Pratiques narratives pour la formation
Francesca Pulvirenti (sous la direction de)
M@gm@ vol.3 n.3 Juillet-Septembre 2005
PENSARE IN CERCHIO: UN'ESPERIENZA EDUCATIVA DI PHILOSOPHY FOR CHILDREN
Alessandra Tigano
sandratigano@virgilio.it
Dottoranda di ricerca c/o la
Facoltà di Scienze della Formazione di Catania, si occupa
di ermeneutica e pedagogia critica, ha pubblicato saggi e
articoli su riviste nazionali di settore; Laureata in Pedagogia
presso l’Università di Catania; Insegnante a tempo indeterminato
di scuola primaria ed operatore psico-pedagogico c/o il 3°
Circolo didattico 'R. Chinnici' di Piazza Armerina (En), dove
ha avuto modo, come Teacher educator, di sperimentare il curriculum
di Lipman della Philosophy for Children.
1. PENSARE…
E PROGETTARE [1]
Sperimentare e sfidare abitudini, in tempi e in contesti di
standardizzazione dei comportamenti didattici, di omologazione
dei processi, dei saperi e di consolidate pratiche di insegnamento–apprendimento,
non è cosa semplice Ma quando c’è il desiderio di sperimentarsi
e di mettersi in gioco si affronta il nuovo con la voglia
di raccontare e comunicare quel che si è saputo o potuto fare
in certe circostanze. Rileggendo le schede e la documentazione
raccolta, a supporto dell’esperienza svolta, si ha la sensazione
di avere intrapreso un significativo percorso esperenziale
sia per i bambini che per i docenti coinvolti. Senz’altro
incoraggiante, originale. Tuttavia, una volta che il libro–testimonianza
è stato sfogliato con curiosità e riposto nello scaffale della
propria libreria, può accadere di domandarsi: “Che cosa ho
imparato?” Sì, sollecitazioni indubbiamente ce ne sono state,
il commento al percorso formativo svolto è sufficientemente
esplicito, le foto, i disegni e le registrazioni delle voci
dei bambini, le schede di valutazione finale delle sessioni
riescono senz’altro a delineare il cammino. Molte sono le
“tracce” degli alunni, testimonianza del loro impegno, emotivo
e cognitivo. Credo che la domanda iniziale, attenta e scrupolosa,
rivolta soprattutto a me stessa, mi abbia accompagnato nell’
interpretazione di quei momenti che hanno preceduto quella
abbondanza di pratica, quella profusione di esempi, spunti
e riflessioni sulla formazione iniziale in philosophy for
children [2].
Raccontare l’esperienza svolta non è sempre facile, ma è possibile,
attraverso la scrittura, intravedere quali siano stati i passaggi
mentali e operativi che hanno sostenuto e accompagnato le
sessioni di lavoro. Si tratta di narrare il vissuto di un’esperienza
educativa, facendo ricorso al punto di vista retrospettivo
dell’atto di scrivere, al fine di raccontarne le tensioni
pratiche ed intellettuali. Raccontare è innanzitutto ricordare,
dialogare con un’esperienza distanziata nel tempo per evitare
che essa sfugga all’oblio e alla dimenticanza. Pertanto, un
racconto di tipo autobiografico può servire per lasciare un
segno che vada oltre a delle schede utili per mostrare e monitorare
il lavoro svolto [3]. Formazione
e narrazione vanno di pari passo ed il racconto è qui inteso
come esperienza da condividere. Il metodo autobiografico aiuta
la mente a narrare di sé ed è utile alla ricerca e all’interpretazione
dell’esperienza formativa compiuta [4].
Esso chiama in causa l’approccio filosofico relativo al significato
della narrazione e della scrittura di sé, sia come occasione
di sviluppo cognitivo sia come modalità di stare con gli altri
imparando insieme. Raccontare un’esperienza educativa significa
richiamare quel tipo di memoria retrospettiva che Paul Ricoeur
chiama memoria interna (Ricoeur 2003, p.208). Quella memoria
che si collega direttamente alla riflessività personale dell’educatore,
al rapporto che, quella circoscritta pratica educativa ha
avuto con la percezione personale dell’esperienza formativa
stessa, comprese le aspettative e le resistenze iniziali.
Come in un viaggio “didattico”, caratterizzato soprattutto
da dubbi, ricerche e disponibilità al rinnovamento, mi sono
ritrovata a percorrere altri tracciati e a scoprire nuove
conoscenze. Queste, le motivazioni che si agitavano nell’intimità
dei miei pensieri e dei colleghi che sono riuscita a coinvolgere
Motivazioni affascinanti, che hanno attivato l’ideazione del
progetto “Pensare in cerchio”, secondo la metodologia della
philosophy for children.
Dedico queste mie riflessioni agli adulti, che hanno voluto
cimentarsi in questo tipo di esperienza e a tutti gli educatori
che continuano ad interrogarsi sul piano professionale ed
esistenziale.
