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M@gm@ vol.3 n.2 Aprile-Giugno 2005
IL PENSIERO SISTEMICO OLTRE LA PSICOTERAPIA: RIFLESSIONI SUL MODELLO MILANESE DOPO UN SEMINARIO DI LUIGI BOSCOLO
Massimo Giuliani
massimogiuliani@terapiasistemica.info
Psicologo
e terapeuta sistemico, lavora come libero professionista tra la Bassa
Bresciana, Cremona e Bergamo ed è consulente e supervisore di strutture
terapeutiche ed educative; membro dello staff didattico della Scuola
di Counseling Sistemico Relazionale di Bergamo e dell'équipe clinica
di Shinui - Centro di Consulenza sulla Relazione (www.shinui.it);
lavora nella formazione agli insegnanti ed operatori pubblici e privati;
partecipa al Forum sulle Matrici Culturali della Diagnosi diretto
da Pietro Barbetta presso l'Università di Bergamo; realizza il sito
www.terapiasistemica.info.
È carsicamente ricorrente il dibattito sul vero o
presunto carattere innovativo e alternativo della terapia sistemica
rispetto ad altre scuole più “tradizionali” di terapia. Paolo Migone,
psicoanalista curioso e di grande cultura, tra i più fieri critici
del modello sistemico, muoveva in una serie di articoli non più
recenti, ma tuttora acuti e stimolanti (v. in particolare 1987 e
1994) tre appunti, che sintetizzo forse rozzamente, ma spero in
modo non troppo distante dall’idea dell’Autore.
Primo: in Italia – sostiene Migone – il modello sistemico è stato
sopravvalutato, in una contrapposizione che ha visto i “militanti
dello specchio unidirezionale” arruolati in una “guerra di religione”,
un’opposizione tutta ideologica alla psicoanalisi; al contrario
negli Stati Uniti, terra secondo l’Autore caratterizzata da una
più matura cultura psicoterapeutica, “la terapia familiare non veniva
concepita come un qualcosa di rivoluzionario o di antagonistico
alla psicoterapia dinamica” (Migone, 1987).
Secondo: nessuno dei capisaldi teorici del modello sistemico – non
il concetto di contesto né l’attenzione alla relazione; non la teoria
generale dei sistemi e neppure la cibernetica, con i concetti di
feedback e causalità circolare – rappresenta in realtà un contributo
originale della terapia relazionale rispetto a quella psicodinamica:
l’autonomia teorica del modello sistemico dalla psicoanalisi esisterebbe,
dunque, più nel linguaggio che nei fatti (ivi).
Terzo: un’ulteriore critica è rivolta al presunto rifiuto del pensiero
sistemico di accostarsi alla psicoanalisi, tanto che, pur di non
appoggiarsi ad essa, finisce per cercare una stampella perfino “nel
vecchio costruttivismo” (Migone, 1994).
Tralascio il merito delle questioni teoriche, poiché non avrebbe
senso ribattere ad argomenti posti ormai molti anni fa, e d’altra
parte non so se rappresentino negli stessi termini il pensiero attuale
dell’Autore. Rispetto alla terza osservazione, tuttavia, è senz’altro
vero che per un lungo periodo – diciamo fino all’età della maturità
– il modello sistemico ha rimarcato la sua alterità rispetto ad
altri modelli anche proponendosi come radicalmente alternativo a
quelli. Sarà che anche le scuole di pensiero vivono un’infanzia
e un’adolescenza in parte riottosa, prima di diventare adulte.
Cito però quelle critiche perché mi è capitato di rileggerle alla
luce di alcuni eventi del 2004, culminati nell’incontro che la Scuola
di Counseling dell’Associazione Shinui di Bergamo ha avuto con Luigi
Boscolo il 9 ottobre 2004 al Centro Serughetti La Porta, per una
giornata seminariale dal titolo “Il pensiero sistemico oltre la
psicoterapia” [1].
