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M@gm@ vol.2 n.4 Octobre-Décembre 2004
IL RAZZISMO: IL RICONOSCIMENTO NEGATO
Renate Siebert, Il razzismo: il riconoscimento negato, Carocci,
Roma, 2003
Francesco Bachis
Il testo di Renate Siebert si colloca all'interno del dibattito
sul razzismo e prende in considerazione principalmente la letteratura
in lingua francese, tedesca ed italiana. La finalità didattica del
testo tende a far risaltare un percorso a più voci lungo le principali
problematiche che hanno animato il dibattito pubblico negli ultimi
trent'anni. Il razzismo viene concepito come un fenomeno storico
ma "è costituito allo stesso tempo di una serie di rappresentazioni,
immagini e fenomeni cognitivi che hanno a che fare con la psiche,
con la coscienza e con i sentimenti": è "una sorta di filtro che
si frappone tra le persone strutturando le proiezioni degli uni
sugli altri e influendo sui processi di identità e di riconoscimento".
Il lavoro è quindi animato dall'intento di dar conto di questa articolazione
e dalla necessità di impegnarsi su un duplice fronte: uno interno,
teso alla scoperta dei "meccanismi psicologici della proiezione
e la dimensione cognitiva, ciò che ci fanno essere tutti un po'
razzisti"; dall'altra parte "cercare di conoscere la storia la geografia,
le società non-europee e non occidentali".
La centralità dell'individuo, tanto nella "diagnosi" e quanto nella
"cura" del razzismo, deve portare a percorrere una via che "parte
da noi stessi e ritorna a noi, alla nostra sensibilità nelle relazioni
con gli altri, e soprattutto alla nostra responsabilità." Nel testo,
la preoccupazione di mantenere questa centralità, è accompagnata
dalla necessità di collocare il razzismo nella sua epoca storica
e nel suo contesto sociale, nella convinzione che si tratti di una
parte non secondaria della modernità. L'orientamento della ricerca,
la scelta di un approccio che sia già in partenza "etico", muove
dalla convinzione che le razze siano biologicamente dei falsi concetti
e socialmente delle produzioni del razzismo. Nell'enorme congerie
di studi sull'argomento, un testo anche in parte compilativo come
quello della Siebert, deve compiere delle scelte, delle inclusioni
e delle esclusioni: queste vengono rivendicate e sono orientate
dalla necessità di "disimparare il razzismo": "In un certo senso,
come suggeriscono i cultural studies e i postcolonial studies, occorre
scoprire le radici dei sistemi della conoscenza moderna nelle pratiche
coloniali, cominciando con un processo per disimparare attraverso
il quale possiamo mettere in crisi le verità ricevute".
La chiave di lettura principale tramite cui viene analizzato il
razzismo è quella del "riconoscimento negato", un approccio che
implica una "particolare attenzione alla sfera relazionale e alle
implicazioni che il processo della costruzione sociale dell'altro
comporta nell'esperienza di colui o colei che sono investiti di
un'alterità segnata da un misconoscimento di tipo razzista". La
"via di fuga" dal mancato riconoscimento dell'umanità dell'altro,
può essere fornita da una società multiculturale che concepisca
i diritti dell'individuo prima di tutto come "diritti dell'altro"
o "doveri verso l'altro". Cercheremo di fornire una serie di rilievi
a queste due tematiche, nelle connessioni che legano la prima al
pensiero di Frantz Fanon e alla dialettica "servo - signore", e
la seconda alla concezione di "multiculturalismo ben temperato"
e alla via etica per andare "oltre il razzismo" di Taguieff.
Un peso decisivo nella riflessione di Renate Siebert assume il pensiero
di Frantz Fanon e i concetti di proiezione ed identificazione proiettiva.
