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    Panagiotis Christias (sous la direction de)

    M@gm@ vol.3 n.1 Gennaio-Marzo 2005

    L'ALTRA SCENA DELLA LETTERATURA



    (Traduzione Orazio Maria Valastro)

    André Dedet

    andre.dedet@wanadoo.fr
    Università degli Studi di Poitiers, Francia; Insegnante Ricercatore al LiRe (Laboratorio Letterature e Realtà), Laboratorio di Ricerca dell'Università degli Studi d'Avignon, France.

    La lettera, utilizzando banalmente ed etimologicamente il senso letterale, è l'oggetto della letteratura. E' il linguaggio, per dirla in modo più edotto, che sarebbe il suo oggetto ed è proprio ciò che vi è di paradossale nella letteratura.
    Per quale ragione questa banalità ci sembra così paradossale?
    Senza dubbio perché una concezione del reale, oltremodo hegeliana, che coglie un soggetto di ragione ci conduce a considerare come la letteratura, alla maniera delle altre forme di espressione artistica, è esattamente un superamento del reale. Ammesso che esista una letteratura realista, si tratti dei romanzi di Honoré de Balzac o, più vicino a noi, di quelli di Louis Aragon, analizzandola ci si accorge come siano lontani da questa nozione tanto discutibile di realismo che potremmo definire un tentativo di rendere conto di un qualcosa di positivo che è già là, di sensibile, superando l'essere e retto dalle leggi storiche e sociali che la ragione è in grado di conoscere. L'immaginazione del romanzo, il "mentir-vrai" di Aragon, non è altro che un mezzo per raggiungere questa verità. L'immaginazione letteraria sarebbe la ricerca del vero per mezzo della ragione, ed è la credenza in questo vero che può essere contestata.

    Ancora un paradosso, poiché le altre forme di espressione artistica hanno come finalità, forse utopistica, di costruire un linguaggio: linguaggio della musica, della scultura, della pittura. Se ci fermiamo a questa concezione chimerica della letteratura e se questa utopia le è propria, questa si raddoppierebbe di un paradosso incline a costruire un linguaggio a partire dal linguaggio. Ecco una strana particolarità [1] per la letteratura, ma può anche essere un'impostura del discorso critico. Un linguaggio creato a partire dal linguaggio è ciò che i linguisti chiamano un metalinguaggio. Tutta la problematica sulla letteratura e sul suo oggetto si troverebbe nel sapere se un metalinguaggio sia possibile. Se la parola esiste, non è sicuro che l'oggetto meta-linguistico sia costruibile.

    Jacques Lacan afferma, provocando le certezze dei linguisti, che non esiste un metalinguaggio. Se il linguista può affermare una gerarchia dei significanti, fondandosi sull'esistenza di un linguaggio di ragione e di verità che sostiene il concetto di denotazione, non è lo stesso per gli psicanalisti poiché concepire una norma significa fondarla sull'esistenza di un soggetto di ragione, vale a dire di un soggetto padrone del suo inconscio o, più precisamente, di un soggetto senza inconscio [2] (Lacan, 1975, p.126). Poiché lo psicanalista, il soggetto, è determinato dal linguaggio e dalla parola, ed è proprio in questo senso che J. Lacan affermerà, durante i suoi seminari, che "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" e che non ci potrebbe essere un metalinguaggio poiché quest'ultimo è una costruzione che "ha delle esigenze formali tali che dislocano tutto il fenomeno di strutturazione dove deve situarsi", è allora un oggetto straniero al linguaggio, cos'ì come "il metalinguaggio conserva le ambiguità del linguaggio" (Lacan, 1998, p.74) e non è per nulla una costruzione relativa ad un soggetto di ragione. Possiamo allora dire che il metalinguaggio è ciò che dialogizza sulle ambiguità del linguaggio e su quelle del soggetto, ambiguità che fondano quest'ultimo in ciò che è un essere di desiderio e "il desiderio", dice J. Lacan, "si situa nella dipendenza dalla richiesta - la quale, articolandosi in significanti, lascia un 'resto metonimico' che scorre in essa, elemento che non è indeterminato, il quale è una condizione sia assoluta sia sfuggente, elemento necessariamente in difficoltà, insoddisfatto, impossibile, sconosciuto, elemento che si chiama il desiderio" (Lacan, 1973, p.141), definizione difficilmente comprensibile se ci manteniamo ad una lettura denotativa. Si può allora sostenere che questo desiderio, elemento necessariamente in difficoltà, è ciò che fonda il linguaggio e costruisce la letteratura.