Due fatti in particolare, accaduti nel corso dell’anno, hanno reso
il 2004 un momento di riflessione sul percorso compiuto fino ad
oggi dal modello sistemico – anzi, da quella branca del modello
nota nel mondo come “Milan approach” ovvero “approccio milanese”
– e sul suo futuro.
Il primo di questi fatti è stato la dolorosa perdita di Gianfranco
Cecchin – co-fondatore insieme a Boscolo, Mara Selvini Palazzoli
e Giuliana Prata, del modello sviluppato a Milano – in un incidente
d’auto in febbraio; il secondo è l’uscita – a sedici o diciassette
anni dalla pubblicazione negli Stati Uniti! – dell’edizione italiana
del volume “Milan Systemic Family Therapy” (Boscolo e coll., 1987),
scritto da Boscolo e Cecchin insieme a Lynn Hoffman e Peggy Penn,
sorta di testo sacro per il “Milan approach”, che ne fece una realtà
nota al mondo intero. Due fatti, uno doloroso e l’altro lieto, che
ci hanno permesso di tornare a misurare il peso esercitato dal modello
milanese oltre Oceano, negli anni passati e oggi stesso.
Le due coautrici americane del libro in questione avevano cominciato
a sperimentare all’Ackerman Institute di New York le idee dei due
psichiatri italiani, aggiornandole e ampliandole: Peggy Penn sviluppando
tecniche d’intervista sistemica come le domande sul futuro (Penn,
1985) e Lynn Hoffman dedicandosi “allo studio di quella galassia
di nuove idee che legava la cibernetica alle scienze della vita,
alla ricerca di una struttura concettuale per la terapia sistemica”
(in Boscolo e coll., 1987, p. 19; per ricostruire alcuni passaggi
del suo percorso è utile confrontare tra loro Hoffman, 1981 e Hoffman,
1992).
Tanto hanno sentito la forza innovativa del modello che negli anni
hanno trovato in esso persino l’impulso a superarlo, a portare una
critica ancor più radicale alle pratiche terapeutiche tradizionali;
e che la stessa Lynn Hoffman, nel suo viaggio in Italia di tre anni
fa – che l’ha vista dialogare a Bergamo con gli allievi di Shinui
e dell’università, e a Milano con quelli della Scuola del Centro
Milanese di Terapia della Famiglia – ha ricordato di aver sempre
considerato le idee della scuola di Milano fortemente imparentate
con la rivoluzione di Franco Basaglia. Certo, magari forzando un
po’ la storia – perché se fra la sistemica e l’antipsichiatria è
nata qualche simpatia, ciò è accaduto solo in tempi più recenti:
la seconda non perdonò alla prima di aver mancato un’occasione,
limitando il proprio orizzonte ai confini della famiglia – ma evidenziando
la comune posizione di critica al sistema psichiatrico e al pensiero
diagnostico tradizionale.
Non si esagera dicendo che il modello milanese esercitò un fascino
indiscutibile su una parte vivace della psichiatria americana. Una
parte magari non proprio maggioritaria, ma che trovava in “Paradosso
e controparadosso” (Selvini Palazzoli e coll., 1978) una prospettiva
capace di ribaltare di 360 gradi l’approccio clinico alla schizofrenia
e non soltanto ad essa.
Alla morte di Cecchin, uno dei più commossi ricordi che abbiamo
letto è stato quello di Carlos Sluzki sulla rivista “Family Process”.
Sluzki parla di “Ipotizzazione, circolarità, neutralità” (Selvini
Palazzoli e coll., 1980) come dell’inizio di un nuovo modo di pensare
alla terapia. In quello scritto i quattro “Milan Associates” parlavano
del lavoro con le famiglie senza praticamente nominarle, anzi guardando
alle lenti del terapeuta più che all’essenza dell’oggetto osservato:
“Quest’articolo ha contribuito a mettere in moto uno spostamento
[…] verso un nuovo livello di comprensione sistemica della famiglia
oltre che del terapeuta come sistema” (Sluzki, 2004) [2].
