Pratiques narratives pour la formation
Francesca Pulvirenti (sous la direction de)
M@gm@ vol.3 n.3 Juillet-Septembre 2005
LA RICERCA NARRATIVA IN PSICOLOGIA: UN FONDAMENTO PER LA FORMAZIONE
Santo Di Nuovo
s.dinuovo@unict.it
Professore ordinario, Cattedra
di Psicologia, Istituto dei Processi Formativi, Università
degli Studi di Catania e Preside della Facoltà di Scienze
della Formazione; ha pubblicato numerosi volumi e articoli,
alcuni dei quali riguardanti in particolare la metodologia
della ricerca e gli strumenti di valutazione delle funzioni
cognitive e della personalità; gli argomenti trattati in questo
scritto trovano più ampia e approfondita trattazione nel volume
"Fare ricerca: Introduzione alla metodologia per le scienze
sociali", ediz. Bonanno (Acireale-Roma, 2004).
LA RICERCA
NARRATIVA E LA SUA SPECIFICITÀ METODOLOGICA
La ricerca narrativa trova ampio spazio da tempo nelle discipline
storiografiche ed etnografiche, ed ha ormai fatto il suo ingresso
a pieno titolo anche nelle scienze psicologiche, pedagogiche
e formative. Si tratta di un approccio qualitativo che mira,
appunto attraverso il ‘raccontarsi’, a descrivere e comprendere
il significato e il valore attribuito da particolari individui
o gruppi sociali agli eventi o situazioni che costituiscono
l'oggetto della ricerca.
Questo tipo di approccio era già contenuto nella ‘sociologia
comprensiva’ di Max Weber e nelle teorie fenomenologiche;
ha però assunto una collocazione autonoma nelle scienze sociali
a partire dagli anni ’60 del secolo scorso (la fondamentale
opera di Glaser e Strauss è del 1967). Negli approcci più
recenti si mira alla costruzione di una ‘grounded theory’,
derivando per via induttiva modelli teorici che consentono
la comprensione, il controllo e la generalizzazione dei fenomeni
studiati, e in particolare dei cambiamenti conseguenti ad
interventi psicologici, educativo-formativi, clinici. In questi
settori la ricerca qualitativa assume caratteristiche peculiari,
sulle quali è opportuno soffermarsi per definire le coordinate
utili ad un’integrazione con le – pur indispensabili – metodologie
quantitative.
Nella ricerca qualitativa diversi devono essere gli strumenti:
sono più utili non tanto le tecniche tradizionali dell’assessment
come test, self-report e questionari, ma strumenti meno intrusivi
e meno fondati su significati semantici e, appunto sulla ‘narrazione’.
E’ quanto avviene per esempio nella descrizione fenomenologica
di idee prevalenti; nei resoconti su ciò che accade o è accaduto
in un gruppo, secondo la percezione soggettiva dei partecipanti;
nel racconto di sé e delle relazioni interpersonali e sociali
attraverso il colloquio; nella raccolta di storie di vita
paradigmatiche mediante diari, narrazioni autobiografiche.
Proprio il metodo biografico, e in generale quello narrativo,
è esempio tipico di approccio ‘olistico’ e non riduttivo alla
psicologia. Lo scopo comune a questi strumenti è raccogliere
informazioni mirate a ricostruire il ‘senso’, mettendo provvisoriamente
tra parentesi l’interpretazione; per cui le griglie di lettura
e di analisi devono essere costruite a posteriori e non essere
preesistenti ‘gabbie’ precostituite in cui inquadrare l’oggetto
di ricerca; strumenti in cui spesso il coinvolgimento del
ricercatore è utile e in alcuni casi indispensabile per la
comprensione di “ciò che realmente succede”.
