Contributi su aree tematiche differenti
M@gm@ vol.2 n.4 Ottobre-Dicembre 2004
IL MÉTISSAGE: MOMENTO IMPROBABILE DI UNA CONOSCENZA VIBRATORIA (intervista a François Laplantine)
Articolo tratto da Libertaria - il piacere dell'utopia -
aprile/giugno 2004 - trimestrale anno 6 numero 2" (Intervista a Laplantine pubblicata su cartaceo dalla rivista
Libertaria curata dal traduttore del testo francese "Le métissage,
moment improbable d'une connaissance vibratoire" X-Alta, n°
2/3, Multiculturalisme, novembre 1999, p. 35-48 Propos recueillis
à Lyon le 28 juin 1999 par Henri Vaugrand et Nathalie Vialaneix)
Carlo Milani
karlessi@ecn.org
Traduttore
(francese, spagnolo); collaboratore della coop Alekos (www.alekos.org),
Alekos.net; Editor e webmaster della casa editrice Eleuthera (www.eleuthera.it);
Complicità; RadiOwatta (www.inventati.org/owatta).
- (H.V.
- N.V.) "Nella sua opera "Identità e métissage"
lei si scaglia violentemente contro due nozioni molto usuali:
identità e rappresentazione. Propone di osservarle affinchè
sia possibile "dimenticarle con determinazione". Presenta
ad esempio il pensiero dell'identità come un pensiero dogmatico,
che fissa, attraverso il linguaggio e le catagorie, dei limiti:
insomma, un pensiero falsificatore. In cosa la nozione d'identità
culturale è una pratica e una concettualizzazione della menzogna?"
- (F.L.) "In realtà non è un pensiero. Si può pensare di
definire l'identità in molti modi. Ma non si tratta di un concetto.
È affettività che crea esclusione e immobilizza il pensiero, che
cerca di fomentare i gruppi gli uni contro gli altri e tende a bloccare
sia l'individuo sia il gruppo in una derisoria autoctonia. L'identità
rinvia quasi sempre alle proprie origini; immobilizza. È incapace
di pensare il divenire che sorge dall'incontro. Si oppone in questo
al processo del métissage, un pensiero che non è ancora stato veramente
elaborato. Io vedo l'identità coma compattezza e completezza e mai
come mancanza e perdita. La rassicurazione identitaria, la certezza,
la violenza identitaria: ecco cosa bisogna mettere in crisi, più
che in questione. Siamo alla ricerca di un nuovo paradigma che è
attualmente in formazione e che io chiamo métissage. Il fatto di
continuare a utilizzare stereotipi come identità, rappresentazione
e molti altri, finisce per impedire l'esercizio del pensiero critico."
- (H.V. - N.V.) "Lei scrive che "l'identità culturale, nel modo
in cui è stata spesso presentata, non esiste". Significa che ci
sarebbero una o più altre maniere possibili anzi auspicabili di
affrontare questa nozione?"
- (F.L.) "L'identità culturale è la principale nozione forgiata
dai primi etnologi. Quindi, è addirittura inconcepibile continuare
a pensare un'etnologia senza etnie e, a maggior ragione, un'etnologia
senza culture. Da questo punto di vista tutto il problema è una
questione di suddivisioni, di frontiere. Ci troviamo coinvolti in
un pensiero dello spazio mentre la cosa più difficile resta il paradosso
che consiste nel dire il tempo, la storia, le trasformazioni, le
mutazioni, le metamorfosi. Non si può dire se restano legati e incatenati
a un modello di conoscenza che funziona al massimo per lo spazio
ma che non funziona per la temporalità e per la storia. (...) Credo
inoltre che anche la nozione di cultura, in quanto fatto isolato,
unità ritagliata in un continuum in movimento, deve essere messa
in crisi. Così la difficoltà diventa la difficoltà delle parole
per continuare a pensare. Tutto ciò fa perdere i riferimenti a cui
eravamo legati e destabilizza enormemente."