I due concetti freudiani vengono declinati come la costruzione del
soggetto razzizzato da parte del soggetto razzizzante: se per Fanon
il bianco proietta sul nero le proprie intenzioni e "si comporta
come se il nero le avesse realmente", e per Sartre l'antisemita
ha paura di tutto (e specialmente di se stesso) fuorché degli ebrei,
Siebert sembra estendere il meccanismo a tutte le forme del razzismo,
recuperando anche la riflessione sui risultati che questa proiezione
di incubi ha sugli individui che ne sono investiti. E' a partire
da dalla considerazione della "necessità di socialità" che viene
negata ai gruppi razzizzati che si approda al nodo del "riconoscimento
negato". La socialità dell'uomo è necessaria e il bisogno di riconoscimento
è un bisogno universale: solo in epoca moderna tale bisogno è stato
affrontato poiché solo in questa epoca si sono poste le condizioni
perché venisse meno. La dialettica servo - signore di Hegel mette
in evidenza la "possibilità di un rapporto tra diseguali (...) che
tuttavia hanno in comune la qualità dell'umano che si rinnova e
conferma nello scontro fra di loro".
L'ideologia razzista, viceversa, struttura le relazioni secondo
la dicotomia "umano - non umano", analoga in ciò alla naturalizzazione
delle differenze di genere, impedendo il riconoscimento e la reciprocità
nella lotta. L'abolizione della schiavitù è una concessione che
non altera questo meccanismo, poiché il pieno riconoscimento avrebbe
dovuto produrre l'occupazione dello spazio che nelle dinamiche imperialiste
viene riservato alla subordinazione totale dell'altro: implicherebbe
ciò che Said chiama una "reiscrizione". La rioccupazione di questo
spazio di subordinazione può passare per il rovesciamento radicale
della prospettiva, facendo diventare oggetto di osservazione coloro
che solitamente sono soggetti osservanti: questa è la risposta che
fornisce l'antropologa africana Geneviève Makaping, con una "sovversione
dello sguardo" che sembra sgretolare le certezze quotidiane sugli
"extracomunitari", con esercizi di osservazione etnologica che "denudano"
il "bianco" mostrando ciò che accade normalmente con il "nero".
Ma non restano fuori dalla riflessione dell'autrice altri modi di
rispondere alla violenza del riconoscimento negato, dal silenzio
che non riconosce il potere perché non lo celebra, alla violenza
"sedimentata nei muscoli" colonizzato di cui parla Fanon.
Se la questione dell'alterità ha segnato profondamente l'epoca moderna
e il colonialismo, essa resta dentro di noi, nei nostri rapporti
con i migranti, come "forma interiorizzata dell'ordine coloniale"
nei confronti del quale si sviluppano nuove strategie di sovversione
che, come sostiene Bhabha, puntino al raggiungimento di una "libertà
rischiosa", che superi forme di "mediazione tra servo e signore"
proposte dalla riflessione di Fanon. Ma ciò che meriterebbe maggior
approfondimento è proprio questo salto dalle tematiche di lotta
anticolonialista di Frantz Fanon e il pensiero "postcoloniale" di
Bhabha e Said. Se ci si ferma all'aspetto di analisi del colonialismo,
alla ricostruzione storica o culturale, tutti i passi per restituire
lo sguardo coloniale, provincializzare l'Europa e rompere la gabbia
di quella particolare forma di etnocentrismo che è l'eurocentrismo,
convergono con l'intento di recupero della "piena umanità" dei gruppi
razzizzati. Quando si giunge alla "elaborazione delle nuove modalità
di rapporto", quando si collocano le relazioni con l'alterità non
su un piano neutro, "al di là e al di sopra della storia e dei rapporti
di forza economici e politici", ma in concrete realtà storico-politiche
nelle quali la prospettiva di dominio e di "razzizzazione" è tutt'altro
che tramontata, la forza delle elaborazioni sugli studi culturali
sembra venire meno, e così anche il loro legame con il pensare rivoluzionario
di Fanon. Il processo di decostruzione dell'unidimensionalità con
cui viene presentata l'esperienza coloniale, "l'insurrezione delle
voci subalterne" (Loomba), la constatazione dell'intima contraddizione
tra la democrazia in patria e il dominio nelle colonie (Bhabha),
rischiano di restare sul terreno della decostruzione "astratta"
o sulla constatazione, come a tratti sembra fare Siebert, dell'ibridazione
e della molteplicità differente delle esperienze e delle realtà
postcoloniali.
