Pratiche narrative per la formazione
Francesca Pulvirenti (a cura di)
M@gm@ vol.3 n.3 Luglio-Settembre 2005
IL CORPO NARRATORE
Alessandro Mariani
ivano.gamelli@unimib.it
Insegna Pedagogia del corpo e
Teorie e pratiche autobiografiche alla Facoltà di Scienze
della formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca;
Coordinatore e docente del corso di Scienze dell'educazione
presso la SILSIS Lombardia; Membro della Libera Università
dell'autobiografia di Anghiari, della redazione della rivista
Adultità e coordinatore editoriale della collana "Laboratori
della memoria" della Unicopli; ha pubblicato, tra l’altro,
"Sensibili al corpo: I gesti della formazione e della cura"
(Meltemi 2005), "Pedagogia del corpo" (Meltemi 2001), "Quella
volta che ho imparato: La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione"
(con L. Formenti, Raffaello Cortina 1998), "Pedagogia ed educazione
motoria" (opera collettiva, Guerini 2004), e ha curato "Il
prisma autobiografico" (Unicopli 2002), "Dentro fuori: Viaggio
artistico educativo nelle carceri pugliesi" (con R. Ricco,
Unicopli 2005); www.pedagogiadelcorpo.it.
Come si usa dire
- rischiando spesso di rimuovere la drammaticità che tale
espressione comporta - viviamo in una società globalizzata
e complessa, una società dominata dalla comunicazione ed è
quindi inevitabile che su tale argomento siano oggi disponibili
le più diverse teorie, strategie, tecniche di pronto uso,
prescrizioni e buoni consigli. Una trattazione delle vicissitudini
storiche e culturali che hanno portato alla moltiplicazione
degli sguardi e degli approcci relativamente al tema della
comunicazione e dell’ascolto costituirebbe certo argomento
utile e interessante. Siamo passati attraverso cambiamenti
rilevanti nei modi di guardare a come noi, esseri umani, comunichiamo.
Per molto tempo, ad esempio, si è teso a considerare la comunicazione
sulla base delle informazioni che ci scambiamo sui contenuti,
intesi quale oggetto specifico dei nostri discorsi. L’enfasi
posta sulla trasmissione del messaggio ha dato il là ad un
vero e proprio orientamento di studi e ricerche scientifiche.
Chiunque chi, per ragioni di studio o professionali, si sia
imbattuto in una simile opzione culturale sa bene a cosa mi
riferisca: immancabile ed emblematico è il grafico nel quale,
attraverso una linea e una freccia, la questione della comunicazione
si risolve in buona sostanza nel capire come l’emittente A
raggiunga con il proprio messaggio il ricevente B.
Così linearmente posto, il problema ha però giocoforza evidenziato
come lo stesso B condivida l’identica necessità, apportando
ben presto al grafico originale un’ulteriore freccia di segno
opposto. Di lì a breve, è parimenti parso limitante considerare
la relazione in termini di semplice orizzontalità: le linee
si sono dunque progressivamente arrotondate, fino a comprendere
A e B in una rappresentazione ora circolare, in seguito inscritta
all’interno di una serie di retroazioni (feed-back) complicate,
per arrivare infine a scoprire che nella loro relazione era
pur compreso - come sempre - un terzo punto di vista, C, che
sorprendentemente garantiva il moltiplicarsi di linee e frecce
e conseguentemente delle loro possibili combinazioni. I sofisticati
e accessibili programmi di grafica dei nostri computer rendono
ormai possibile, dismessi i vecchi lucidi, attraverso “Power
Point”, rappresentazioni delle nostre dinamiche comunicative
sempre più articolate, belle e colorate.