2. PENSARE IL SETTING
L’esperienza di philosophy for children si è svolta lavorando
rigorosamente in cerchio: in piedi, nella parte introduttiva
alle sessioni dedicata al riscaldamento pre-verbale e basato
su giochi di ascolto e di relazione. Seduti, quando si è sperimentata
l’efficacia dei cerchi di narrazione come luoghi di condivisione
della lettura e dell’ascolto. Le attività di riscaldamento
si sono rivelate utili per creare un clima emotivamente “caldo”,
per unire il gruppo e per far sì che i bambini si sentissero
a proprio agio nello scambiarsi le idee e nel prendere parte
alle attività dialogiche. Giochi di ascolto e di relazione,
rituali importanti, che, immediatamente riconosciuti dai bambini,
hanno segnato l’inizio ludico degli incontri. Ogni territorio
narrativo ha bisogno di un suo ambiente, per cui la prima
cura è stata dedicata proprio sia all’ideazione e alla costruzione
del setting, che alla cornice in cui sono state attivate le
logiche narrative e i pensieri dei bambini. Pertanto, al fine
di creare un buon ambiente narrativo e di sviluppare un clima
di ascolto reciproco, anche i bambini sono stati coinvolti
nel “pensare” in che modo fosse possibile riorganizzare il
contesto fisico in cui si sarebbero tenuti gli incontri pomeridiani.
Entusiasmante, per i docenti, constatare come gli alunni si
misuravano con la capacità di ascoltarsi e di negoziare le
loro idee, per trovare una soluzione comune che potesse andar
bene per tutti. Sorprendente verificare come, sollecitati
a riflettere sulle parole che davano il titolo al progetto,
i bambini convogliavano le loro riflessioni nel pensare ad
uno spazio libero, senza banchi e sedie disposti in fila.
La “comunità di ricerca” [5]
si attivava nella costruzione del setting ideale.
Questi i contributi significativi dei bambini e le sollecitazioni
del facilitatore.
Facilitatore: Riflettiamo su queste parole: - Pensare in cerchio.
Sono le parole che danno il titolo ai nostri incontri pomeridiani.
Come ci possiamo sistemare all’interno della nostra aula?
Silvia: possiamo unire i banchi in mezzo all’aula e sistemare
le sedie intorno.
Valentino: uniamo i banchi ma rimaniamo sempre in fila.
Alessio: mettiamo i banchi in cerchio e noi ci sistemiamo
dentro il cerchio.
Noemi: …e leviamo anche la lavagna! La lavagna non ci serve
per pensare in cerchio!
Krystian: mettiamo i banchi in cerchio ma facciamo tanti piccoli
gruppi di quattro bambini ciascuno. E poi ci giriamo per ascoltare
i pensieri degli altri.
Andrea: secondo me è meglio togliere i banchi e metterli accostati
tutti al muro. Così possiamo sistemare le sedie al centro
dell’aula che formano un cerchio.
Alessio: i banchi non ci servono e questa sistemazione è la
migliore per ascoltare i pensieri di tutti.
Valentino: così senza i banchi ci aiutiamo a pensare.
Luigi: così con le sedie in cerchio pensiamo di più.
Giuseppe: i banchi non ci servono perché non dobbiamo scrivere.
Krystian: a scuola c’è molto pensiero e in cerchio possiamo
pensare insieme.
Facilitatore: allora in che modo ci sistemeremo oggi pomeriggio?
Giuseppe: come ha detto Andrea.
Facilitatore: siete tutti d’accordo sulla proposta di Andrea?
Tutti: Sìììì.
Rispettando la decisione presa nel corso della mattinata e
così come aveva suggerito Andrea, in occasione del primo incontro
pomeridiano, i bambini si sono subito attivati nel sistemare
le sedie in cerchio. L’idea di cambiare l’assetto tradizionale
dell’aula li coinvolgeva in un clima frizzante e carico di
energie. Del resto organizzare il setting operativo in modo
congeniale è un presupposto semplice e rigoroso determinante
per il successo formativo delle sessioni. Soltanto disposti
in cerchio si è potuto creare e delimitare uno spazio libero
per accogliere i pensieri individuali di tutti in forma non
gerarchica, ma reciproca e comune, favorendo il piacere di
ascoltarsi. Grazie a questo spazio liberamente costruito la
classe diveniva spontaneamente una comunità pensante (Cosentino,
2002, pp.154-158). L’entusiasmo e la capacità di coinvolgimento
dei bambini nel “pensare” collettivamente in che modo ci dovevamo
sistemare nel corso degli incontri già deponeva a favore delle
loro curiosità e aspettative. Ma ciò che costituisce riflessione
di grande interesse pedagogico è il commento di alcuni alunni,
i quali, nella loro maniera semplice e diretta di esprimersi,
hanno proposto di attuare il cerchio anche durante il “normale”
svolgimento delle attività curriculari.