Un'integrazione di altri elementi e altre riflessioni potrebbe rendere
più fertile questo approccio. La "ricolonizzazione del mondo" nell'economia-mondo
capitalista può spingere ad una analisi differente del ruolo delle
migrazioni internazionali, collocandole anche all'interno della
divisione internazionale del lavoro e non solo riponendole nell'ambito
della cattiva coscienza occidentale del proprio passato coloniale.
Forse occorre ripensare i processi di razzizzazione all'interno
di una fase storica in cui la gestione diretta del potere nelle
ex colonie da parte degli stati occidentali pare tornata drammaticamente
d'attualità. La guerra infinita al terrorismo che proietta la potenza
economico-militare americana sul globo, ma anche le esperienze precedenti
di instaurazione di protettorati de facto, possono spingerci a considerare
l'ipotesi che ci si trovi davanti ad un nuovo colonialismo, e ad
una fase nella quale non è tanto lo "stato nazione" in astratto
ad entrare in crisi, quanto "alcuni stati", specialmente le ex colonie.
Se, come afferma Bhabha, è finito il tempo di "assimilare minoranze
entro olistiche e organiche nozioni di valore", è anche vero che
la prospettiva del razzismo culturalista non concede neppure questa
forma di rapporto e di riconoscimento nell'assimilazione.
Ancor più che il "come", penso, valga la pena di discutere il "chi",
possa e debba spezzare le catene del riconoscimento negato. In questi
termini cercheremo di affrontare l'aspetto della società multiculturalista
e dell'approccio etico al razzismo. Nell'ultimo capitolo si fa riferimento
alle differenti declinazioni che questa prospettiva può assumere.
Il multiculturalismo, in generale, viene presentato come una occasione
che ci consente finalmente di "vedere gli altri": se Taguieff sostiene
che occorra "contrastare questi tempi grami con forme di eroismo
quotidiano" Siebert, con Claussen, propone di "non perdere di vista
i fondamenti illuministici" per combattere l'antiuniversalismo del
razzismo. Questa pulsione illuminista porta ad un "multiculturalismo
ben temperato", nella versione di Turraine: un multiculturalismo
che non sia un semplice pluralismo delle ortodossie, cosa che avrebbe
come effetto la fine del dibattito pubblico, ma uno spostamento
in avanti della democrazia verso la pratica del riconoscimento.
In questo ambito solo il richiamo al soggetto può fornire una risposta
agli interrogativi che oggi i problemi della democrazia pongono
come spazio di libertà pubblica. Si tratta insomma di una opzione
multiculturalista ancorata non sulla comunità ma sull'individuo
che ripercorre, oltre alle formulazioni di Turraine, le critiche
di Taguieff ad un comunitarismo integrale, richiamandosi alle riflessioni
di Habermas sulle forme di sopravvivenza garantite alle culture
che porterebbero ad un imprigionamento dell'individuo nella scelta
fra un sì o un no ad entità date.
Dal punto di vista dei diritti civili vengono prese in considerazione
due posizioni: quella di Ferrajoli e quella di Habermas. Il primo
si colloca nel quadro di uno "stato nazione", l'altro all'interno
della "utopia" dell'eliminazione di questo. Habermas, afferma che
non esiste solo il diritto all'autodeterminazione dell'individuo
ma anche quello di un ordinamento democratico complessivo che si
deve far valere nei confronti dell'immigrazione. Ferrajoli invece
propone un radicale superamento dei contesti e dei vincoli dei diritti
fondamentali. Sopprimere i diritti di cittadinanza per fare una
cittadinanza universale. La problematica del rapporto tra individuo
e comunità, così come tra universalismo e diritto alla differenza
attraversa tutta la riflessione sul razzismo. La posizione che assume
Siebert nei confronti di quello che pare essere diventato "il problema"
della riflessione in questo campo, si può articolare a partire da
due elementi: la centralità dei diritti dell'individuo, mediati
dalla assunzione, utopistica ma non per questo considerata meno
feconda, della prospettiva di un diritto universale di cittadinanza
fuori (e in qualche modo contro) gli stati; una nuova etica che
contenga il rovesciamento dei diritti del soggetto in diritti dell'alterità,
derivato da Taguieff e Lévinas. Su quest'ultimo aspetto cercheremo
di argomentare qualche rilievo.