- (H.V. - N.V.) "L'identità più che una realtà sarebbe una rappresentazione,
estremamente volgarizzata, di ciò che si pensa essere reale. Identità
e rappresentazione si ricongiungerebbero così nella facilitazione
di un ripiegamento omologico fra le parole e le cose. (...) Identità
e rappresentazione formerebbero, seguendo il suo ragionamento, una
coppia epistemologica solida al cui cuore la rappresentazione del
mondo sarebbe un'illusione sovrastrutturale, secondaria all'infrastruttura
identitaria. In cosa la rappresentazione è costruita a partire dall'identità?"
- (F.L.) "C'è sempre l'identità dietro la rappresentazione.
Ma dietro l'identità, non c'è nulla. È auto-fondantesi. Oppure ...
c'è Dio, perchè no? Nella nozione di rappresentazione io non vedo
affatto un pensiero o un concetto. È vero, ci sono delle elaborazioni
della nozione in semiologia, in linguistica, forse in psicanalisi.
La cosa interessante è creare concetti operativi che permettano
di comprendere la realtà. Ma nelle scienze sociali io vedo solo
una nozione vuota che parla sempre di pieno. La rappresentazione
ripete, riproduce, ricopia. Nella parola stessa, rappresentazione,
c'è la presenza. (...) Che sia la rappresentazione di un oggetto,
di una situazione o di un momento storico è sempre presentazione
di un'identità. Cioè ri-presentazione di un senso primigenio, situato
già là, che l'etnografia semplicemente raccoglierebbe in un cestino
e conserverebbe. Con la rappresentazione, con l'identità non c'è
avventura e direi che non c'è scrittura. Il pensiero è bloccato.
Il linguaggio è saturo dal principio. Quindi bisogna uscirne e pensare
diversamente. Lei ha parlato di omologia. Fernando Pessoa è per
me lo scrittore che ha smosso radicalmente il mio orizzonte. E c'è
un paese, che ha le dimensioni di un continente: il Brasile. Con
Pessoa, non siamo più nel pensiero monologico. Già Baktin diceva
dialogico. La demoltiplicazione eteronimica di Pessoa fa completamente
esplodere le identità. E questo diventa ridicolo perchè non si smette
mai di demoltiplicarsi. Ce ne sono stati altri prima di lui. Credo
che la rottura radicale in quello che chiamiamo in maniera inesatta
"l'Occidente" arriva con Montaigne. È il primo che dice "Parte di
me è nell'altro, parte dell'altro è in me". Dunque con Montaigne
il pensiero identitario, essenzialista, il pensiero del riflusso
verso l'origine e della menzogna della stabilizzazione, dell'adeguamento
delle parole e delle cose comincia a spezzarsi. Riprendendo l'esempio
di Pessoa, direi che ancora non si arriva a pensare alla sua altezza,
non si arriva nemmeno a pensare in maniera eteronimica, ossia metodologicamente
plurale. Non si tratta affatto per me di una fuga verso l'irrazionale.
Quel che mi colpisce del Brasile è la sua irriducibilità a un pensiero
identitario. Non si può aggiungere un po' di africano, d'indiano,
di portoghese. È un'altra cosa. È la trasmutazione di tutto ciò
che si incontra. E non dico degli "elementi": bisogna fare molta
attenzione alle parole. Col termine "elemento" si è sempre nel pensiero
della scomposizione analitica e della purezza cronologica e ontologica.
Il Brasile e Pessoa hanno smosso profondamente la mia visione del
mondo e senza dubbio il mio modo di scrivere.
- (H.V. - N.V.) "Il contratto identitario sarebbe dell'ordine del
riflusso verso l'origine, della sottrazione. Al contrario, la dichiarazione
identitaria può essere percepita come bellicosa, come volontà additiva.
In entrambi i casi si osserva un'esacerbazione del differenzialismo
che lei dichiara "oggi si chiama multiculturalismo". D'altra parte
lei associa quest'ultimo al comunitarismo. Qual è secondo lei il
senso preciso ed eventualmente la differenza fra i due termini?"
- (F.L.) "Il pensiero identitario, se di pensiero si tratta,
è sempre conservatore. E allo stesso modo non bisogna aspettarsi
nulla dal dialogo fra identità, finisce sempre male! Ho scritto
queste cose prima che ci fosse il massacro della pulizia etnica
in Kosovo. È pazzesco come ogni volta che si comincia con l'identità
o che si utilizza questa parola, finisce male. Si possono concepire
il multiculturalismo e il comunitarismo in maniera un po' differente.