    Dove si situa il desiderio? Esattamente nel reale. Ma cos'è questo reale? Certamente non una simile ricostruzione ragionata che si fonda sull'esistenza di un intangibile, di un'essenza trascendentale che sarebbe, contemporaneamente, legame sociale, legge, verità. Questo reale, questo luogo di desiderio che i detentori dell'esistenza di un soggetto di ragione, allorché questi stessi accettano di prenderlo in considerazione, rinviano ad un'utopia, ad un'altra scena, questo reale è la nostra presenza al mondo come soggetti. Il reale è l'impossibile, il reale è un nulla ed è ciò che fa il tutto. Prendiamo un esempio quasi metaforico rispetto al presente.

    Il presente è il perno del sistema tempo. Senza, io non posso concepire né il passato, né il futuro. Ma su cosa si fonda? Quando abitualmente dico: Io sono, affermo il fenomeno della mia esistenza presente riguardo due condizioni: ciò che non è più, io ho coscienza di essere esistito; ciò che io mi auguro, io continuo ad esistere. Il presente si costituisce così attraverso una conquista congiunta di due assenze: di ciò che non è più e di ciò che deve avvenire, più precisamente di un'assenza e di una carenza. Potremmo rappresentarlo in questo modo:
    ___Passato________Presente_________Futuro___
    --------------------- <- ----- 0 ----- -> ---------------------
    ------------------- assenza / carenza --------------------

    Il presente, come il reale, è lo zero del tempo, è il nulla, costituito da ciò che non è più e da ciò che io spero che sia, senza il quale io non posso concepire né il passato né il futuro. Ed è qui che si situa il desiderio. Questo presente, costituito da un'assenza e da una carenza, è un presente scisso all'immagine del soggetto poiché non vi è esistenza che di un altro, un altro doppio, il passato come un'assenza e il futuro come un possibile. Il presente come il desiderio del soggetto si costituisce sull'alterità. Immaginiamo il soggetto in questa utopia del presente. Esiste un'assenza, quella, immaginaria, della Madre e di una carenza: prendere il posto simbolico del Padre che questo Altro gli rifiuta. Ecco senza dubbio la costituzione del desiderio tanto sfuggente quanto il tempo. Rappresentiamolo come segue:
    ___Immaginario_________Reale__________Simbolico___
    --------- M <- ------------------ S ------------------- > P --------

    Questo reale nel quale s'inscrive la letteratura, è quello che evoca, negativamente, Antonin Artaud, quando, internato a Rodez, rispetto ad un rimprovero fattogli dal Dr. Ferdière di essersi lasciato andare a salmodiare e cantare, come lo riconosce lui stesso "con una voce trasformata di soprano come i cantanti della Cappella Sistina, stile voce d'angelo" [3] si giustifica scrivendo: "ho sempre cercato il reale M. Ferdière" e questo, aggiunge, allo scopo di aiutare i lavoratori "attraverso dei piccoli poemi dove il canto quando sia presente non potrà mai più elevarsi senza fondarsi sulla declamazione parlata poiché non si canta a all'improvviso" (Artaud, 1946, p.112). Non si scrive nemmeno repentinamente. La letteratura è anche uno spostamento stile voce d'angelo.

    In che modo cogliere ciò che sfugge di questo reale? Cosa avviene nel desiderio? Questo desiderio, dice J. Lacan, si situa "alle dipendenze della richiesta", vale a dire di un altro. E', aggiunge, "articolato in significanti", è per il linguaggio nel quale consente "un resto metonimico", questo linguaggio è senz'altro l'oggetto della letteratura. Possiamo allora concepire lo stile, ciò che specifica la letteratura, come questa congiunzione di parole che sposta la luce sull'Altra-scena e vi rende sensibile questo resto che vi si rappresenta. Questo resto rappresenta ciò che costruisce il reale svelato dall'estetica. Nel romanzo l'immaginazione è la storia, il reale non è altro che questo spostamento estetico che ci permette di percepire [4].