Valentino: perché domani mattina non mettiamo i banchi in
cerchio?
Insegnante: perché vuoi cambiare la disposizione dei banchi?
Valentino: perché il cerchio è come l’arcobaleno e ci dice
pace.
Giuseppe: perché nel cerchio c’è più attenzione.
Silvia: nel cerchio siamo anche più tranquilli.
Ivan: nel cerchio mi sento più felice…
Marco: nel cerchio c’è anche più silenzio…
Alessio: nel cerchio c’è più concentrazione.
3. LA NARRAZIONE IN CERCHIO: DALLA NASCITA DELLE DOMANDE
ALLA COSTRUZIONE DEI CONCETTI
Immaginare, ascoltare, fare domande, è come sappiamo, un’inclinazione
naturale dei bambini. Una sorta di “passione” che, talvolta,
si blocca con l’avanzare della scolarizzazione. La progettualità
formativa che segue le indicazioni metodologiche della philosophy
for children bene si inserisce nel contesto di una relazione
che si svolge in forma circolare e cooperativa. Essa, partendo
dall’ascolto e dalla narrazione di storie, usa il cerchio
come figura e luogo fisico della comunicazione dove prende
corpo il dialogo a più voci. Richiamando la pratica filosofica
del cerchio come metafora della narrazione, si è potuto dialogare
intensamente e fare germogliare domande e desideri di conoscenza.
In questa prospettiva, il coinvolgimento dei bambini è stato
diretto ed immediato. Si ritrovano qui - coniugate insieme
- l’attualità del metodo socratico dell’interrogare, del dialogare
e l’intuizione platonica sulla impossibilità che nasca filosofia
se prima non si è lungamente vissuto e discusso insieme.
I bambini sono stati sollecitati a riflettere sulla vita di
tutti i giorni, sui momenti e sugli aspetti che provocano
inquietudine e spaesamento, e da cui si generano domande limite,
domande radicali, questioni filosofiche. Gli alunni delle
classi interessate hanno utilizzato“Elfie” (Lipman, 1999),
un racconto di M. Lipman che ha offerto importanti spunti
di discussione succedutisi secondo questo ordine: l’esistenza
dei nomi, l’esistenza del pensiero, come saremo da grandi,
il giusto e le buone maniere, l’autorità e le distinzioni.
Il manuale legato ad Elfie è stato utilizzato per chiarire
i concetti che emergevano nel corso delle sessioni, per proporre
preziosi esercizi da utilizzare quando la discussione procedeva
a fatica.
In tutti gli incontri sono stati presenti due osservatori
[6] con il compito di verbalizzare
l’intera sessione, gli interventi del docente-facilitatore
e dei bambini. La discussione non durava più di 15/20 minuti.
Per prendere il turno i bambini utilizzavano dei cartellini
colorati: solo chi li alzava in alto poteva prendere la parola.
Dall’analisi delle discussioni trascritte sono emerse due
riflessioni fondamentali: la prima riguarda il modo in cui
i bambini, dall’inizio alla fine della sessione, costruivano
i loro concetti sulle tematiche affrontate, mentre la seconda
riguarda la figura del facilitatore. Analizzare le discussioni
trascritte è servito soprattutto per riflettere sull’interazione,
già messa a fuoco da Vygotskij (Dixon-Krauss, 2000, pp.70-73),
fra l’esperienza del pensare in cerchio e del domandare e
la costruzione dei concetti. I bambini si sono misurati con
la “nascita” di alcune domande: “Perché esistono i nomi? Che
cos’è una distinzione? Chi è il direttore? Che cosa sono le
maniere? Come saremo da grandi? Si può pensare e non parlare?”.
Ascoltare il testo era solo un pre-testo per introdurre temi
interessanti e per filosofare con i bambini per stimolarli
a fare domande e “farli riflettere col pensiero sulle operazioni
e le procedure del pensiero” (Cosentino, 2002, p.251). Infatti,
attraverso le discussioni i bambini hanno tentato di concettualizzare
i problemi, affrontando ipotesi, procedendo a confronti fra
le idee, definendo e chiarendo i pensieri di cui si discuteva
nelle sessioni. I bambini sono rimasti affascinati dal parlare
in cerchio, dal continuo interloquire e germogliare di domande,
nate dalle loro esperienze e socializzate all’interno del
cerchio. Per loro, pensare per raccontare i propri pensieri,
significava pronunciare concetti spontanei nati dall’esperienza
quotidiana. Attraverso l’incontro con il pensiero dell’altro
i bambini hanno trovato spiegazioni, esemplificazioni ed hanno
affrontato ipotesi differenti. L’esperienza del domandare,
la capacità di classificare fatti e concetti, di intuire le
relazioni tra i pensieri, la capacità di ascoltare e modificare
le proprie opinioni sono abilità cognitive complesse che la
sperimentazione della philosophy for children ha sicuramente
sviluppato. Alla fine di ogni sessione i bambini hanno tentato
di elaborare dei concetti conclusivi sulle tematiche affrontate.