All’interno di questo paradigma (Cacciamani, 2002), ovvero
di una visione del mondo, nello specifico della comunicazione,
le parole d’ordine (nelle università, nelle aule della formazione
soprattutto aziendale, nelle sale dei convegni, nei contesti
segnati dal ricorso ai più diversi media) sono comprensibilmente
diventate quelle di “abilità”, “efficacia”, “competenza”,
in altri termini (possibilmente inglesi) tutto quanto concretamente
occorre affinché ciò che abbiamo da dire (e da ascoltare?)
possa fluire in maniera da risultare pertinente e, soprattutto,
convincente, facendo in tal guisa di noi validi comunicatori
e ascoltatori. Naturalmente, la prospettiva appena ricordata
non è l’unica di cui oggi possiamo disporre. Secondo altri
studiosi della comunicazione, che si collocano lungo una linea
ideale che congiunge Gorge Simmel (1976) a Gregory Bateson
(1976), aldilà delle informazioni che ci scambiamo sui contenuti
c’è infatti una domanda fondamentale che sempre rivolgiamo
al nostro interlocutore, una domanda implicita che suona silenziosamente,
ma non per questo in modo meno incisivo, più o meno così:
“Come mi vedi?”, ovvero “Mi accetti, mi giudichi positivamente,
confermi l’immagine di me stesso che in questa situazione
vorrei trasmettere?”. Senza il bisogno di ricevere una risposta
a questa domanda, limitandosi a considerare le sole esigenze
trasmissive legate al contenuto, la comunicazione umana non
si sarebbe sviluppata, secondo Paul Watzlawick, “oltre gli
scambi necessari alla sopravvivenza” (Contini, 2000, p.17).
Con la scuola della “pragmatica della comunicazione” (Watzlawick,
1971), di cui Watzlawick è appunto stato uno degli esponenti
di maggior spicco, alla mera attenzione per gli aspetti “di
contenuto” se ne intreccia un’eguale per gli aspetti definiti
“di relazione” e, grazie a ciò, la comunicazione da competenza
relazionale del soggetto diventa competenza relazionale interattiva
del sistema. Da ciò discende, ad esempio, che acquisire consapevolezza
di sé, della propria comunicazione, oltre l’idea di abilità
e di efficacia, include innanzitutto l’imparare a discernere
il piano della autopercezione (come mi vedo io) da quello
di come mi vedono gli altri (con le loro proiezioni e i loro
fantasmi). Al pari di qualsivoglia comportamento (da cui l’assioma
relativo all’impossibilità di non comunicare), anche la comunicazione
non è più tematizzata come qualcosa che semplicemente si produce,
bensì come un contesto a cui soprattutto si partecipa (dove
il posto in cui siamo, l’ordine in cui parliamo, il tempo
che occupiamo parlano per noi, prima e spesso più di quanto
abbiamo-vogliamo dire) e dei cui esiti si è quindi solo parzialmente
“padroni”. Si comprende come, in una simile visione, comunicazione
e relazione finiscano per risultare essenzialmente sinonimi.
Il passaggio da una prospettiva lineare ad una complessa della
relazione educativa (Formenti, 2003), dunque dell’ascolto
e della comunicazione quali aspetti che la sostanziano, ha
generato una nuova attenzione per dimensioni prima trascurate.
Fra questi, in particolar modo, ve ne è uno che riguarda la
dimensione cosiddetta “analogica” che, a differenza del codice
digitale proprio del linguaggio verbale, mette al centro gli
aspetti non verbali inclusi nei nostri scambi comunicativi.
Ma cosa significa disporsi all’ascolto con il proprio corpo.