    Riprendendo l'analisi di S. Freud sul motto di spirito che consiste in un doppio movimento di condensazione e di spostamento, J. Lacan vi ravvisa il gioco della metafora e della metonimia che sono le due grandi figure utilizzate dalla letteratura. Nella scrittura, come nel linguaggio parlato, il desiderio si coglie in questo doppio gioco di scivolamento: un significante per un altro significante.

    Quando parliamo, è sempre per dire altro rispetto a quello diciamo. Diciamo banalmente: Buongiorno, signora la panettiera, vorrei un pane, è ciò che i linguisti chiamano la denotazione la quale rinvierebbe al reale e lascerebbe credere che il linguaggio è là per veicolare dell'informazione. Si potrebbe allora tentare di glossare questo dire come segue: esiste un individuo che chiede ad una panettiera di dargli o vendergli un pane, il che varrebbe per tutti i clienti che acquistano un pane. Ma la glossa appare impossibile, o allora molto approssimativa, poiché vi è senza sosta spostamento. Questa enunciazione, considerata come reale, è un'immaginazione, una storia. Essa non è che un luogo di rappresentazione per un altro significante. Nello scambio con la panettiera, in una situazione minimale, vi è altro rispetto a quello che si dice: il desiderio e la singolarità di ognuno, ed è proprio questo, questo "resto metonimico", che è il reale del soggetto. Questo resto è un significante per un altro significante. Immaginiamo che noi parliamo come delle macchine, impersonalmente: la conversazione sarebbe impossibile. Ora, quello che ci seduce nella letteratura, che supera la banalità dell'enunciazione del cliente, è quest'altra cosa che la scrittura estetizza, e quest'altra cosa non è dell'immaginazione ma del reale.

    E' nel suo discorso che il soggetto esprime il suo desiderio, ma questo desiderio vi si realizza come un resto. E questo resto, tutto questo resto è anche la letteratura il cui oggetto è precisamente di esprimere, al meglio, questo resto. L'altra scena delle letteratura non è quella dell'immaginazione ma quella di questo reale del soggetto, reale mascherato dalle costrizioni del simbolico, reale che essa costruisce nel flusso del tempo, in un gioco di spostamento di significanti.

    L'immaginazione, la stessa utopia, è dalla parte del discorso dell'Altro, di cui un esempio è il linguaggio giuridico rappresentativo di ciò che è e vuole essere il discorso del potere. La volontà del legislatore è di produrre un testo puro, incontestabile, valevole per tutti e che s'impone, un testo senza falle che non produce alcun resto, un testo senza metafora, senza spostamento, senza ambiguità, che non lascerebbe posto al desiderio. Ora la giurisprudenza e l'interpretazione della legge sono là per mostrare che anche in questo registro giuridico, la costruzione di un tale testo è impossibile. Essa è impossibile poiché il linguaggio è all'immagine del soggetto, di un soggetto che ha un inconscio e non di un soggetto di ragione. E questo linguaggio nel suo funzionamento non ha altra legge che quella di esprimere il desiderio del soggetto. E' ciò che illustra la letteratura, è tutto il contrario di quello che sarebbe un linguaggio giuridico perfetto. Attraverso questo gioco incessante sui significanti [5] essa è trasgressiva, contesta il discorso del potere ed è quello che, in quanto soggetto di desiderio, ci seduce, ed è quello che ci irrita in quanto essere di potere poiché la sua funzione è di portare alla luce questo oggetto oscuro. E' questo il reale del soggetto del quale, meglio che qualsiasi altro, la letteratura ci parla: esprimendo altro di ciò che essa stessa dice: non raccontando storie. In questo senso e parodiando A. Gide che scriveva "è con i buoni sentimenti che si fa della cattiva letteratura", si potrebbe dire che la buona letteratura è oscena, per quelli che si riferiscono ai buoni sentimenti, essa è sempre di cattivo augurio.