Concetti che in qualche modo chiudevano la discussione, ma
non in modo rigido e definitivo. La necessità non era quella
di giungere ad un punto fermo, ma di tentare di trovare delle
soluzioni ai problemi emersi nel corso degli incontri. Cominciare
a definire un problema, cercare di tentare di dare delle prime
definizioni ad una domanda elaborata dal gruppo, credo sia
la strada più opportuna che conduce alla progressiva consapevolezza
dell’uso del concetto. Consapevolezza che è ancora all’inizio
nelle menti dei bambini di 7/8 anni ma che apre, metodologicamente,
la via verso uno sviluppo maggiormente deliberato di questa
capacità.
A supporto di quanto detto finora - e per capire in che modo
i bambini hanno tentato di costruire i loro concetti - si
riportano gli stralci di due sessioni: quella sull’esistenza
dei nomi e quella relativa alle buone maniere Ciò può essere
utile al fine di ripercorrere i passaggi mentali e i progressi
registrati dal gruppo che si impegnava nel tentativo di affrontare
e concettualizzare i problemi emersi. La tematica dei nomi
ha coinvolto i bambini in modo particolare. E’ stato, non
solo l’argomento portante di un’intera sessione, ma si è sentito
il bisogno di continuarla anche in orario antimeridiano nel
corso delle attività curricolari di lingua italiana.
Lettura del primo episodio di Elfie capitolo primo.
[…]
Emanuele: i nomi vengono dai bisnonni.
Denise: o dal padre dei bisnonni.
Giorgio: perché esistono i nomi?
Rita: i nomi esistono perché altrimenti non ci possiamo chiamare,
non ci possiamo distinguere.
Giorgio: senza i nomi ci chiamiamo:- Ehi, tu con gli occhiali
e il naso lungo!
Arianna: i nomi esistono per chiamarci.
Manuela: i nomi servono per chiamarci quando andiamo a scuola
o siamo con i nostri amici…
Denise: anche i nostri genitori ci chiamano con il nostro
nome.
Gabriele: i nomi esistono per riconoscere tutte le cose. I
nomi non si possono cambiare perché altrimenti i nostri amici
non ci riconoscono più.
Arianna: se cambiamo i nomi le persone non ci riconoscono
più.
Giorgio: gli altri non sono liberi di chiamarci come vogliono
perché la scelta di cambiare il nome spetta solo a noi.
Barbara: una volta avevo un gatto che si chiamava Curacciò.
Ho trovato un nome più carino e ho cambiato il nome al gatto.
Il gatto non mi rispondeva più e non capivo il perché. Poi
mi sono ricordata che i nomi non si possono cambiare e non
l’ ho cambiato più. Ho richiamato il mio gatto Curacciò.
Stefano: i nomi esistono per parlare.
Lettura del primo episodio di Elfie capitolo secondo.
[…]
Alessio: le maniere sono come ci comportiamo Per esempio ci
possiamo comportare in modo civile ed educato; oppure al contrario,
in modo maleducato!
Insegnante: che vuol dire essere maleducati?
Giuseppe: significa non avere delle buone maniere.
Luigi: le maniere sono buone quando sono giuste. Qualche volta
si possono avere delle idee buone ma si fanno in modo sbagliato.
Per esempio, una volta volevo regalare un disegno alla mamma
ma quando l’ho ritagliato ho sbagliato tutto. L’idea però
era buona.
Morena: fare le cose sbagliate non è fare le cose giuste.
Quando si sanno le cose si fanno in modo giusto. Una cosa
è sbagliata quando si fanno le cose male e non vengono bene.
Giuseppe: una persona maleducata è una persona che non usa
le buone maniere e che non si sa comportare.
M. Teresa: lo Stato e i genitori stabiliscono le regole e
dicono chi è una persona maleducata.
Si è notato come i bambini, nell’ affrontare le discussioni
collettive, utilizzavano con maggiore frequenza i connettivi
“forse, perché, altrimenti”, partecipando alla ricerca con
esempi pertinenti provenienti dalle loro esperienze personali,
manifestando un profondo piacere nell’ascoltarsi e nel portare
ognuno il proprio contributo legato ai loro vissuti. Grazie
all’ascolto reciproco i bambini cominciavano ad associare
i loro pensieri a quelli degli altri. Inoltre, gli alunni
hanno rafforzato la voglia di interrogarsi su situazioni -
problema anche al di fuori delle sessioni sperimentali. Ad
esempio, tutte le volte che i bambini si cimentavano nella
lettura di brani tratti dal loro libro di testo [7],
affrontavano le letture avviando in classe delle piacevolissime
discussioni. In sostanza anche il libro di lettura (come la
lettura degli episodi di Elfie) è diventato un pre-testo per
avviare delle discussioni - problema. Nel corso dell’anno
la classe si è più volte costituita naturalmente come una
comunità che ha ricercato, nell’ambito delle attività cosiddette
curricolari legate alla lettura, il significato di molte parole
e di alcuni concetti [8].