Ma se gli articoli e i libri illustravano le nuove tecniche del
team milanese, è soprattutto attraverso i seminari, le sedute dal
vivo nei convegni, l’appassionato e ironico racconto delle proprie
esperienze che il gruppo di Milano riusciva a creare entusiasmo
e fiducia nella carica innovativa del modello.
Ai tempi del quartetto originario erano soprattutto Boscolo e Cecchin
a viaggiare in aereo per raccontare ai colleghi di altri paesi lo
sviluppo delle nuove idee. All’inizio degli anni Ottanta, consumatosi
il divorzio da Selvini Palazzoli e Prata, furono considerati sempre
più i capostipiti di un modo di fare terapia che metteva al centro
non tanto i “giochi” familiari o i pattern di relazione dei membri
del sistema, quanto il modo in cui l’osservatore guardava e descriveva
quelle relazioni.
Credo che Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin non siano mai stati
molto appassionati allo scrivere le proprie esperienze, preferendo
di gran lunga raccontarle e condividerle oralmente. La ricchezza
e il carattere innovativo delle loro idee emergono dall’incontro
e dalla conversazione perlomeno altrettanto che dai – pochi, tutto
sommato – libri che hanno pubblicato.
Non è un caso che uno degli aneddoti raccontati da Luigi Boscolo
nella giornata bergamasca ha riguardato il suo incontro con Paolo
Bertrando: giovane psichiatra colto e appassionato e – dettaglio
non irrilevante – “molto abile nell’usare quei nuovi word processor!”.
Da quell’incontro sarebbero nati “I tempi del tempo” (Boscolo e
Bertrando, 1993), una ponderosa riflessione sul tempo in terapia,
e, qualche anno dopo, “Terapia sistemica individuale” (Boscolo e
Bertrando, 1997). Come per Gianfranco Cecchin i sodalizi con Gerry
Lane e Wendell Ray prima e con Tiziano Apolloni più di recente,
hanno dato origine ai tre volumi sui pregiudizi, sull’irriverenza
e sulle “idee perfette” (Cecchin, Lane e Ray, 1992 e 1997; Cecchin
e Apolloni, 2003), così Paolo Bertrando è stato per Boscolo l’interlocutore
ideale, nel confronto con il quale sono nate negli anni Novanta
alcune delle idee che costituiscono il nuovo punto di partenza per
la riflessione sistemica.
Chi ha conosciuto i padri del “Milan Approach”, però, sa che il
vederli lavorare e il sentirli raccontare sono sempre stati un momento
importante dell’apprendimento del loro pensiero. Durante il seminario
bergamasco di Shinui, i partecipanti – allievi della scuola di counseling,
ma anche altri professionisti interessati a cogliere l’opportunità
– si sono accostati al pensiero di Luigi Boscolo nel modo più autentico
e appassionante: attraverso cioè la sua voce, i suoi racconti, i
suoi aneddoti: che è il modo migliore per conoscere l’enorme valore
d’innovazione di un pensiero, che pure dai libri s'intuisce e si
ammira.
In quest’occasione Boscolo ha raccontato le vicissitudini dell’approccio
milanese e di come quel metodo terapeutico, nato nel solco della
cibernetica dei sistemi osservati, è evoluto dall’innamoramento
per le tecniche strategiche del Gruppo di Palo Alto (Watzlawick,
Beavin, Jackson, 1967; Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974) alla riscoperta
delle radici batesoniane degli studi su comunicazione e interazione
(Bateson, 1972); ha attraversato la cibernetica dell’osservatore,
il costruttivismo – siamo sempre nell’ambito della metafora dell’organismo
e della macchina – il costruzionismo sociale, la narrativa, il pensiero
postmoderno – e le metafore fondanti diventano quelle del testo,
delle voci polifoniche, dei punti di vista –; si è fatto contaminare,
ricorsivamente, dai modelli che esso stesso ha influenzato, quelli
che oggi definiamo come “post-Milano”; ha affrontato anche dolorose
separazioni, come quando – dopo “Ipotizzazione, circolarità, neutralità”,
cit. – fu ben chiaro che le due metà del Milan Team stavano ormai
veleggiando lungo rotte teoriche divergenti: la Selvini Palazzoli,
con una nuova squadra, diede vita ad un nuovo Centro e a nuovi,
proficui filoni di ricerca (Selvini Palazzoli e coll. 1988).