La società nord-americana ha il vantaggio di non presentare sfumature:
è visibilmente trasparente. Mi interessa, ci vado una volta all'anno
perchè è come il Brasile, però al contrario. Vedere il Brasile invece,
mi permette di ritornare meglio in America Latina. (...) Penso che
il multiculturalismo, nel senso abbastanza radicale e molto poco
sfumato che assume in America del Nord, negli Stati Uniti e in Canada,
consisterebbe nel riparare il debito, relativo alle vittime scaturite
dalla dominazione dell'uomo bianco. Il concetto di "riparare" contiene
sempre questa idea morale e puritana dell'America del Nord: le vittime
nere, poi indiane e poi si estende agli omosessuali, alle donne
e sempre con le migliori intenzioni del mondo. Questo è l'aspetto
che si ripropone sempre piuttosto paralizzante nella società nord-americana,
che si fonda su una violenza strutturale che favorisce i ricchi
a discapito dei poveri, ma con in più l'idea di tolleranza e rispetto.
Questo comporta un'incomprensione totale in rapporto a quello che
chiamo pensiero repubblicano: assicurare il rispetto dei gruppi
detti minoritari. È un po' difficile da capire quando si proviene
dalla Francia perchè possiamo definire la società americana etnico-civica.
Non solo civica, ma anche etnica. La società francese spinge la
situazione esattamente nell'altro senso, fino a farla diventare
altrettanto catastrofica. A tal punto che ce ne rendiamo conto ora,
poichè siamo nel pieno del dibattito sul riconoscimento delle lingue
regionali nella Carta europea, che è straordinariamente rivelatore
della questione multiculturale e del fondamento della Repubblica
francese. Il multiculturalismo è il riconoscimento del fatto che
possono coesistere un'appartenenza civica che è propria di tutti
gli Americani, una cultura minoritaria e diverse culture minoritarie.
In Francia c'è una sola cultura dal punto di vista istituzionale,
la cultura nazionale. Negli Stati Uniti, si appartiene alla nazione
americana, ma si può essere di cultura polacca, italiana, ecc. Il
multiculturalismo o il comunitarismo nella sua forma più radicale
è l'indistintamente distinto, la giustapposizione spaziale che è
il contrario della trasmutazione meticcia e questo favorisce la
regressione verso le rispettive origini di ogni gruppo etnico. Vede,
il problema è la nozione di etnico, che nemmeno in Francia esiste.
Si espande ovunque: si parla di cucina etnica, di musica etnica,
ecc. Con la molteplicità delle culture etniche si regredisce e ci
si fissa in ciò che dicevo poco fa del pensiero dello spazio. Ci
troviamo nella giustapposizione territoriale, ma non nella dinamica
che definisco meticcia del tempo in divenire. Il fenomeno dei quartieri
(cinese, italiano, nero, ecc.) ci aiuta a capire come il métissage
fatto di incontri sia la fobia della società nord-americana. D'altra
parte è curioso il fatto che non esista nemmeno la parola métissage.
Quindi, pensiamo giustamente a delle comunità giustapposte, che
però non sono sufficienti per far nascere una cultura globale, poichè
la società rimane sempre legata all'anglo-conformismo che è il modello
dominante. Non si può assolutamente sapere cosa succederà quando
le minoranze diventeranno maggioranze come in California, dove i
Latinos, i Messicani, stanno diventando dominanti. Non saranno più
minoranze, non si potrà più riparare a ciò che è loro stato fatto
subire."
- (H.V. - N.V.) "La fissazione categoriale e la naturalizzazione
non concepiscono la miscela e il métissage, a proposito del quale
lei ha scritto una sorta di difesa con Alexis Nouss. (...) Quale
prospettiva di umanità vuole aprire interrogandosi ed esaminando
per il métissage?"
- (F.L.) "C'è una banalizzazione della parola métissage.
Il métissage viene quasi sistematicamente confuso col suo contrario,
che è il sincretismo, la miscela, la fusione. Viene anche riconosciuta
come simile all'addizione senza fine. C'è questa connotazione variopinta,
colorata, che fa pensare ai Caraibi, al piacere tropicale, ecc.