Nel passaggio procedurale che conduce, dalla nascita delle
domande ad un tentativo mentale di costruzione dei concetti,
ho trovato fondamentale il concetto vygotskijano di “area
di sviluppo prossimale” che racchiude in sé l’idea dello sviluppo
concettuale. Per Vygotskij il problema è di riuscire ad individuare
l’area di sviluppo “prossimale” del bambino (o “potenziale”,
dipende dalle traduzioni), che definisce così: “il divario
tra l’età mentale effettiva di un bambino e il livello ch’egli
raggiunge risolvendo certi problemi con un po’ di aiuto, indica
la zona del suo sviluppo prossimale” (Vygotskij, 1954, p.129)
[9]. Nel condurre le sessioni
in philosophy for children mi sono resa conto quanto attuale
fosse questo fondamentale concetto vygotskijano e di quanto
questo concetto “circolasse”, quasi inconsapevolmente, “dentro
il cerchio pensante”. Quando questo si misurava con la capacità
di affrontare problematiche discussioni collettive; condurre
le sessioni è stata, pertanto, occasione di riflessione pratico–teorica
su questa importante prospettiva vygotskijana che sostiene
e prende corpo nella conduzione pratica delle sessioni della
philosophy for children.
Analizzare i pensieri dei bambini, nel momento in cui sono
impegnati in attività di apprendimento, credo sia una delle
chiavi dell’insegnamento che consiste nel riuscire a capire
a cosa e a come pensano i bambini in situazioni formative
progettate con questo scopo e con queste finalità. Certo non
è sicuramente facile da un punto di vista didattico, individuare
quest’area di sviluppo per ciascun bambino, ma tenere presente
la sua esistenza può portare a una maggiore attenzione nel
progettare dei laboratori o dei progetti didattici che si
prefiggono l’obiettivo di “scoprire” quali idee o concetti
i bambini già possiedono ed aiutarli ad acquisire nuove “consapevolezze”
Consapevolezze e competenze che non nascono da una riflessione
individuale, ma dall’ascolto reciproco che avviene solo “dentro”
il cerchio. E’ solo dalla circolarità del pensiero e dalle
numerose mediazioni e negoziazioni che cresce concettualmente
senza mai attestarsi su posizioni statiche e definitive.
4. VALUTAZIONE DELLA SPERIMENTAZIONE
Che cosa si può dire sulla qualità della sperimentazione?
I dati presi in carico per valutare questa esperienza formativa
si riferiscono alle registrazioni, da parte degli osservatori,
di ciò che è successo durante gli incontri. Gli appunti sono
stati un valido aiuto per analizzare, in un secondo momento,
gli interventi degli alunni e quelli del facilitatore. Considerato,
comunque, che è molto difficile valutare i progressi registrati
durante i dialoghi, si cercherà di dire sommariamente quali
sono stati i dati più importanti registrati alla fine della
sperimentazione e dell’anno scolastico. I bambini hanno tratto
dei benefici dal farsi coinvolgere in attività che si svolgevano
in classe, ma in una classe trasformata e de-strutturata poiché
i banchi in fila non esistevano più, esisteva solo un cerchio
fatto di sedie con un tappeto al centro, simbolo e metafora
dei nostri pensieri, punto d’incontro del nostro ascoltare
e pensare insieme. La creazione di questo tipo di ambiente
è stata fondamentale al fine di migliorare l’atmosfera della
comunicazione e di registrare dei benefici relativi al benessere
sociale ed emotivo. Nello specifico, tali benefici hanno riguardato
lo sviluppo di una maggiore autostima (Plummer, 2003, pp.13-18)
poiché ciascun alunno si è sentito capace di pensare, degno
di essere ascoltato e di essere preso in considerazione, registrando
così delle relazioni più soddisfacenti all’interno del gruppo
classe.
Si è riusciti a creare una relazione caratterizzata dall’accoglienza
e dalla considerazione di tutti i bambini coinvolti nel cerchio
e tutti hanno avuto la possibilità di esprimersi. Alla fine
dell’anno, e a conclusione della sperimentazione gli alunni
hanno maturato la coscienza di far parte di un gruppo dove
ognuno può inserirsi, di far parte di una comunità che si
pone domande e che va alla ricerca di ipotesi e soluzioni.
Anche i bambini più introversi e problematici hanno trovato
il loro spazio di comunicazione e di ascolto. Nel particolare
un alunno che si relazionava con atteggiamenti conflittuali
con i compagni di classe durante le attività curricolari ha
avuto una crescita personale nelle relazioni con gli altri,
migliorando il suo comportamento egocentrico e le sue performances
scolastiche. Liberi di parlare, di tacere o di ascoltare,
liberi di valutarsi e di valutare la sessione alla fine degli
incontri sulla base dei loro interessi o atteggiamenti riscontrati.
