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M@gm@ vol.2 n.2 Avril-Juin 2004
MEMORIE DI RICERCA E OGGETTI SÉ
Emilia De Simoni
emids@libero.it
Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, parte integrante dell'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia, Roma.
Tante cose vorrei raccontare, che ho dentro, come un diario di diari, e si intrecciano a ricordi di lontane esperienze di ricerca, a riflessioni sugli esiti del mio lavoro. In vent'anni di riprese audiovisive, in Abruzzo, Lazio, Lucania, Toscana, ho prodotto materiali che ora giacciono in un museo, immagini e voci che non vorrei neanche classificare, se non come testimonianze di relazioni intersoggettive, di scambi tra figure che il tempo ha in gran parte cancellato, le cui parole e movenze tuttavia restano, non tanto come beni culturali, ma, almeno per me, come beni umani.
Ho molto appreso da questi incontri, e sempre ho avuto un certo pudore nel restituire le mie emozioni di osservatrice e ascoltatrice verso quei personaggi che mi hanno offerto le parti preziose della loro memoria, in modi talvolta tragici, talvolta lievi. Il mio obiettivo è stato quello di documentare, poiché credo molto nel valore dei documenti audiovisivi, come fossero tasselli di un mosaico di vite, anche se impossibile da ricomporre.
Oggi che tanto si parla della costituzione di un Museo Nazionale dell'Audiovisivo, mi domando con preoccupazione cosa cadrà in questo buco nero, quali voci, quali immagini, se i tempi sono saturi di suoni e visioni e la riproduzione del reale sta modificando il nostro stesso sentire la realtà. Quale selezione verrà operata? Perché il problema non è la salvezza universale, impossibile e inutile qualunque tecnologia possa illuderci, ma la sfida principale è la scelta, e il potere sarà di chi ne detterà i criteri. Sappiamo del resto come la politica dei beni culturali si sia orientata negli ultimi tempi, almeno nel settore che ci riguarda, verso eventi e opere spettacolari, nell'ottica di una superficiale seduzione, e sappiamo come siano stati trascurati i fini profondi della documentazione antropologica, in quanto non "buoni da consumare". Direi che non ci resta che osservare e riflettere su queste tendenze, cogliere con spirito critico le correnti della contemporaneità, e tentare di comprendere i mutamenti, che talvolta ci appaiono inquietanti e indecifrabili, nella loro accelerazione.
Voglio iniziare il mio racconto sulla ricerca in Abruzzo, attingendo alle parole di un poeta dialettale anconetano, Franco Scataglini, poiché talvolta una poesia vale più di un saggio, così come un'immagine rende più di mille parole:
Vite in cattività
soto a scavate fosse
de cielo che non sa
mutamento, rimosse
dal lume, non dal peso
del mondo che coercisce,
ombre dal sonno ofeso
chi mai ve risarcisce?
[....]
"Vite in cattività" potrebbe davvero essere il verso che caratterizza la mia esperienza, dal '79 ai primi anni '80, in un luogo di dolore e di memoria, nel quale approdai dopo numerose indagini nella provincia di Teramo, condotte con l'intento di raccogliere le tradizioni locali. Mi avvicinai all'ospizio di Civitella del Tronto attratta da quello che mi appariva come un contenitore di figure e tempi sospesi, una sorta di tempio del ricordo, dove il dolore della solitudine e della vecchiaia aveva creato un'atmosfera all'apparenza muta e di inutile attesa, che si rivelò al contrario un'aria densa di voci di un passato fissato al periodo della vita vera e della libertà.
Nell'ospizio erano ricoverati non soltanto anziani abbandonati, ma anche, nei locali inferiori, persone con disagio psichico che non avevano trovato collocazione altrove. L'approccio fu facile e immediato, tanto era il tempo a disposizione e infinito il desiderio di raccontarsi e farsi ascoltare. Avevo soltanto un registratore, di mia proprietà, e ancora mi rammarico di non aver posseduto una telecamera, che mi avrebbe permesso di riprendere i protagonisti delle storie e dei racconti, ora soltanto nei nastri dell'Archivio Sonoro del Museo. Realizzai anche una documentazione fotografica: quei volti stessi erano una storia, occhi che avevano visto il mondo trasformarsi e ora fermi dinnazi al muro del refettorio, o, nell'ora d'aria, su un panorama che parlava ma non concedeva libertà. Così ho imparato ad ascoltare, anche quando non capivo, i tanti dialetti della zona, ho imparato a tacere, senza sollecitare per ansia documentaria, ho lasciato che emergessero le storie e le fiabe della memoria, strettamente intrecciate nella selezione del ricordo.