Nella ricerca qualitativa di tipo narrativo deve essere diverso
rispetto alla ricerca sperimentale anche il campionamento
delle osservazioni, che non può basarsi sulla tradizionale
ricerca del gruppo ‘statisticamente rappresentativo’, ma in
alternativa, sull’uso di casi singoli e conseguente su un
campionamento longitudinale delle osservazioni; oppure su
un campionamento ‘teoretico’ (Strauss e Corbin, 1990; Patton
1990) che si avvale di casi estremi, di esperienze intensive,
di casi critici per la teoria. “Meno casi, ma scelti in modo
mirato e studiati in profondità” è la regola generale del
campionamento qualitativo.
La codifica dei dati raccolti mediante tecniche narrative
avviene avvalendosi di categorie derivate dai dati ‘aperti’:
categorie prima molto ampie poi via via più focalizzate, fino
alla individuazione delle nuclei centrali (core), in un confronto
continuo con i dati cui le categorie individuate devono adattarsi
in modo sempre più stringente man mano che i dati aumentano
di quantità e articolazione. Si può passare quindi alla fase
in cui si cominciano a verificare relazioni specifiche fra
le categorie, e il campionamento è mirato a questo confronto
critico (non, come si è già detto, alla rappresentatività
statistica).Quando il fit tra categorie e dati sarà più stretto
ma al tempo stesso più variegato si potrà pervenire alla ‘saturazione’
della teoria, cioè ad una teoria fondata sui dati e sulle
loro variazioni, e quindi applicabile a situazioni e contesti
diversi (Ricolfi, 1997).
Nel report di ricerca narrativa si riportano non solo le descrizioni
delle categorie, con gli appunti (memos) che servono ad esemplificarne
i contenuti, ma anche i confronti all’interno delle categorie
e fra di esse, esposti in forma sia discorsiva che diagrammatica;
il confronto con la letteratura già esistente sull’argomento,
che quindi non è soltanto preventivo, allo scopo di formulare
le ipotesi, ma anche esplicativo dei dati ottenuti.
Infine occorrono tecniche di analisi dei dati in grado di
analizzare i dati non come verifica finale ma ‘in progress’,
in itinere, in modo da focalizzare meglio le variabili su
cui procedere ulteriormente: le analisi più adatte sono quelle
sequenziali, le time-series, le ‘survival’; oppure cross-tabulations,
analisi log-lineari e delle corrispondenze in cui una delle
variabili è costituita dal tempo [1].
APPLICAZIONI DEL METODO QUALITATIVO ALLA RICERCA PSICOLOGICA
Oltre i classici testi di Miles e Huberman (1984), Strauss
e Corbin (1990), i più recenti saggi di Mucchielli (1994),
Charmaz (1995), Pidgeon e Henwood (1997), Bryman e Burgess
(1999) e l’ampio manuale di Denzin e Lincoln (2000) hanno
precisato in dettaglio le modalità più utili per costruire
teorie fondate sui dati qualitativi in settori complessi della
psicologia sociale e della formazione, dove le teorie sono
difficili da costruire e problematiche da verificare con le
tradizionali metodologie sperimentali. Illustreremo qui una
procedura di ricerca di questo tipo in un particolare settore
della psicologia, quello della ricerca sulla psicoterapia,
che ha importanti ricadute sul piano formativo perché costituisce
il presupposto per un’ottimale preparazione degli psicoterapeuti,
sul piano sia tecnico che metodologico.
E’ importante focalizzare questo ambito di ricerca perché
proprio in esso (e nella conseguente formazione) l’uso di
‘casi’ e di ‘storie cliniche’ è stato frequentissimo fin dai
primi approcci psicoanalitici ed è necessario distinguere
in modo chiaro tra ‘racconto clinico’ del caso tout-court
e ricerca empirica metodologicamente rigorosa, anche se appunto
centrata su aspetti qualitativi e narrativi. Anche in questo
settore il metodo qualitativo prende in esame in profondità
casi specifici, identificandone le caratteristiche uniche
ma ponendole in relazione con il modello teorico. La sua validità
è garantita in modo diverso sia rispetto al puro e semplice
case-study, clinicamente interessante ma poco generalizzabile,
sia rispetto alla tradizionale ricerca basata sulla rappresentatività
dei campioni e sulla statistica probabilistica: è stabilita
in base alla corrispondenza e alla comprensione condivisa
del ‘senso’ costruito congiuntamente nella ricerca da parte
del soggetto e del ricercatore. Portois e Desmet (1988) parlano
di ‘validità di significanza’; altri autori (Glaser e Strauss,
1967) di validità ‘per saturazione teorica’.