    Per illustrare ciò prenderò l'esempio banale del cavallo di Charles Bovary. Charles è chiamato dai Berteaux nel luogo in cui il padre Rouault si è spezzata una gamba. E' notte, partirà "verso le quattro del mattino", "al sorgere della luna". Eccolo in cammino. Sappiamo che incontrerà Emma per la prima volta. Si è appena alzato dal letto, era accanto alla sua prima sposa di cui Flaubert ci dice che era "brutta" e "secca come una fascina". Ecco cosa scrive allora G. Flaubert: "Ancora insonnolito, si lasciava cullare dal trotto tranquillo del cavallo. Quando il ronzino si fermava di propria iniziativa davanti a quelle buche circondate di rovi che i contadini scavano ai bordi dei solchi. Charles si svegliava di soprassalto, ricordava subito della gamba spezzata".

    Dov'è il reale in questa descrizione? E' in questa partenza "al sorgere della luna" che si ritroverebbe come elemento pittorico? E perché G. Flaubert ci descrive questo "ronzino" dal "trotto pacifico" che si ferma "davanti a quelle buche circondate di rovi"? Ancora del pittoresco, del realismo etnologico riferito a delle pratiche contadine della Normandia? Ecco senza dubbio dov'è l'immaginazione, è in questa lettura denotativa. Un gioco di spostamento ci permette di comprendere che c'è un resto che producono il cavallo, il sorgere della luna [6] e questi fori circondati di spine, e, senza dubbio anche questa gamba rotta [7], è questo resto che è il reale.
    Ecco come G. Flaubert conclude il passaggio:
    "I solchi delle carreggiate si fecero più profondi vicino alla cascina dei Bertaux. (...) Il cavallo scivolava sull'erba bagnata; Charles era costretto ad abbassarsi per passare sotto i rami. (...) Quando arrivò dai Berteaux, il suo cavallo ebbe paura e fece un grande scatto".

    Perché c'interesserebbero, nell'immaginazione del racconto, questi solchi profondi, questo cavallo che scivola sull'erba bagnata e poi s'impenna? Nello spostamento noi leggiamo quello che Flaubert ci segnala e che ci seduce, è il resto che si svela e che ognuno, poiché ha del buon senso, è capace di scorgere [8]. Questa volontà artistica di superare il denotativo, Flaubert l'esprime in una lettera a Luise Colet: "Quello che mi sembra bello, quello che vorrei fare, è un libro sul nulla, un libro senza collegamenti esteriori, che si terrebbe su se stesso attraverso la forza interna del suo stile" (25 giugno 1853). Questo niente, che non è altro che lo stile, è questa l'utopia del reale sognata da Flaubert, utopia tesa a fare avverare il desiderio puro, senza spostamento, senza maschera, utopia di una pura forma della quale sogneranno anche Rimbaud e Mallarmé e, ancora prima, Guillaume IX d'Aquitaine (1071-1127) che inizia così uno dei suoi poemi: Farai un vers de dreyt nien / Io farò un verso sul puro nulla.
    Questo "puro nulla" cos'è se non questa purezza, questo desiderio assoluto che si esprime senza necessariamente iscriversi in un gioco di spostamento, un gioco di scrittura. Là, è il sogno, l'utopia dello scrittore, poiché la gioia si esprime nella meccanica, nel gioco dello spostamento stesso.

    Il linguaggio ci costituisce come soggetti desideranti ed è questo che c'istituisce in quanto esseri sociali che mascherano il desiderio; questa maschera non è affatto il reale che è al contrario ciò che resta sotto la maschera, ma questo resto è inafferrabile senza la maschera. Il linguaggio manifesta sempre questo resto, ma la letteratura è certamente l'espressione del linguaggio il cui oggetto è esprimere questa funzione di spostamento, questa sensazione di situarsi a lato, questa para-noia, che è la realtà dove s'inscrive il desiderio. Il buon senso non è nell'immaginazione denotativa di cui un certo senso comune ci lascerebbe intendere sia una direzione unica. Il buon senso è nello spostamento dell'immaginazione denotativa, spostamento che l'immaginazione letteraria, in quanto realtà, c'invita ad accompagnare in quanto lettore e produrre in quanto scrittore.