Quale corpo? [1]
Nel 1899, Philippe Tissié, un noto medico francese, si trova
a trattare un caso d'instabilità mentale di un giovane di
diciassette anni, con idee ossessive, collerico e manifestamente
aggressivo. Il ragazzo rifiuta la compagnia dei suoi compagni
di scuola, entra spesso in forte conflitto con loro e perciò
si trova a trascorrere molto tempo in totale solitudine. In
compenso, cammina molto: nel giardino dei suoi genitori, nella
sua camera, nei corridoi, nella strada. Cammina e cammina,
soprattutto dopo il riposo. Tissié decide di sottoporlo ad
un trattamento basato sull’esecuzione di movimenti elementari
di coordinazione, di flessione, d’equilibrio, di salto al
trampolino, di corsa a piedi, di passeggiate in bicicletta,
perfino di boxe. A intervalli regolari, inoltre, lo costringe
a delle docce fredde. I progressi del giovane sono, a dire
del medico, rapidi: la paura lo abbandona, le manifestazioni
violente si riducono, la possessione deambulatoria diviene
rara, poiché - sentenzia Tissié - la ginnastica medica gli
ha permesso di impiegare la forza che prima utilizzava nel
conflitto. Qualche anno più tardi, il medico francese integrerà
la sua nuova teoria, completandola con l’azione psico-dinamica
della ginnastica respiratoria che - sempre secondo Tissié
- stimola i centri psico-motori e la suggestione, sviluppa
il controllo di sé e sollecita a livello cerebrale l’incontro
tra il pensiero e il movimento. Parlando per la prima volta
dell'esistenza a livello cerebrale di un legame tra i centri
psico-motori e il movimento, agli inizi del '900 Tissié costruisce
un nuovo spazio di oggetti e di concetti, la ginnastica medica,
una teoria e una pratica che colloca tra la fisiologia e la
psicologia (Fauché, 1993).
Da quale assunto è partito Tissié? Da un modello che oggi
definiremmo "funzionale", “strumentale”, da un’immagine dell’uomo
come riserva di forza e di energia. Secondo questo modello
tutti i processi biologici si sviluppano, in estrema sintesi,
attraverso un'alternanza binaria di "carica-scarica": quando
la scarica è impedita, si generano conflitti che impediscono
all'individuo di funzionare con il suo pieno potenziale energetico,
una condizione che, diventata stato cronico, determina l’insorgenza
di blocchi sia a livello fisico (muscolare) sia psichico.
La visione funzionale del rapporto mente-corpo s’impone per
buona parte del secolo scorso. Dall'ipnosi di Charcot e di
Freud, passando attraverso le teorie catartiche di Willheim
Reich, pioniere della bioenergetica, fino alle recenti mode
del fitness, si diffonde per questa via un'idea del corpo
come luogo dell'energia repressa, luogo di accumulo di tensioni,
di conflitti - di volta in volta e in base agli assunti delle
diverse scuole - da contenere e controllare oppure da scaricare
e liberare. Questo modello funzionale si basa sostanzialmente
sull'idea di un corpo avvertito come “pericoloso”, minaccioso,
poiché sostanzialmente "opaco", in quanto non svela all’esterno
le reali dinamiche delle sue ragioni e del suo funzionamento.
Un corpo il cui senso ultimo da sempre incanta, sorprende
e insieme sfugge al controllo. Da lì, anche, lo sforzo (illusorio)
di renderlo "trasparente": attraverso, ad esempio, l'enfatizzazione
della prestazione, fino ad arrivare alla produzione di protesi
per liberarsi dai limiti biologici, ai recenti e inquietanti
scenari aperti dalla manipolazione chirurgica e genetica [2].
Che il corpo possa essere così percepito è ben testimoniato
dagli importanti studi di Michel Foucault (1975) sull'organizzazione
della disciplina nelle istituzioni totali: il carcere, l’ospedale,
la caserma… la scuola. Ciò che veramente conta nell'esperienza
dell'educare - sostiene Foucault - non è infatti la persona
dell'educatore-insegnante-istruttore che sia, non è l'azione
educativa, non è il metodo o la tecnica, non è l'apprendimento
e neppure l'apprendimento dell'apprendimento; non è il contenuto,
non è la disciplina, non è la comunicazione, non è la conoscenza
del mondo psichico dell'educando, non è la dinamica sociale
e familiare, non è la cultura di provenienza. Ciò che veramente
educa è il reticolo che connette fra loro tutti questi elementi,
un "dispositivo" nel quale rientrano soprattutto la cura degli
spazi, dei tempi, dei corpi (Mottana, 2001). Foucault sottolinea,
ad esempio, come la tecnologia dell'organizzazione di uno
spazio seriale (la tradizionale fila di banchi orientati verso
la cattedra) costituisca la vera grande innovazione delle
tecniche comunicative dell'insegnamento, avendo determinato
un'economia dei tempi e degli spazi funzionale alla creazione
di una disciplina tesa a formare corpi docili, addomesticati
e, in quanto tali, predisposti alla assimilazione delle reti
precostituite del sapere disciplinare, al cui vertice egli
pone quello medico. Tutti noi siamo stati educati all’interno
di questo modello: nell'illusione educativa di poter educare
esclusivamente attraverso la parola e le buone intenzioni
senza dover fare i conti con altre dimensioni del sentire
e del conoscere. Siamo tutti cresciuti in quel pregiudizio,
già segnalato da Maria Montessori quando invitava, nella pratica
educativa, a rompere con l'associazione di ciò che è “bene”
con l'immobilità e la parola e di ciò che è male con la corporeità
e il movimento.