La posizione che propone Taguieff, citando Emanuel Lévinas, è quella
di un approccio etico ai diritti umani: essi vanno concepiti anzitutto
come diritti altrui. L'alterità non va considerata come una "immagine
dello stesso", cioè dell'Io. I diritti dell'uomo vanno riconsiderati
innanzitutto come doveri verso l'uomo. E' quello che Taguieff chiama
una filantropia nonostante l'uomo. Siebert recupera questa posizione
come una possibile soluzione che, provocatoriamente, riprende i
termini del riconoscimento rovesciandoli: occorre riconsiderare
"la relazione tra noi e gli altri in termini etici come essenzialmente
dissimetrica". Da una dissimetria del soggetto nei confronti dell'alterità
ad una dissimetria dell'alterità nei confronti del soggetto. Le
problematiche aperte da un approccio "etico" al riconoscimento negato
sono numerose: dal rischio volontaristico ad una forma forse più
subdola di un nuovo eurocentrismo. Proveremo ad argomentare questa
seconda ipotesi a partire dal testo, citato da Siebert, di Kossi
Komla-Ebri. Durante un incontro dell'autore con gli alunni di una
scuola, alla domanda: "che cosa è il razzismo?" un bambino risponde
"il razzista è il bianco che non ama il nero". "E il nero che non
ama il bianco?" chiede Komla-Ebri. "Come può permettersi il nero
di non amare il bianco?", risponde il bambino. Siebert deduce da
questo episodio la profonda e inconsapevole "strutturazione etnocentrica
della nostra percezione". Ma si può andare oltre chiedendosi anche
per quale motivo sembra inconcepibile ad un bambino che un nero
non ami un bianco, che possa odiarlo. Credo che uno dei motivi sia
un'intuitiva percezione della superiorità economica che schiaccia
il mondo dei "poveri" (razzizzati come neri) sotto il mondo dei
"ricchi" (razzizzati come bianchi). Il nero ha ben poco per non
dover "amare il bianco", poiché, essendo concepito come "inferiore"
ad esso si pensa inevitabilmente speri di divenire "bianco" anch'esso.
E' una tematica, quella del rifiuto della propria soggettività,
che ha attraversato una buona parte della riflessione antirazzista
ed anticolonialista, ed il superamento dell'autofobia è stato uno
dei primi obiettivi che i movimenti di emancipazione delle comunità
razzizzate si sono posti.
La considerazione di una soluzione etica che superi le negazione
del riconoscimento rischia di porre il problema fuori dalla considerazione
materiale dei rapporti di dominio: il "nero" non ha il problema
di dover "riconoscere il bianco come umano", poiché l'umanità di
questo è imposta dai rapporti di potere dissimetrici. Di conseguenza
la considerazione dei diritti prima di tutto come doveri verso l'alterità,
il rovesciamento provocatorio della dissimetria tra soggetto e alterità,
riguarda il gruppo razzizzante, poiché i doveri del razzizzato sono
già imposti dal rapporto di dominio. Il rischio è che la soluzione
del conflitto scaturisca dal razzizzante, e sia ancora una volta
una sua "concessione benevola" nei confronti del dominato; una nuova
filantropia che lascia inalterato il rapporto dissimetrico che ha
generato il mancato riconoscimento, con il paradossale risultato
di riprodurlo. Il pericolo è che quella particolare forma di etnocentrismo
che è l'eurocentrismo, inteso in senso ancor più ampio di "centralità
dell'occidente", venga ribadito da una impostazione che rischia
di lasciare inalterato il ruolo del "bianco" come attore principale
e dominante del rapporto. E' il bianco a prendere in considerazione
prima di tutto i doveri verso l'altro, poiché al "nero" questi doveri
sono già imposti.
SCHEDA BIBLIOGRAFICA
[
Renate Siebert / Il razzismo:
il riconoscimento negato, Carocci, Roma 2003. ]
Presentazione dell'autrice
Renate Siebert (Renate Siebert Zahar), allieva di Adorno,
è professore ordinario di Sociologia del mutamento all'università
della Calabria, si occupa di questioni che riguardano il Mezzogiorno
d'Italia e l'area del Mediterraneo, specialmente in riferimento
a questioni di genere, di sessismo e di violenza mafiosa,
ai temi del razzismo e del colonialismo.
