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M@gm@ vol.3 n.2 Avril-Juin 2005
I CENTRI DIURNI E LE ESIGENZE DEL PAZIENTE: APPRENDERE DALL'ESPERIENZA
Laura Tussi
tussi.laura@tiscalinet.it
Docente
di Lettere in Istituti Superiori di I e II grado; Giornalista; Laurea
in Lettere Moderne (indirizzo pedagogico) e in Filosofia, Università
degli Studi di Milano; si occupa di tematiche storico-sociali e pedagogiche.
Il piano
empatico e terapeutico
Il clinamen fondamentale all’interno delle strutture psichiatriche
pubbliche consta nell’elargire un servizio il più possibile efficiente,
rispetto alle risorse disponibili, nell’ambito di un doppio versante
d’interventi: psichiatrico, assistenziale e psicodinamico o solo
psichiatrico ed assistenziale, demandando, in quest’ultimo caso,
il piano della relazione interattiva ed interpersonale ad altri
ambiti, il che porta a constatare, praticamente, l’annichilimento
del contributo della dinamicità relazionale nel disagio psichico.
Nell’ambito di tali strutture i pazienti psicotici presentano una
peculiare caratteristica, ossia la negazione della malattia, del
proprio disagio psichico, proiettando e cogliendo subito nell’ “altro”
i propri aspetti mentali psicotici e alterati.
Un approccio differente verso questo transfert è il doppio segreto
indicibile, per ovviare alla negazione della realtà sia attuale,
sia storica, che comporta la rinuncia a quasi tutte le soddisfazioni
vitali relative all’alterità, al fine di tutelarsi dall’angoscia
derivante dall’esposizione del sé nei rapporti interpersonali.
Il gruppo medico e gli operatori si muovono su due piani simmetrici,
quell’empatico e terapeutico, che permettono di ovviare alle difese
più ottuse e criptiche relative alla negazione della malattia stessa
e l’eventualità di essere investiti dal meccanismo psicogeno di
proiezioni transferali da parte dei pazienti, sotto le più svariate
forme e modalità fusionali, traumatiche e ambivalenti.
Nell’ambito dei centri diurni si attuano interventi volti a raggiungere
un risultato precipuo, ossia la migliore qualità esistenziale del
paziente, la qualità della sua vita, tutto questo facendo riferimento
e operando anche alla luce di una citazione ricavata da Bion “Apprendere
dall’esperienza” in quanto l’agire psicoterapeutico e psichiatrico
del personale o gruppo medico e degli operatori è costellato di
“errori” e deve essere tale, in quanto lavoro profondamente umano
e veritiero.
Il progetto terapeutico interno è paragonabile alla tensione husserliana
verso un risultato ottimale.
I sintomi psicotici e l’intervento operativo d’équipe
Il paziente e la struttura vivono visceralmente la dinamica simbiotica
tra famiglia originaria e comunità, con l’ingente aggravante della
variabile della mancanza, della lontananza, della nostalgia, dell’abbandono.
Occorre un’assidua attenzione al nucleo famigliare, parentale ed
al contesto esistenziale. Infatti, il centro diurno diventa un luogo
fisico e mentale, topos dell’anima, dove si realizzano interventi
volti a sviluppare dinamiche e processi interrelazionali d’accoglienza,
di contenimento, elaborazione e trasformazione, entro cui si avverte,
a volte impercettibilmente, altre pesantemente, il timore paralizzante
del cambiamento e la palpabile inquietudine davanti al rapporto
interpersonale, che prelude la continuità terapeutica dell’intervento
d’inserimento in una comunità curante, che nella storia del paziente
dovrebbe situarsi come esperienza, quale parte integrante di un
globale processo evolutivo.
Occorre valutare la necessità del numero dei pazienti, in base ad
un accoglimento ragionato e selettivo di questi ultimi da inserire,
per prevenire la cosiddetta “saturazione emotiva” degli operatori,
in quanto un gruppo eccessivo impedirebbe l’esplicarsi di dinamiche
emotivo-affettive. Fondamentale, all’interno di un setting terapeutico
operativo, è la dimensione d’ascolto da parte degli operatori nell’ambito
delle relazioni interpersonali, anche ne cimentarsi con profondi
legami di dipendenza, in situazioni simbiotiche molto pervasive,
dove la distruttività di certi pazienti, spesso spinti da vissuti
d’invidia e gelosia, porta allo scatenarsi di crisi d’angoscia e
panico.
Il coraggio della cultura della relazione
A questo punto della trattazione ci si pone il problema dell’insorgere
dell’eventualità del rischio di promuovere una cultura dell’evacuazione
di tutti questi stati psicotici, anziché la cultura della réverie,
ossia dell’imparare a ricordare, a pensare, riappropriandosi della
realtà circostante che suscita il ricordo. Dunque la réverie quale
cultura del ricordo nella relazione a partire da se stessi per ovviare
il disconoscimento della soggettività dell'individuo, del suo aspetto
mentale, della sfera emotivo-affettiva nella centralità della relazione.
Spesso la macrocultura sociale nasconde il rischio di una deaffettivazione
e deumanizzazione.
Appunto i centri diurni divengono luoghi d’attività terapeutico-riabilitative,
volte alla ricostruzione del sé, dell’integrità psichica del paziente
per cui è auspicabile la costruzione di una cultura istituzionale
più attenta alle esigenze del paziente. Importante si manifesta
la relazione interpersonale con i pazienti che porta ad un accoglimento,
ad un ascolto accurato capace di trasformare, elaborare e accogliere
gli aspetti psicopatologici e di restituirli al paziente almeno
in parte bonificati.
Risulta essenziale che l’attività nei centri diurni manifesti l’effettivo
interscambio tra soggettivo ed oggettivo, tra la patologia e il
contesto sociale, relazionale ed ambientale, aprendosi a nuovi approcci
di carattere psicosociale, divenendo così espressione anche dello
stato emotivo dell’operatore, del suo personale modo di relazionarsi
con il paziente psicotico.
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