Negli anni '60-'70 si profila appunto, anche come reazione
al modello funzionale, un altro approccio al corpo e al movimento.
Motore di questo cambiamento è senza dubbio lo scenario sociale
e culturale di rivolta giovanile in cui si inscrive. Il conflitto
trasforma la visione del corpo da luogo da contenere e da
emendare in quella di luogo da ascoltare, da lasciar vivere.
Una visione complessa che potremmo definire di natura relazionale,
olistica, globale e dinamica. Non più considerato un oggetto,
bensì un campo, il corpo diventa strumento per intrattenere
rapporti con il mondo, sistema di opposizioni intorno a cui
si giocano nuovi conflitti e nuove domande di trasformazione
personale e collettiva. “Ho coscienza del mondo attraverso
il corpo” è lo slogan di quegli anni preso a prestito da una
famosa affermazione del grande filosofo della percezione Merleau-Ponty.
Il corpo non più visto dunque come “il mio corpo/il tuo corpo”,
bensì come territorio di confine, di contatto emotivo; il
corpo come sfondo e contesto per un'esperienza relazionale
e comunicativa da intendersi come evento intersoggettivo.
L'idea di corpo come campo si accompagna al recupero della
nozione di “dialogo primario”, che sottende il rapporto che
intratteniamo con le emozioni quale conseguenza del modo in
cui i nostri genitori si sono, sin dai primi giorni, relazionati
con noi a livello corporeo, della comunicazione non verbale.
Il bambino impara a riconoscere ed esprimere le emozioni attraverso
l’osservazione e l’imitazione. Ad esempio, se il bambino,
per qualche ragione, mostra perplessità e inarca le sopracciglia,
la madre inarcherà le sopracciglia “dicendogli” qualcosa che
è la sua interpretazione di ciò che lui pensa stia comunicandogli.
E’ la prima esperienza che fa il bambino di essere compreso
da un altro: è l’inizio della comunicazione emotiva. Il bambino
che, contrariamente a quello che si pensa, fin dai primi mesi
di vita dispone della capacità di crearsi delle rappresentazioni
del mondo di ciò che gli accade intorno, reagisce con dei
movimenti, delle contrazioni muscolari all’uso particolare
delle vocali e consonanti di sua mamma che gli parla. Le emozioni
hanno dunque delle radici corporee, legate al dialogo tonico.
Un noto ricercatore, Daniel Stern (1987), ha postulato l’esistenza
di un alfabeto emotivo primario, da lui definito degli “affetti
vitali”. Lo sviluppo di questi affetti nel bambino non dipenderebbe
dal fatto di essere stato coccolato, cullato, accudito eccetera.