Credo che l'aspetto difficile da capire nel métissage, sia quello
che non ci si trova nell'universo della fusione, della confusione,
dell'assorbimento, della scomparsa delle differenze. Non tutti gli
incontri fra culture sono necessariamente meticci. Diverse culture
possono coabitare, possono addirittura mescolarsi. Da questo incontro
può persino sorgere un gruppo meticcio e questo è terribile perchè
si riforma la categorizzazione, mentre al contrario il métissage
decategorizza, declassa, declassifica. Non ci si trova nemmeno nel
pensiero differenzialista, dell'esclusione. Bisogna creare un'altra
via come paradigma del cambiamento, sia nel pensiero estetico sia
nel pensiero politico. Questo sarebbe, secondo me, un atto d'insubordinazione,
di ribellione rispetto all'Uno, rispetto all'unità, all'unificazione,
rispetto all'idea di totalità o meglio di totalizzazione e, allo
stesso tempo, rispetto all'idea di parcellizzazione. Altrimenti
si arriva a pensare la totalità: in questo caso, generalmente, la
si concepisce in maniera chiusa, come autosufficiente. Questo ci
fa rifluire al di qua della modernità. Non ci troviamo nella postmodernità,
bensì nella modernità, cioè nella contraddizione. (...) Quando non
si pensa la totalità, si pensa la scheggia, la parte, il frammento.
Si tratta di creare un'altra via tra la fusione totalizzante e l'eterogeneità.
Non è propriamente un concetto. Il métissage è quel momento improbabile
che rientra nel campo di una conoscenza vibratoria e non del sapere.
Come dire? Il sapere - mi rifaccio a Maurice Blanchot - è il pensiero
del giorno, il pensiero che illumina, il pensiero che analizza,
che vede tutto chiarito dalla luce e se ne impossessa. Il pensiero
identitario vi s'inscrive bene. Mentre al contrario la conoscenza
vibratoria è la conoscenza del giorno e della notte alternati, la
conoscenza della penombra. Il métissage si trova in questi momenti
assai rari che sorgono prima che si rapprenda il cemento identitario.
È talmente raro! Porto due esempi per capire di cosa stiamo parlando.
Non è l'incontro fra una musica moderna europea e una musica tradizionale
africana che fa scaturire una musica meticcia. È molto più complesso.
Prendiamo l'esempio del tango. Il tango non è meticcio perchè ha
origini africane, americane, italiane, ecc. Nemmeno è meticcio perchè
canta su un ritmo pimpante il lamento di un'anima disperata. È meticcio
coreograficamente, perchè c'è quel movimento che in spagnolo si
chiama "corte", che è la sospensione del ritmo a partire dalla quale
i passi della donna possono operare una libera creazione, elaborazione,
a cui risponderanno i passi dell'uomo. Mentre nel valzer, che è
identitario, si continua a ripetere, a riprodurre lo stesso ritmo,
la coreografia del tango è infinitamente diversificata. È questa
tensione meticcia a fare in modo che i passi dell'uomo siano irriducibili
ai passi della donna. Secondo esempio sul quale rifletto è il sentimento
lusitano, ovvero portoghese e brasiliano della "saudade", che consiste
simultaneamente a soffrire del piacere del passato e a prendere
piacere della sofferenza del presente. Non è un grande sentimento
ardente come l'odio, la collera, l'amore. La "saudade" è l'amore
del disamore che trasforma l'assenza in presenza e la sofferenza
in piacere (della sofferenza). È un pensiero che sta fra-due-rive
che non smette d'oscillare fra l'eternità e l'effimero, la finzione
e la realtà, ed esprime con un lamento languido questo movimento
ritmato di onda a cui corrisponde l'instabilità dell'anima. Questa
è una parola che possono capire solamente i portoghesi e i brasiliani,
poichè essi leggono nella medesima esperienza sensibile il piacere,
il dolore, il passato, il presente. Questo è il métissage. È questa
tensione difficile, talvolta per nulla euforica, che può essere
dolorosa, perchè nel pensiero del métissage, nell'esperienza di
chi è meticcio, c'è molta più lacerazione e molta più perdita che
attaccamento. Si abbandona ciò che si è per divenire ciò che non
si sa ancora. Questo è il problema posto dal métissage e dall'identità.