Alla fine tutti hanno avuto una parte attiva nell’esprimere
i loro pensieri quando lo desideravano. Per valutare le sessioni
i bambini hanno utilizzato dei simboli; si è trattato di una
valutazione di tipo emotivo - affettivo, che cercava di puntare
l’attenzione sulla partecipazione, sul numero degli interventi
e sull’interesse manifestato nel corso della sessione [10].
In linea generale i bambini hanno espresso sempre valutazioni
positive anche quando la sessione è stata disturbata da chiacchiere
e risatine, con poco rispetto delle regole necessarie per
prendere il turno della parola. Queste frasi possono essere
indicative delle valutazioni che i bambini hanno espresso
a conclusione delle sessioni: “Questo incontro mi è piaciuto
moltissimo”; “Mi è piaciuto perché ho letto e perché abbiamo
parlato di cose interessanti”. Tra le valutazioni “negative”
si può segnalare quella di Davide, un bambino che nel corso
del primo incontro, dopo essere stato in una posizione di
assoluto silenzio e di osservazione di quanto stava succedendo,
ha valutato la sessione in questo modo: “Questo incontro non
mi è piaciuto perché non abbiamo fatto niente, abbiamo solo
parlato; in genere, quando rientriamo a scuola di pomeriggio,
voi maestre ci fate disegnare, colorare, ritagliare, ci fate
usare la plastilina o ci fate modellare la pasta al sale;
questa volta non abbiamo fatto niente!”
Si segnala come l’alunno - che ha valutato con queste parole
il suo disagio iniziale, probabilmente disorientato da un’attività
senza specifiche richieste da parte del facilitatore - si
è successivamente aperto al gruppo intervenendo con maggiore
frequenza. Credo che in realtà segnalava il diverso atteggiamento
del suo insegnante che in occasione di altre attività precedentemente
svolte, assumeva un abito più direttivo; mentre da facilitatore
delle sessioni si “sforzava” di non imporre i suoi classici
monologhi e di facilitare le discussioni tra gli alunni. A
tal proposito, ed in fase di valutazione finale della sperimentazione
da parte dei docenti, si è rilevato come è molto faticoso
da parte del facilitatore, dismettere l’abito di figura direttiva
che, solitamente, ricopre in classe nella conduzione delle
attività La sfida consisteva nell’essere un po’ meno maestri,
nell’ astenersi dal parlare, nel parlare a “denti stretti”
al fine di coinvolgere gli alunni nella costruzione delle
loro conoscenze. Nelle sessioni di philosophy for children,
il docente è continuamente costretto a rivedere il suo ruolo;
nulla è dato per scontato e deve, soprattutto, resistere alla
tentazione di dare la propria interpretazione personale. Egli
come facilitatore - dopo aver individuato tutti i possibili
spunti filosofici presenti nella lettura che intende proporre
alla classe - ha il compito di sostenere il lavoro di ricerca
dei bambini, di seguire i loro punti di vista, di rispettarli
senza analizzarli e giudicarli. Solo seguendo queste semplici
indicazioni può essere un bravo facilitatore che guida la
discussione proponendo al momento giusto delle domande aperte
che inducono gli alunni a pensare e a dialogare in cerchio.
Niente di quello che viene detto o “prodotto” può essere “sbagliato”
in sé, è molto importante che i bambini capiscano questa regola
fin dall’inizio, in modo da sentirsi a proprio agio nel fare
i loro interventi. E’ importante che i bambini possano dire
le cose apertamente, senza paura di sbagliare. Si è notato,
inoltre, come l’interazione verbale e prossemica tra gli alunni
e il facilitatore è stata continua. Quest’ultimo è stato colui
che aiuta i bambini a formarsi una visione più ampia del loro
mondo interiore ed esteriore, permettendo loro di considerare
gli eventi, i problemi e le difficoltà da un altro punto di
vista, colui che li sostiene a trovare il modo più appropriato
per soddisfare il loro bisogno di dire e di parlare [11].
Pensare e condurre le attività in cerchio è diventata una
risorsa naturale che nessuna scuola può permettersi di ignorare
ma, piuttosto, deve promuovere e potenziare. In questo senso,
si afferma ormai da più parti come la philosophy for children
può apparire una delle possibili strade per costruire l’autonomia
(Filomena Cinus, 2003, pp.129-131). Essa mette tutto in discussione,
dalla prossemica della classe, al ruolo dell’insegnante, dal
modo di concepire le menti dei bambini alle discipline curricolari.
Essa non rappresenta soltanto uno dei tanti percorsi alternativi
che la scuola dell’autonomia può proporre all’interno del
suo Piano dell’Offerta Formativa poiché mira ad una totale
riformulazione dell’impianto pedagogico, metodologico, psicologico
ed epistemologico dei processi di insegnamento e apprendimento.