Le differenze dipenderebbero da come la mamma lo ha tenuto
in braccio, da come gli ha parlato… da come queste qualità
di percepire le relazioni sono state introiettate da noi a
partire dalla relazione primaria con qualcuno/a che nel frattempo
si muoveva nello spazio, condizione che accresce ulteriormente
gli stimoli tattili, uditivi, visivi, cinestesici. Una piena
sintonizzazione corporea produce degli importanti risultati
a livello dei processi di apprendimento. Insegna, fondamentalmente,
cosa si può fare con uno schema motorio: indica opzioni, stili,
possibilità. E’ attraverso la sintonizzazione corporea che
noi tutti abbiamo imparato che le altre persone possiedono
differenti stati interiori e modi differenti di comunicarli,
che esiste un vissuto interno e uno esterno, che la comunicazione
è resa possibile dal delicato lavoro sulla distanza da porre
fra noi e gli altri senza che si smarrisca la relazione. In
ogni attività, in tutte le proiezioni di noi nel mondo ritroviamo
la nostra immagine del corpo. I modi di esprimerci ad ogni
livello, la costruzione delle nostre frasi, la nostra gestualità,
la scelta delle persone attorno a noi, la disposizione del
nostro appartamento, tutto questo e altro racconta di quell’immagine
e contribuisce a compensare costantemente, a livello simbolico,
la perdita del piacere originario.
Per le scuole di pensiero di matrice comportamentista, da
quest’immagine discende la nozione di “schema corporeo”, vale
a dire la maturazione delle capacità “prassiche” (l’integrazione
delle diverse parti del corpo al fine di realizzare coordinazioni
funzionali sempre più efficaci), che si consolida, parallelamente
allo sviluppo neurofisiologico, intorno al 12°-13° anno di
vita. Ma per altri teorici - come vedremo nel prossimo paragrafo
- tale diretta associazione risulta alquanto riduttiva, poiché
non è semplicemente stimolando ed educando il movimento che
si facilita o si ristabilisce la comunicazione, i cui fondamenti
sono innanzitutto la relazione, il piacere, la presenza.
Prevenire il corpo-docente
Disponiamo oggi, dunque, di due prospettive dalle quali considerare
l’ascolto e la comunicazione corporea. La prima consiste,
fondamentalmente, nel ritenere il linguaggio del corpo come
denotativo delle cose e delle persone. I tradizionali studi
della cosiddetta “Comunicazione non verbale” ne costituiscono
il vertice più significativo (Argyle, 1975). Secondo la CNL,
infatti, ogni segnale corporeo (gesti, atti, posture) rappresenta,
nella logica di causa-effetto, un indicatore esterno di uno
stato interno dell’individuo. Così, se di fronte ad un insegnante
tenderò a chiudermi nelle spalle, a guardare verso il basso,
ad abbassare il tono della voce ecc., tutto ciò starà inequivocabilmente
ad indicare il “mio” disagio verso quella relazione: l’ampia
pubblicistica a disposizione di questa opzione culturale si
sforza di completare il suo “catalogo” con una molteplicità
sempre più esaustiva di segni-segnali e relativi significati
che, aldilà di ogni giudizio di merito, finiscono con l’assegnare
alla comunicazione corporea, in nome dell’urgenza classificatoria,
un valore aggiunto ma subalterno, per non dire opzionale,
rispetto a quello della parola.
Ben diversa è la seconda prospettiva che invece s’interroga
sulle “funzioni relazionali” del dialogo corporeo.
Apro la porta del frigorifero. Il gatto arriva e si strofina
contro la mia gamba ed emette una variante della proposizione
“miao”. Asserire che comunica “Dammi del latte” può essere
utile, ma non è una traduzione corretta dal suo linguaggio
al nostro. Più fedelmente dovremmo tradurre “Sii mamma”, “Fammi
da mamma” (…). Questa forma di comunicazione non è riducibile
né ad uno stimolo né ad una risposta. Non è neppure riducibile
a “una descrizione” e nemmeno a “un ordine”, è “un’idea concretizzata”:
strofinandosi sulla mia gamba e facendo “miao” il gatto EVOCA
UN CONTESTO RELAZIONALE del quale lui è già pienamente parte
(…) ATTIVA UNA DINAMICA CONFIGURAZIONALE (…) in quanto coinvolge
l’interlocutore compromettendosi fisicamente ed emozionalmente
nell’evocazione di Gestalt che corrispondono a specifiche
e contingenti configurazioni della socialità e del potere
(Sclavi, 2003, pp.225-226).