Oggi che sono attratta dalle correnti kouthiane della psicoanalisi del sé, mi risuonano evocative certe definizioni come "empatia" e "responsività ottimale", "oggetto-sé", termini che caratterizzano la relazione tra due persone che si parlano e si scambiano il proprio mondo interiore, due estranei alle prese con la costruzione di un'intimità. Nessuno ha il coltello dalla parte del manico, piuttosto è la tecnica dell'esperto che può favorire l'emersione dei frammenti che possano ricostituire il sé. Sottolineo che queste sono soltanto evocazioni, ma spesso aiutano a comprendere meglio che, per arrivare, talvolta è necessario anche deviare e guardare altrove. Del resto sono convinta che il mondo stesso sia oggi attraversato da una sorta di frammentazione del sé e sarebbe interessante approfondire le suggestioni kouthiane per utilizzarle in ambito antropologico. Lavorando intorno al concetto di oggetto-sé si può giungere a ipotizzare un'affinità con i musei, come contenitori di oggetti-sé collettivi.
Afferma Ernest Wolf che Kohut "ci ha insegnato che là fuori nel mondo ci sono degli oggetti, i cosiddetti oggetti-sé, che ci segnano creando una struttura psicologica all'interno di noi: il sé." Il sé per Wolf è "come qualcosa che esiste in quanto organizzazione di esperienze, le cosiddette esperienze d'oggetto-sé, un'organizzazione che mi fornisce l'esperienza di essere io, di essere me, e di dare a me il senso del sé ... dobbiamo includere in questo contesto non solo la sfera sociale, ma anche le esperienze d'oggetto-sé che riceviamo come il regalo di maggior valore dalla nostra cultura, dall'arte e dalla letteratura, dalla musica e dalla danza, dal teatro e dalla religione, sia che siamo creatori attivi o recettori passivi di tutte quelle altre esperienze umane che rafforzano il nostro senso di essere."
Nel lavoro di documentazione audiovisiva abbiamo ovviamente a che fare con personaggi e contesti diversi che richiedono una grande varietà di approcci e coinvolgimenti. Nel rapporto tra ricercatore e informatore si creano a volte complicità ma anche fraintendimenti, incomprensioni, si diviene in certi casi uno strumento che rispecchia l'ansia dell'intervistato di autorappresentarsi, di dare voce e corpo a qualcosa che altrove non ha trovato spazio.
In quell'isola sospesa, dove affiancati come residui di un passato inutile e improduttivo, difficile da collocare, sostano per l'ultimo viaggio uomini e donne di una cultura obliata, mi sembra che scintille di vita possano ancora provenire da storie, racconti e fiabe, che appaiono come frammenti di oggetti-sé non del tutto rimossi. E' un senso di essere che riemerge a tratti, discontinuo, un residuo che può far rivivere e uscire dal dolore della perdita di un'identità nel mondo di fuori. L'ospizio come un contenitore di mondi interni sedati dal torpore dell'inattività e della mancanza di direzioni vitali, ma la memoria sale improvvisa nei suoi elementi più significativi per le esistenze individuali e si fa voce da ascoltare e parlando si ritrova una parte di sé. Per alcuni racconti di fate, violenze di guerra, canti di lavoro, preghiere. Per tutti ricordi di miseria, presente di abbandono, ma la vita trascorsa diviene fiaba, in quanto perduta, lontana, come spesso accade anche a noi, e ad ogni vecchio accade: che si narri di un prima solare, anche se difficile e doloroso, la fiaba della vita. La spinta contrappresentistica non appartiene soltanto a un'epoca confusa dalle trasformazioni, a livello individuale agisce nella storia del singolo, in base al suo disagio nell'essere al presente.