Queste attività dovrebbero diventare una routine consolidata
in molte classi, poiché possono servire ad un apprendimento
che si realizza in un contesto mirato e ad un approccio globale
della persona. Se infatti, il lavoro del bambino è quello
di imparare, il lavoro della scuola è quello di progettare
dei percorsi formativi adatti tali da permettere che l’individuo
si rappresenti il mondo attribuendogli significati personali
e sociali. Si può dunque, considerare il “filosofare” una
competenza trasversale e per molti aspetti metacognitiva che
può rientrare a buon diritto all’interno di un curriculum
dai saperi forti ed essenziali in linea con le ottime pratiche
educative e pedagogiche che da sempre hanno caratterizzato
l’identità della scuola primaria.
Il tentativo di questa sperimentazione condotta al 3° circolo
“R. Chinnici” di Piazza Armerina è stato quello di puntare
sul dialogo fra bambini e di imparare a pensare filosoficamente.
Una pratica pedagogica e filosofica che può rientrare nella
quotidianità della didattica delle discipline per una formazione
integrale dell’uomo e del cittadino e che mira ad educare
le menti. Delle menti che non vengono “istruite” ma sospinte
continuamente alla ricerca e alla costruzione autonoma del
sapere.
NOTE
1] “Pensare in cerchio” è
il titolo di un progetto inserito nel Piano dell’Offerta Formativa
del 3° circolo “R. Chinnici” di Piazza Armerina per l’anno
scolastico 2003/2004 e destinato alle classi II C - II D del
plesso Costantino. Il progetto mirava alla sperimentazione
del curricolo e della metodologia della Philosophy for children
(in acronimo P4C) di M. Lipman; prevedeva l’utilizzo di Elfie
- uno dei racconti che fa parte del curricolo della P4C che
si presta ad essere utilizzato per bambini di II elementare
- e del manuale per l’insegnante ad esso corredato in cui
sono indicati i piani di discussione, gli esercizi e le attività
- stimolo. Le riflessioni presenti in questo articolo sono,
pertanto, il frutto di questa sperimentazione didattica condotta
da chi scrive, in qualità di teacher educator.
2] Per poter gestire un’esperienza
educativa di questo tipo, chi scrive ha avuto la possibilità
di formarsi come teacher educator dell’ICPIC (International
Council for Philosophical Inquiry with Children) in occasione
del corso nazionale svoltosi ad Acuto nell’estate 2003 con
i formatori A. Cosentino, M. Lupia, M. Santi, M. Striano e
A. Volpone.
3] Il metodo autobiografico
è qui utilizzato come pratica personale, come esigenza - da
parte di chi ha condotto la sperimentazione - di cercare il
senso di tale esperienza, per riflettere, per interpretarla
e farne memoria (Cfr. a questo proposito G. Starace, Il racconto
della vita, Bollati Boringhieri 2004).
4] Soltanto a queste condizioni
il racconto di esperienze educative e formative trova la sua
giusta collocazione e giustificazione; occorre prendere coscienza
che viviamo in un mondo narrativo ed è soltanto attraverso
la narrazione che è possibile socializzare a qualcuno le proprie
esperienze (Cfr. a questo proposito F.Bianchi, P. Farello,
Laboratorio dell’autobiografia. Ricordi e progetto di sé,
Erickson, Trento 2002, p.15).
5] La locuzione “comunità
di ricerca” implica, secondo Lipman, la trasformazione della
classe in una comunità riflessiva che pensa intorno a delle
questioni problematiche ritenute importanti dalla comunità.
La classe diventa una comunità dialogica e cooperativa, a
garanzia di una società democratica. Il concetto di comunità
di ricerca è un’idea basilare del curriculum della philosophy
for children; ma la dizione “comunità di ricerca” trae le
sue origini dal filosofo e logico americano C. S. Peirce;
sarà G. H. Mead ad amplificare le profonde implicazioni educative
dell’idea di comunità di ricerca che verrà ripresa ampiamente
da M. Lipman, ideatore del curriculum della P4C (Cfr. a questo
proposito C. S. Peirce, The fixation of Belief, in J. Buchler,
a cura di, Philosophical writings of Peirce, New York, 1955;
G. H. Mead, Self and Society, University of Chicago Press,
1934; M. Lipman, Pratica filosofica e riforma dell’educazione,
in Bollettino SFI, n. 135, 1988; M. Lipman, Il cammino della
ricerca, in Crif. Bollettino SFI, n. 0, 1994; M. Lipman, Thinking
in education, Cambridge University Press, 1991).