L’esempio del gatto, che nella citazione Marianella Sclavi
prende a prestito da Gregory Bateson, illustra bene il passaggio
da un’attenzione corporea tutta centrata sulla psicologia
dell’individuo, qual è il caso della CNL, ad un’attenzione
impegnata al contrario ad inscriverlo in una relazione. Il
significato dell’interazione è da rintracciare nello spazio
corporeo aperto dall’incontro. Ascoltare e ascoltarsi attraverso
il corpo, significa divenire consapevoli che la relazione
che s’instaura a tale livello “è sempre autoriflessiva, circolare,
dialogica; rimanda, per essere descritta, alle reazioni, alle
reazioni alle reazioni. Non ci informa su cosa guardiamo ma
su come siamo dinamicamente impegnati a costruire i contesti
di cui siamo parte” (Sclavi, 2003, pp.231-232).
Un luogo per eccellenza dove più sensibile si è palesata la
ricerca intorno ad una simile consapevolezza è certamente
quello del teatro. In particolar modo di quel teatro che nel
secolo scorso più si è interrogato circa il senso da attribuire
alla relazione attore/pubblico. Messa in crisi la concezione
tradizionale della commedia borghese, di un teatro “liturgico”
nel quale tutto si risolveva nello “spostare il corpo” sul
palcoscenico per mandare a memoria un testo, alcuni grandi
riformatori dell’arte attorale si sono chiesti come fare per
mettere primariamente in scena l’attenzione e l’ascolto del
loro pubblico. Come l’attore diventa protagonista di una storia
che non gli appartiene? “Qual è l’elemento senza il quale
il teatro non può esistere?”. Queste e altre domande hanno
dato il via ad una stagione fertile di ricerca, incarnata
soprattutto in alcune figure. Valga qui per tutte quella di
Jerzy Grotowski, acclamato regista polacco, allievo di Stanislavskij,
che, nella seconda metà del ‘900, dopo aver messo trionfalmente
in scena solo pochi spettacoli, decidendo di “ritirarsi” dal
gioco delle rappresentazioni, inaugurò un nuovo modo di pensare
e fare teatro, interessante soprattutto per le straordinarie
analogie che esso ha saputo nel tempo manifestare - come richiamato
dalla illuminante citazione che segue - rispetto ai contesti
propri dell’educazione.
Un progetto formativo viene spesso concepito come un testo
normativo. Se invece, come formatore, educatore, insegnante,
penso il programma non come un testo ma come un copione teatrale,
il programma non si situa fuori dallo spazio dell’educare,
lontano da me e dai miei allievi, ma si pone come qualcosa
che “noi” dobbiamo “recitare” (Antonacci, 2001, p.82).
Per Grotowski si può eliminare la scenografia, si possono
eliminare gli effetti luce, l’intervento musicale, il trucco,
il costume, si può eliminare anche il testo, ma finché resta
la presenza fisica ed espressiva dell’attore a confronto con
il pubblico, il teatro (l’educazione) esiste: un’espressività,
una comunicazione e un ascolto possono essere instaurate.
A questa irriducibilità del corpo all’atto teatrale inteso
come potere d’ascolto (definita da Grotowski, “organicità”)
il regista polacco è arrivato attraverso un particolare percorso,
da lui definito “parateatrale”, basato sullo studio dei comportamenti
corporei che determinano le condizioni per “un uomo e una
donna attenti”, il quale merita di essere quantomeno accennato.
Nei suoi numerosi viaggi e stage in giro per il mondo, radunando
attorno a sé individui di differenti tradizioni e culture,
aldiquà delle ragioni religiose ed esoteriche, egli si era
reso conto di una semplice e profonda verità.
In diverse pratiche legate a momenti di culto, di meditazione
o di semplice attenzione, in culture distanti tra loro, i
corpi di coloro che cercano la concentrazione si trovano in
una posizione analoga: immobile e dinamica, in equilibrio
instabile, all’erta, al limite dello squilibrio. Quando le
pratiche rituali, a cui sono legate queste posizioni del corpo
si cristallizzano o istituzionalizzano, d’un tratto i corpi
si rilasciano. Ci si siede (Lorenzoni, 2002, p.102).