Nessuno è pronto a battersi per il métissage mentre tutti sono pronti
a battersi per l'identità. Il métissage è la perdita dell'identità.
Nessuno vuole perdere la propria identità. Nessuno vuole essere
in assenza di gravità, nella molteplicità, ecc. Si amano la stabilità,
i riferimenti, i ritorni a casa propria invece che le svolte, i
movimenti di piegamento (Deleuze) e ripiegamento che richiamano
degli approcci non più frontali ma laterali."
- (H.V. - N.V.) "Il métissage, voltato verso l'avvenire, verso il
divenire, è secondo lei il contrario del multiculturalismo, bloccato
e fissato sul passato ..."
- (F.L.) "C'è métissage a partire dal momento in cui il divenire
verso cui si va vince sulle origini da cui si viene. E questo divenire
è improbabile, appartiene al virtuale. Non si tratta di ciò che
scaturisce quando due gruppi, due parti di me si incontrano. Affinchè
il métissage avvenga è necessario che ci sia qualcosa di non-detto,
di non saputo, di non visto, ciò che nel cinema si chiama "fuori
campo". Non bisogna ripetere, non bisogna ritornare a quello che
si era prima. È irriducibile alla somma delle componenti perchè
non è scomponibile. È necessario abbandonare una parte del pensiero
analitico senza per questo rinunciare alla ragione."
- (H.V. - N.V.) "Leggendo quello che scrive, si resta incerti davanti
a un'ambiguità. Si trova contemporaneamente il vagabondaggio e la
circolazione, la separazione e la riconciliazione, quella di Descartes
e di Cervantes che lei difende ..."
- (F.L.) "No, non la riconciliazione. Si tratta invece di
non essere emiplegici. Credo che anche Michel Serres sviluppi questo
concetto. Camminare con due gambe. La razionalità scientifica non
vince sul romanzo nè il romanzo sulla scienza. C'è tensione, c'è
conflitto, ma senz'altro non riconciliazione. Sono risolutamente
anti-hegeliano, contrario alla dialettica che abolisce la tensione
tragica fra Apollo e Dioniso, contrario a tutto ciò che fissa, contrario
a tutto ciò che contribuisce a ricostituire appunto una soluzione,
un'identità."
- (H.V. - N.V.) "Si potrebbe parlare piuttosto allora di un'epistemologia
dell'incontro?"
- (F.L.) "Sì, in un certo senso. Anche in Andrè Breton, anche
nel surrealismo c'è una tendenza alla riconciliazione, a trovare
un punto nel quale possiamo superare i conflitti: così si esce dalla
modernità. Si esce dalla nostra epoca. Si esce dall'antropologia.
E si esce anche dal métissage."
- (H.V. - N.V.) "È il bricolage di Lévi-Strauss?"
- (F.L.) "Bricolage è insufficiente. Come sono insufficienti
ibridazione, mescolanza, miscela, assemblaggio, che non permettono
di pensare il divenire meticcio perchè queste parole suppongono
ancora l'esistenza di "elementi" ontologicamente o storicamente
primari che si sarebbero in seguito incontrati per produrre qualcosa
di derivato. Nel pensiero combinatorio - Leibniz, Lévi-Strauss o
ancora i giochi dell'OuLiPo - si ottengono delle variazioni, delle
varianti, delle variabili della stessa cosa, e questo lascia sempre
indenni i "termini" o gli "elementi" preesistenti. Quello che ostacola
il pensiero meticcio è il primato del segno come segno di un senso.