Secondo l’assunto fondamentale della ricerca qualitativa,
il ‘senso’ del fenomeno studiato non va ipotizzato a priori
dal ricercatore, e quindi tradotto in strumenti (ad esempio
gli items di un questionario) per essere verificato poi empiricamente,
seguendo una logica confermativa, necessariamente asimmetrica
perché il senso è costruito solo dal ricercatore; esso va
piuttosto scoperto, attraverso metodologie che ne facilitano
l’emergere, e ricercatore e soggetti producono assieme questa
emergenza di significati.
Solo una logica esplorativa, fenomenologica, co-costruttiva
può evitare la prefigurazione di senso che costituisce in
certi casi un vero e proprio pre-giudizio del ricercatore.
La soggettività del paziente, la sua capacità di ‘narrazione’
non viene limitata perché ricondotta forzatamente in schemi
precostituiti (gli items dei test, dei questionari): anche
impressioni, idee, emozioni e teorie ingenue rispetto agli
obiettivi e agli esiti del trattamento devono trovare spazio
al fine di ricostruire strutture latenti di senso. I clienti
passano da ‘utenti’ passivi ad attori principali di ciò che
succede nel percorso terapeutico: l’attenzione verso ciò che
i ‘pazienti’ pensano rispetto alla loro terapia si è affermata
negli ultimi anni (cfr. Rennie, 1992; Fava e al., 1998). Come
è stato ampiamente dimostrato (Mc Leod, 2000), i pazienti
sono bene in grado di ‘narrare’ ciò che avviene durante la
terapia, ricostruendo così il senso del trattamento e del
suo impatto nella loro vita.
Da parte sua il terapista-ricercatore non è un puro e semplice
‘osservatore neutrale’ di quanto avviene, ma introduce conoscenze
e valutazioni personali. La consensualità nella ricerca (Hill
et al., 1997) - cioè l’avvalersi di team di ricercatori che
confrontano e verificano il senso via emergente - è un metodo
che garantisce non tanto una utopica ‘oggettività’ valutativa,
quanto una intersoggettività capace di integrare e verificare
in modo incrociato i contributi dei singoli ricercatori-attori,
insieme ai clienti, riguardo alla costruzione di senso.
UNO STRUMENTO PER LA NARRAZIONE DI CIÒ CHE AVVIENE IN PSICOTERAPIA:
IL “CLIENT CHANGE INTERVIEW PROTOCOL”
Per raccogliere dati che sfruttano aspetti descrittivi della
soggettività che emerge durante la terapia, e si prestano
ad interpretazioni intese come organizzazione e ricostruzione
di senso, appare particolarmente valido l’approccio esploratorio
ed ‘ermeneutico’ messo a punto da Robert Elliott dell’Università
di Toledo (Ohio); approccio che integra dati raccolti mediante
strumenti standardizzati con altri derivanti da colloqui e
interviste non strutturate o da analisi di testi.
Partendo dalla constatazione dell’insufficienza dei “Trials
clinici randomizzati”, e di altri metodi esclusivamente quantitativi,
al fine di comprendere il cambiamento che avviene in una psicoterapia,
Elliott (1984, 2000) ha presentato un modello di ricerca di
tipo esplorativo piuttosto che confermativo, denominato “Hermeneutic
Single Case Efficacy Design”. Esso è mirato allo studio di
singole terapie in setting ‘naturale’, e all’approfondimento
delle relazioni causali fra trattamento e cambiamenti riscontrati
nel (e dal) cliente: in che misura il cambiamento percepito
è attribuibile alla terapia? E a quali specifici eventi o
processi? Come si vede, domande utili sia per la ricerca sull’efficacia
della psicoterapia, che per la verifica clinica che ogni terapista
dovrebbe compiere durante e al termine del suo lavoro quotidiano.