6] Gli osservatori delle
sessioni sono stati due insegnanti curricolari delle classi
coinvolte: l’insegnante di sostegno Florianna Calia e l’insegnante
dell’ambito logico-matematico Salvatrice La Vaccara. In fase
di elaborazione del progetto e durante gli incontri fra docenti
- che hanno preceduto tutte le sessioni di incontro con i
bambini - le colleghe si sono puntualmente documentate leggendo
il racconto Elfie e la guida corredata. Gli incontri fra colleghi
si sono rivelati utilissimi per cercare di capire quali erano
i ruoli di ognuno, per monitorare continuamente gli obiettivi
formativi iniziali indicati nel progetto, per discutere sui
dubbi metodologici di ognuno e le reazioni dei bambini registrate
nel corso delle sessioni e nella prassi quotidiana.
7] S. Magon, Micio Mao, Cetem,
Milano 2002, classe seconda. Questo è stato il libro di lettura
utilizzato dalle classi coinvolte nel progetto “ Pensare in
cerchio”.
8] Dopo una prima lettura
la classe cominciava spontaneamente a costruire la sua Agenda
di discussione per poi confluire verso una discussione tematica.
A titolo esemplificativo si riporta uno stralcio del piano
di discussione nato a seguito della lettura del brano “E’
meglio un libro o il televisore?” intorno al tema del pensiero
e della libertà. La classe si è interrogata sull’origine dei
pensieri e si è registrata la nascita di domande significative:
“Il pensiero è libero? E’ meglio leggere un libro o guardare
la TV?
Stefano: questo racconto mi è piaciuto perché dice che il
pensiero è libero. Il pensiero è libero perché posso pensare
quello che voglio. Il pensiero lo pensa la mente oppure l’anima.
Salvatore: forse l’anima e lo spirito sono la stessa cosa.
Paolo: secondo me il pensiero può non essere libero però non
lo so spiegare Si associa Jason.
Insegnante: c’è qualcuno che vuole aiutare Paolo e Jason a
spiegare il loro pensiero?
Miriana: per esempio il pensiero non è libero quando i genitori
pensano e i bambini devono fare quello che hanno pensato i
genitori.
Paolo: si, volevo dire questo. Brava Miriana!
Jason: anch’io volevo dire questo!
Giuseppe: il pensiero è libero quando io posso scegliere.
Per esempio, posso scegliere di leggere il libro che voglio;
mentre con la TV non lo posso fare. Accendo la TV e mi vedo
quello che trovo.
Arianna: io non ho capito di che cosa state parlando…
9] Il concetto vygotskijano
di “area di sviluppo prossimale” racchiude in sé l’idea dello
sviluppo concettuale. L’interiorizzazione delle idee avviene
progressivamente solo grazie ad una buona formazione mirata
alla zona di sviluppo prossimale. Questa è la zona che corrisponde
alla spazio intermedio fra il livello di sviluppo attuale
del bambino, le sue autonomie e capacità, e il suo livello
di sviluppo potenziale, determinato dalla sua capacità di
risolvere problemi attraverso la collaborazione e la cooperazione
con i compagni; nella risoluzione dei problemi è importante
la mediazione del docente facilitatore.
10] Questi i simboli utilizzati
per valutare le sessioni: Il sole che splende (sono stato
benissimo e a mio agio; la discussione è stata interessante,
ho ascoltato gli altri e sono stato ascoltato quando alzavo
il cartellino). Il sole con le nuvole (in alcuni momenti non
sono stato bene perché qualcuno disturbava o io stesso ho
disturbato la conversazione). Un temporale (non sono stato
bene perché la discussione non mi interessava, qualcuno ha
disturbato per tutto il tempo o io stesso ho disturbato la
conversazione).
11] Una delle difficoltà
principali è stata quella di regolamentare la presa di parola
dei bambini poiché parlavano senza aspettare il proprio turno;
si è visto come nel prosieguo delle sessioni cominciavano
a circolare frasi del tipo: “Mi associo a quello che ha detto…però
aggiungo…”, “Ritiro ciò che ho detto prima perché l’idea di…
mi piace di più e mi ha convinto”, “Io non ho capito quello
che avete detto me lo potete spiegare meglio?” I bambini hanno,
dunque, sviluppato la capacità di ascoltarsi, di tener conto
di opinioni diverse e di cambiare idea.
BIBLIOGRAFIA
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e progetto di sé, Erickson, Trento, 2002.
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Liguori, Napoli, 2002.
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Trento, 2000.
Filomena Cinus M., C’era una volta Socrate: Testi e pretesti
per pensare in cerchio, IRRE Sardegna, 2003.
Lipman M., Elfie, adattamento, cura e traduzione di M. Striano,
Liguori, Napoli, 1999.
Lipman M., Il cammino della ricerca, in Crif. Bollettino SFI,
n.0, 1994.
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1991.
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Bollettino SFI, n.135, 1988.
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1934.
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di, Philosophical writings of Peirce, New York, 1955.
Plummer D., La mia autostima, Erickson, Trento, 2003.
Ricoeur P., La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina,
Milano, 2003.
Starace G., Il racconto della vita, Bollati Boringhieri, 2004.
Vygotskij L., Pensiero e linguaggio, Giunti-Barbera, 1954.
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