    Tutto il lavoro di scrittura, se lo si considera dal punto di vista della storia, è un lavoro su questo gioco dello spostamento che si potrebbe chiamare stile, e che tende a superare la censura per fare emergere questo resto; ma è anche un lavoro degno di Sisifo in quanto è nell'ambiguità che si manifesta volendo credere che si possa eliminare questa stessa ambiguità cadendo, come Flaubert, nell'utopia, un'utopia identica a quelli che credono al linguaggio denotativo puro. Il desiderio manifestato di questo oggetto a come lo chiama J. Lacan, poiché ha bisogno di un altro per divenire, è, di fatto, sotteso dall'utopia di un non-a, l'utopia della fusione narcisista, ed è sicuramente questa scena dell'impossibile che è l'oggetto della letteratura alla ricerca di un tempo perduto che non sapremmo ritrovare che nel gioco dello spostamento, il gioco della metafora e della metonimia, il gioco della scrittura, un gioco della maschere. E non verrebbe a nessuno l'idea che la maschera è il reale: il reale è ciò che sentiamo sotto la maschera grazie alla maschera stessa. La maschera è ossimoro, è questa opacità trasparente o luminosità oscura: è un significante per un altro significante, e la letteratura è identica. L'utopia dello stile puro consisterebbe a togliere la maschera, maschera per l'autore che è uno schermo, dietro il quale il lettore decripta l'osceno nascondendosi.

    La letteratura non esprime l'indicibile, né tanto meno afferma che l'indicibile è situato in un altro scenario, ma senza dubbio dichiara che questo indicibile dell'ipseità è la condizione stessa dell'indicibile: lo scrittore parla di quello che non conosce [9], è ciò che lo rende singolare.

    L'immaginazione o il disprezzo sarebbe inoltre che il mio lettore consideri il discorso che io faccio sia un puro discorso, di un soggetto supposto sapere, discorso dell'Altro che è prodotto su richiesta, richiesta dell'altro, naturalmente, mai soddisfatto. Avrei voluto parlare di ciò che non conosco.


    NOTE

    1] La specificità del teatro rileverebbe quindi dall'unione di due sostanze: quella della voce (del linguaggio) e quella del corpo, messa in scena.
    2] Ciò che mette in evidenza J. Lacan: il linguaggio, afferma, "il discorso scientifico lo affronta, fatta eccezione che gli è difficile di realizzarlo pienamente, poiché sconosce l'inconscio", Encore, Livre XI, Seuil, 1973, p. 126.
    3] L'arte lirica, poiché è del linguaggio, è inerente alla letteratura.
    4] Questo resto metonimico, prodotto sia da una perdita che da una carenza e senza il quale il presente e il reale dell'essere non possono concepirsi, è ciò che J. Lacan definisce l'oggetto a.
    5] Le altre arti riprendono questo gioco dello spostamento dei significanti: sculture con oggetti riciclati, bottiglie di coca cola, scatole di conserve inserite in un quadrato...
    6] "Luna infondi la melanconia. E' forse abitata?", scrive G. Flaubert, in. Le Dictionnaire des Idées Reçues.
    7] Diverrà celebre il piede sciancato d'Hippolyte.
    8] "Emma riconobbe da lontano la casa del suo amante, con le due banderuole a coda di rondine che si stagliavano scure sul pallido crepuscolo"; "Sovente inoltre, si metteva fra i denti il cannello di una grossa pipa sul comodino da notte, in mezzo ai limoni, zollette di zucchero, vicino ad una caraffa d'acqua", Madame Bovary, IIe partie, chap. IX, romanzo osceno che si esponeva bene ad un processo.
    9] I discorsi del sapere, storici, giuridici, morali, politici, religiosi... sostengono il loro statuto lasciandoci credere che argomentano di ciò che essi conoscono.


    BIBLIOGRAFIA

    Artaud A., Nouveaux écrits de Rodez, 28 février 1946, Paris, Gallimard, L'Imaginaire.
    Lacan J., Livre XX: Encore 1972-1973, 1975.
    Lacan J., Livre V: Les formations de l'inconscient 1957-1958, 1998.
    Lacan J., Livre XI: Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse 1964, 1973.


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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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