Da sempre, tutte le forme di meditazione e preghiera presuppongono
una disciplina posturale. In alcuni casi - come nell’essenzialità
buddista della corrente Zen - la comunicazione e l’ascolto
“di ciò che è più importante di noi” coincide strettamente
con l’attitudine corporea, è la postura. Quando però la liturgia
(della parola) prevale sull’energia della fede, allora… ci
si siede nelle chiese come si sprofonda nei nostri sempre
più soffici divani. Il corpo-docente si nasconde al riparo
della cattedra…
Una pedagogia dei piccoli mali
Quali vantaggi può trarre un educatore resosi sensibile agli
aspetti corporei della relazione formativa?
Sarà certamente un osservatore più attento di come i corpi
si dispongono e si muovono nello spazio, delle loro “danze”
(dei ritmi), ovvero delle varie possibili configurazioni relazionali
che i medesimi (incluso il proprio, ovviamente) dispiegano.
Soprattutto, non isolerà più i singoli comportamenti, con
l’inevitabile operazione giudicante che ne scaturisce. Di
conseguenza, saprà utilizzare tali consapevolezze come risorse
formative, ad esempio, chiedendosi: Cosa faccio (quali azioni)
prima di entrare in aula? E quando mi appresto ad iniziare
una lezione? Occupo sempre lo stesso posto? Sono consapevole
di essere fermo o in movimento quando lo sono? Con quali atti
“carico” i silenzi? Il mio tono della voce “punteggia” i passaggi
delle mie comunicazioni? Come guardo, cosa muovo, cosa penso
mentre ascolto? La pedagogia del corpo si offre perciò come
una pedagogia dell'ascolto e della presenza, un'attitudine
che legittima un diverso atteggiamento e posizionamento in
relazione all'altro, offrendo opportunità per cambiare le
configurazioni abitudinarie, per agire lo “piazzamento apprenditivo”.
Le parole che seguono, di un operatore nel campo della terapia
a mediazione corporea, ci aiutano a chiarire bene cosa significhi
stare nella relazione filtrandola attraverso il proprio corpo:
“durante una seduta con una mia piccola paziente, mi coglie
una grande sonnolenza. Il mio corpo diventa pesante, i ritmi
interni sembrano rallentare, il respiro si limita al torace.
Con un altro bambino, in un'altra occasione, invece, il respiro
è accelerato, mi sorprendo agitato, mi accorgo di muovere
molto il mio corpo. Con un altro bambino ancora mi sento girare
la testa, trattengo il respiro, non riesco a percepirmi con
la stessa solidità, le cose sembrano perdere i loro contorni
precisi, mi sento fluttuare” (Cartacci, 2002).
Sospendendo il giudizio, l'abitudine a voler immediatamente
intervenire, disponendoci ad ascoltare ciò che passa attraverso
il proprio corpo, si apre l'interazione educativa ad un flusso
continuo di segnali:
- come sto respirando?;
- come batte il mio cuore?;
- come varia il mio tono muscolare?;
- è la mia voce?;
- quale qualità esprime il mio gesto, il mio sguardo, la mia
mimica?;
- …
Sapere cosa provo attraverso il mio corpo di fronte all’altro
mi permette non solo di capire cosa l'altro prova, soprattutto
di generare naturalmente un’effettiva sintonizzazione, di
evidenziare e nominare emozioni e sentimenti che in-formano
la relazione con quel particolare bambino, adolescente o adulto
che sia. Il rapporto con il linguaggio del corpo, prima ancora
di divenire pratica psicopedagogica, è una "pedagogia dell'esistenza".
