazione, Firenze, La Nuova Italia,
1967.
J. Dewey,Esperienza e natura, Milano, Mursia, 1990.
A. Melucci, Lo spazio della parola: Narrazione ed identità
nella società complessa in M. Russo (a cura di), Scrittura
e narrazione: Le emergenze sociali nello spazio simbolico
del linguaggio, Milano, Unicopli, 1999.
D. Napoletani, La narrazione analitica tra semiotica ed ermeneutica,
il mentire come unica verità del “fare mente” in M. Russo
(a cura di), Scrittura e narrazione: Le emergenze sociali
nello spazio simbolico del linguaggio, Milano, Unicopli, 1999,
p.198.
E. Spaltro, Due possibili declinazioni della formazione/sviluppo:
la bellezza e la doppia curva di vita in “Psicologia e lavoro”,
2004., vol. 33, fasc. 134, pp. 20-27.
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