Luigi Boscolo – a proposito di rapporti tra pensiero sistemico e
psicoanalisi – è tanto poco interessato a “guerre di religione”
da non aver mai rinunciato alla qualifica di psicoanalista, sempre
dichiarata. Anzi, agli anni della psicoanalisi sempre ritorna nei
suoi racconti, tanto da formulare con Paolo Bertrando l’idea che
i modelli, le teorie e i bagagli d’ipotesi del terapeuta si costruiscano
epigeneticamente: non si fondano, cioè, sul superamento e sulla
sostituzione delle idee passate, ma si edificano su di esse. Le
vecchie teorie rimangono come base implicita, bagaglio di “non detto”
che rende inutile qualunque rivendicazione di purismo teorico, e
rivela quanto sia complesso, dinamico e non classificabile – non
col metodo oggettivo delle scienze “dure”, almeno – il “modello”
che ciascuno incarna e fa proprio (Boscolo e Bertrando, 1997).
Lynn Hoffman, nel già ricordato viaggio italiano, osservò che Luigi
Boscolo è l’uomo che ha restituito gli affetti alla terapia della
famiglia. Non che il lavoro sistemico con le famiglie fosse anaffettivo
o sordo alle emozioni – come vuole una critica, questa sì, a volte
francamente prevenuta e superficiale. Anzi chi la conosce sa quanto
emotivamente ricca sia l’esperienza della relazione con i membri
di una famiglia in terapia. Certo è che Boscolo alle emozioni ha
restituito cittadinanza anche nell’elaborazione teorica, contribuendo
in misura cospicua all’apertura della “scatola nera”, che ai tempi
della cibernetica del primo ordine era l’involucro stagno delle
emozioni e delle motivazioni individuali, impenetrabili e pertanto
inutilizzabili, anzi molesto rumore di fondo per il terapeuta. Almeno
nella teoria: poi, si sa, nella pratica accade molto di più di quanto
prevedano i manuali. E solo vedendo lavorare Luigi Boscolo, o ascoltandolo
raccontare, ci si può fare un’idea di come la tecnica costituisca
assieme alle emozioni l’ordito pregiato della conversazione terapeutica.
Molto meglio di quanto sia possibile spiegarlo qui, i convenuti
al seminario l’hanno sentito dalle sue parole. Un’appassionata storia
del pensiero sistemico in terapia – dagli anni del pionierismo alla
diffusione in tanti altri paesi – è stata il contenuto della mattina.
Al pomeriggio si è lavorato sulle storie degli allievi. Psicologi,
psicomotricisti, infermieri, assistenti sociali, educatori e altri
professionisti della relazione d’aiuto hanno conversato con Luigi
Boscolo raccontando il proprio lavoro e i nodi che questo presenta
loro. D’altra parte il pensiero sistemico non nacque per dar conto
della psicopatologia: i terapeuti della famiglia lo appresero dai
biologi, dai matematici, dagli ingegneri. Oggi diventa patrimonio
di altre professioni nell’ambito delle scienze umane. Niente di
strano: esso, prima – e molto più – che un metodo terapeutico, è
una cornice di pensiero utile ad orientarsi nella complessità e
nella relazione.
A fare da piacevole contrappunto ai ricordi del Maestro c’era Jacqueline
Pereira, seduta in prima fila. Mediatrice familiare, terapeuta,
compagna di vita di Luigi Boscolo, è intervenuta opportunamente
nel dibattito pomeridiano intrecciando alle storie degli allievi
la sua esperienza nel lavoro di rete.
NOTE
1] Il volume con la trascrizione
dell'intero seminario – il terzo della collana “Dialoghi e
conversazioni con Shinui” – può essere richiesto presso Shinui
- Centro di consulenza sulla relazione: info@shinui.it.
2] Grazie a Clara Bergamelli
per la traduzione dell’articolo di Carlos Sluzki.
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