Una pratica della nostra quotidianità che possiamo affinare
oltre e prima che essa diventi pratica psicopedagogica, come
ci ricorda Alberto Melucci nella riflessione che segue, cui
affido la conclusione di questo mio contributo:
“Una delle esperienze più comuni in cui il conflitto del corpo
si manifesta nella nostra vita quotidiana sono i piccoli mali,
tutti quei fastidi e disagi fisici per i quali normalmente
non riteniamo necessario un intervento medico. Tutti noi,
in misura variabile, siamo afflitti o visitati da questi piccoli
mali (…). Che cosa significano per noi questi stati fisici
e queste sensazioni del corpo che ci visitano con tanta continuità?
(…) Ciò che connota i piccoli mali è il fatto che essi sono
nel corpo. Abbiamo mal di testa, mal di stomaco, mal di schiena,
e così via (…). Quali sono le risposte correnti che più o
meno tutti utilizziamo verso i piccoli mali? La più generale
è la negazione. Ciò significa che anche se fisicamente continuiamo
a registrare tutti i disagi di cui sappiamo, non facciamo
posto alla possibilità di nominare, di dare un senso a questa
parte della nostra esperienza (…). Col tempo non diciamo neppure
più "Ho mal di testa", ma ci rifugiamo nel più generico "Non
sto bene". L'altra risposta fondamentale ai piccoli mali è
il ricorso ai farmaci. Attraverso i farmaci si ottiene il
risultato fisiologico di ridurre o annullare il fastidio,
allontanando fisicamente l'ospite. Ma si raggiunge anche l'effetto,
più importante dal punto di vista psicologico, di cancellarlo
dalla lista. Dove prima c'era una presenza creiamo, mentalmente
e affettivamente, uno spazio vuoto. Il silenzio del corpo.
A noi allora decidere se cancellare questa relazione con un'elaborazione
mentale o con i farmaci, oppure se assumere la responsabilità
di dare senso alla nostra finitezza. Poiché i piccoli mali
non ci ricordano solo che siamo finiti e che possiamo morire,
ma anche che stiamo vivendo, che traduciamo nel nostro corpo
una condizione esistenziale, ambientale, relazionale (…).
Diventare vittime o interlocutori di questi processi dipende
anche dalla nostra vicinanza al corpo che siamo. Di fronte
al corpo asettico della medicina potremo far esistere un corpo
vivo solo se ne avremo imparato la parola” (Melucci, 1991,
pp.78-86).
NOTE
1] Quanto contenuto in questo
paragrafo riprende, in estrema sintesi, la materia di un mio
saggio di recentissima pubblicazione: Gamelli I., Pedagogia
e Scienze motorie, Guerini, Milano 2004.
2] Gli uomini (intesi come
genere maschile) non abitano il corpo. Probabilmente poiché
subalterni in relazione ai processi generativi della specie
– da questo punto di vista, molti studi di genere parlano
di "miseria del corpo maschile" – gli uomini hanno sempre
manifestato un'urgenza di emancipazione dal corpo, dal biologico,
dai suoi segnali, dall'ascolto. Un esempio emblematico è costituito
dalle vicissitudini occorse, nei tempi moderni, alle pratiche
della nascita, evento corporeo e misterioso per eccellenza.
La loro essenziale dimensione naturale, propria del genere
femminile, è stata progressivamente ospedalizzata e messa
sotto il controllo del sapere medico, non a caso ancora oggi
in questo settore prevalentemente maschile.
BIBLIOGRAFIA
Antonacci F., Cappa F. (a cura di), Riccardo Massa, (Lezioni
su) la peste, il teatro, l’educazione, Franco Angeli, Milano
2001, p. 82.
Argyle M., Il corpo e il suo linguaggio: Studio sulla comunicazione
non verbale, Zanichelli, Bologna, 1975.
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano,
1976.
Cacciamani S., Psicologia per l’insegnamento, Carocci, Roma,
2002.
Cartacci F., Bambini che chiedono aiuto, Unicopli, Milano,
2002.
Contini M.G. (a cura di), Il gruppo educativo, Carocci, Roma,
2000.
Fauché S., Du corps au psychisme, PUF, Paris, 1993.
Formenti L., L’ascolto che cura, in Gamelli I. (a cura di),
Il prisma autobiografico, Unicopli, Milano, 2003.
Foucault M., Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1975.
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