Il modello di ricerca di Elliott include uno strumento ‘narrativo’
da usare congiuntamente fra cliente e terapista: il Client
Change Interview Protocol, che può essere usato a metà terapia,
o al termine di essa, o al follow-up (tra 6 mesi e 18 mesi).
Lo scopo è fornire al cliente un’occasione per narrare la
storia della sua terapia, riflettendo sui significati ad essa
connessi. Le domande, per lo più aperte, vengono proposte
in modo da favorire una comprensione di tipo empatico, di
facilitare l’elaborazione delle esperienze da parte del cliente
e consentire una narrazione del loro ‘senso’ complessivo.
Le tematiche trattate vanno dalla valutazione delle sensazioni
provate in terapia a quella dell’andamento generale della
vita; dalla descrizione di sé e dei cambiamenti auspicati,
alla descrizione dei cambiamenti percepiti rispetto all’inizio
della terapia. Questi vengono valutati in termini anche quantitativi
(su scale da 1 a 5) rispetto al grado in cui erano attesi,
sono ritenuti importanti e attribuiti alla terapia e non ad
altri fattori. Vengono discussi gli aspetti positivi e quelli
problematici del trattamento, e gli eventuali suggerimenti
per migliorare l’efficacia terapeutica. Particolarmente originale
e utile è la parte dell’intervista in cui viene rivista la
narrazione di sé fatta prima della terapia per confrontarla
col modo in cui il paziente si vede adesso: le differenze
vengono discusse col terapista per arrivare ad una interpretazione
condivisa di somiglianze e differenze riscontrate.
L’intervista è stata usata in modo assai proficuo al termine
delle terapie e in alcuni casi anche al follow-up dopo mesi
dalla sospensione, consentendo di ottenere dati di grande
rilievo clinico e di verifica dell’efficacia dell’intervento
che non erano emersi con altri strumenti, ed incrementando
la possibilità di individuare - congiuntamente fra cliente
e terapista - il ‘senso’ del lavoro terapeutico condotto.
IL METODO NARRATIVO IN PSICOLOGIA CLINICA: RILEVANZA
PER LA FORMAZIONE
Qual è la ricaduta dell’uso di un metodo narrativo, come quello
proposto da Elliott, sulla formazione dello psicologo, e in
particolare dello psicologo clinico?
Questa formazione attraversa oggi un momento di grande criticità,
in quanto oscilla tra la strategia formativa della ‘bottega
dell’arte’ (apprendere osservando e facendo esperienza), giustamente
criticata per la scarsa adesione a condivisi criteri scientifici,
e una formazione strettamente ‘tecnica’ fondata sugli approcci
sperimentali e sulla ‘evidence based therapy’, scientificamente
più rigorosa ma riduttiva della complessità del lavoro sulla
psiche umana.
Proprio le metodologie qualitative di verifica del lavoro
clinico, quelle narrative in particolare - sopra presentate
a titolo esemplificativo - offrono un potente strumento di
mediazione tra il rigore scientifico e la possibilità di condividere
principi e criteri nella comunità dei ricercatori, e l’accettazione
di una complessità di approccio al lavoro clinico che solo
metodologie olistiche e non riduttive possono garantire. Le
scuole di formazione alla psicologia clinica possono ampiamente
avvalersi di queste metodologie, con sicuro beneficio sulla
qualità complessiva della formazione stessa.
NOTE
1] Per un approfondimento
delle possibilità offerte da queste tecniche di analisi del
cambiamento, rinvio ad un mio precedente scritto (Di Nuovo,
1997).
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