Abstract
"Il razzismo è un riconoscimento negato: all'altro si rifiuta
di riconoscere dignità pari alla nostra. Le forme di tale
misconoscimento sono differenti nella storia e richiedono,
per essere comprese, diversi chiarimenti concettuali: si tratta
di studiare i meccanismi di formazione di ideologie e di sentimenti,
quelli della loro trasmissione, quelli del loro radicarsi
in opinioni, pregiudizi e senso comune. Questo volume propone
un percorso attraverso tali temi e attraverso la storia della
modernità. Le questioni dell'alterità e della costruzione
sociale dell'altro vengono analizzate facendo leva sull'esperienza,
al fine di individuare come e dove si innescano le dinamiche
psichiche e cognitive che deformano la nostra percezione in
modo razzista. Le varie forme storiche del razzismo - da quello
biologico a quello culturale o differenzialista, passando
per l'esperienza cruciale dell'antisemitismo- sono presentate
nelle sfaccettature che assumono nel vasto dibattito attuale
e in un quadro che ne sottolinea la particolare collocazione
nella modernità occidentale. I fenomeni migratori e le prospettive
multiculturali che oggi si aprono sono analizzati in stretto
rapporto con il lascito storico del colonialismo, dell'imperialismo
e del nazionalsocialismo, evidenziando al contempo le innovazioni
concettuali proposte dai più recenti studi postcoloniali.
Il volume si pone come strumento per disimparare il razzismo
- che porta tanto a un immiserimento di noi stessi quanto
a un impoverimento della società - seguendo un tracciato originale
che è anche un prezioso ausilio per la didattica universitaria."
Indice del volume
Introduzione
1. La questione dell'Alterità
Esperienza, alienazione, sofferenza
Il nodo del riconoscimento, del mancato riconoscimento, delle
dinamiche che ne conseguono
2. La costruzione sociale dell'Altro
Rappresentazione sociale, opinione, senso comune, pregiudizio
Culture ed etnocentrismo: un ambivalenza
3. Razzismi
Il razzismo biologico: l'invenzione della razza
Il differenzialismo: il tabù della razza
4. L'ideologia razzista
Nazionalismo ed eticità
Immigrazione e modernità postcoloniale
5. L'antisemitismo
I Limiti dell'illuminismo
Olocausto e modernità
6. La prospettiva del multiculturalismo
Tra colpa, diniego e lavoro del lutto
Tra particolarismo e universalismo: lo scoglio della cittadinanza
Conclusioni
Bibliografia dell'autrice
1970
Il pensiero di Frantz Fanon e la teoria dei rapporti tra colonialismo
e alienazione, Feltrinelli, Milano. (Edizione originale in
Tedesco del 1969)
Kritische Analyse von Schulbüchern zur Darstellung der Probleme
der Entwicklungsländer und ihrer Positionen in internationalen
Beziehungen (con K. Fohrbeck), Institut für Sozialforschung,
Frankfurt/Main.
1971
Heile Welt und Dritte Welt - Medien und politischer Unterricht
(con K. Fohrbeck, A. J. Wiesand) Leske Verlag, Opladen.
1984
Le ali di un elefante - Sul rapporto adulti/bambini in un
paese in Calabria, Franco Angeli, Milano.
1991
E' femmina, però è bella - Tre generazioni di donne al Sud,
Rosenberg & Sellier, Torino.
1994
Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano.
1995
La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, Soveria Mannelli.
1996
Mafia e quotidianità, Il Saggiatore-Flammarion, Milano.
Lorica:Un ritratto a più voci, Rubbettino, Soveria Mannelli.
1997
Andare ancora al cuore delle ferite. Intervista a Assia Djebar,
La Tartaruga, Milano.
1999
Cenerentola non abita più qui. Uno sguardo di donna sulla
realtà meridionale, Rosenberg & Sellier.
2001
Storia di Elisabetta. Il coraggio di una donna sindaco in
Calabria, Pratiche Editrice, Milano.
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