Non esiste senso che non si possa dire in maniera differente, che
non sia simultaneamente forma del senso, intonazione della voce,
inflessione del gesto, connotazione e tremolamento delle parole,
curvatura del pensiero. Il métissage si elabora nella ritmica, in
quei movimenti di mutazione, di trasmutazione, di flessione, di
riflessione, di ripiegamento e non combinando dei segni preesistenti
e preritagliati. Bisogna quindi non pensare più in termini di struttura
senza per questo ritornare puramente e semplicemente alla cultura
con tutto ciò che l'accompagna: sorgente, influenza, prestito, acculturazione
(...). Poichè mi oppongo all'identità mi oppongo anche all'acculturazione
e alla transculturazione. Questa parola è stata coniata a Cuba,
quando Malinowski ha incontrato Fernando Ortiz. Gli antropologi
continuano a pensare in termini di acculturazione e, più timidamente,
di transculturazione. Questo presuppone ancora che esista qualcosa
di primitivo e qualcosa di secondario, qualcosa di derivato e qualcosa
di originario. Mentre invece la causa può essere successiva all'effetto,
ecc.: ecco il paradosso di Borges, che trovo fantastico per l'immaginazione
e la razionalità scientifica. Insisto molto sulla trasmutazione
e sulla trasmutazione degli uni negli altri senza che ci sia un'origine
in uno stato tale per cui si possa ritrovare."
- (H.V. - N.V.) "Da qui l'idea che il métissage sia più vicino a
un transculturalismo?"
- (F.L.) "È l' "ismo" che non funziona, o meglio, il "culturalismo".
Il culturalismo fa rima col multiculturalismo ma anche con Le Pen.
Alla fine sta scomparendo: tanto meglio. Anche un pensiero di estrema
destra può funzionare col culturalismo."
- (H.V. - N.V.) "Lei definisce la cultura come "l'insieme dei comportamenti,
dei saperi e delle conoscenze caratteristiche di un gruppo umano
o di una data società, acquisiti attraverso un processo di apprendimento
e trasmessi all'insieme dei membri". In fin dei conti, come lei
dice altrove, il paradigma antropologico moderno non è molto semplicemente
una ricerca finalizzata alla comprensione del tempo?"
- (F.L.) "Il modello su cui si è formata l'antropologia,
più che la sociologia (perchè la sociologia classica nei suoi riferimenti
prende in considerazione il tempo, ma il tempo alla maniera del
XIX secolo) è più un modello dello spazio. L'etnografia si trova
a suo agio nella descrizione degli spazi. Eccelle nella topografia
e non nella coreografia. Credo che la sfida per una disciplina di
questo tipo, che non sa funzionare in totale autarchia, sia dire
il tempo. Insisto sui due termini: dire il tempo. Trovare le parole
per dire il tempo. Per dire le trasmutazioni. È un lavoro sulle
sfumature, le graduazioni, le modulazioni e non solo sulle modalità,
che lo scrittore, il musicista, il cineasta sono capaci di realizzare
per un lavoro di riflessione su delle transizioni, su qualcosa di
effimero, su qualcosa di fuggitivo, su ciò che si trasforma. Si
tratta di micro-componenti. È quello che ci distingue dalla sociologia.
La sociologia è più o meno l'antropologia meno il corpo."
- (H.V. - N.V.) "Malgrado i tentativi attuali in alcune correnti
sociologiche ..."
- (F.L.) "Rettifico: la sociologia classica, nella sua matrice
marxista, durkheimiana, weberiana. Ha pensato molto poco la sensualità,
la sensazione e ha pensato molto alla società globale, è entrata
poco nelle micro-componenti e nello spessore del corpo."
- (H.V. - N.V.) "Umani al di là delle appartenenze (...) sarebbe
allora un passaggio, un vagabondaggio dell'essere verso il fare
e il divenire? Dell'essere fra-due o fra-tre?"
- (F.L.) "La società brasiliana mi intenerisce perchè fa
vacillare ciò che è dualista e ci fa comprendere la ternarietà.
È difficile da comprendere per noi che veniamo da una società formata
su un modello cartesiano. Il Brasile è il solo paese ad avere tre
capitali: Rio, Saõ Paulo e Brasilia. Ma non è precisamente ciò che
intende lei. No, il trittico che lei propone non mi suggerisce nulla
di particolare. Certamente non l'essere. Esso ci rinvia a un pensiero
platonico o heideggeriano. Non ne voglio affatto. Quello che bisogna
pensare non è l'identità, è l'alterità. È l'essere altro. È il divenire
altro. Non metterei questo essere. Non c'è alcun essere. Solo un
poter essere, un forse. Che non è nulla."
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