Noi che siamo essenzialmente osservatori, dobbiamo attingere anche ad altre sensibilità per comprendere quanto sta accadendo. Voglio ricordare Cristina Campo, scrittrice e poetessa scomparsa nel 1977, che ha dedicato una parte della sua produzione ai temi dell'infanzia e della fiaba, e ricorro alle sue parole: "Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba". Gioco e favola coincidono in quest'ansia che ha l'uomo di esserci e di lasciare di sé, direttamente proporzionale alla crisi di perdita di identità individuali e sociali, esorcizzata nella ricerca del contenimento ultimo in un territorio fantastico. E questo "tempo in cui tutto vien meno" è, poeticamente, anche il tempo della fiaba, della casa di cioccolato da divorare, della tovaglia magica dispensatrice di cibo, d'ogni sogno che rappresenti la soddisfazione perpetua della fame per corpi incapaci di assimilare. Se questo "è il tempo in cui tutto vien meno" è forse anche il tempo in cui "tutto vien più", nel senso di una iperdisponibilità di strumenti, linguaggi, immagini, di una dovizia pantagruelica che, sul versante catastrofista, Jean Baudrillard definerebbe "scabrosa". "A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa?", si chiede Cristina Campo "A colui che senza speranza si affida all'insperabile. ... Vince nella fiaba il folle che ragiona a rovescio, capovolge le maschere, discerne nella trama il filo segreto, nella melodia l'inspiegabile gioco d'echi ...". Così, in questa fiaba complessa che stiamo vivendo, per capire il nuovo giocare e le sue regole dobbiamo tornare bambini, ritrovare lo spirito d'avventura seguendo quel "modo per arrivare al tutto" che ci indica San Giovanni della Croce: "Per arrivare a quello che non sai // devi andare per dove non sai". Andiamo per dove non sappiamo, nella fiaba della contemporaneità che, nell'immagine poetica, è, come i vangeli, "un ago d'oro, sospeso a un nord oscillante, imponderabile, sempre diversamente inclinato come l'albero maestro di una nave su un mare mosso".
Ancora sul sé e sul raccontarsi, voglio accennare a un tema che ben caratterizza le nuove forme del dirsi e comunicare che prescindono dal contatto diretto. Le tecnologie mediatiche ci prospettano tante possibili vite, implicando altrettanti possibili rapporti indisponibili off-line. E' indubbia l'utilità di un mezzo di comunicazione rapido come la posta elettronica negli scambi professionali o commerciali. Più complesso è lo sfondo delle relazioni interpersonali che si instaurano attraverso l'assenza di un contatto diretto, il loro nascere ed evolversi nel paradossale privato di un sempre incombente "panopticon". Prescindendo da eventuali esiti nell'esistenza reale, ciò che risulta interessante è lo scambio in rete come misura della difficoltà di un face-to-face nella contiguità quotidiana. In assenza si manifesta una sorta di diario dialogico che consente l'espressione di pensieri anche intimi, sollecitata dalla certezza di una lettura, dalla distante presenza dell'altro.
Se le cosiddette comunità virtuali costituiscono un interessante fenomeno di "neighborhoods" translocalizzati, come afferma Arjun Appadurai, qualunque sia il tema di convergenza, i rapporti di corrispondenza elettronica sono esempi di più intime vicinanze, ma in entrambi i casi emerge il dato comune di soddisfare l'umana necessità di condivisione, ostacolata dagli attuali modi di vita. Tutti si soffre di un malessere diasporico, sia collettivo che del sé, quando vengono meno i presupposti per la sopravvivenza dell'essere sociale, dai casi estremi delle migrazioni all'esilio in patria dei contesti occidentali, in una estraneità reciproca nella vicinanza. Lo schermo dunque come luogo risolutivo della dispersione di valori, sentimenti, affetti che esigono una rielaborazione non solitaria. Esserci significa anche essere pensati e perché questo accada occorre collegarsi, stabilire un contatto, accendere il rapporto con il mondo e risvegliarsi a rinnovate esistenze. L'immaginazione infatti non si esercita soltanto nei fantasiosi universi dei giochi in rete, si è personaggi anche nel semplice dialogare elettronico, attraverso il quale si selezionano le parole necessarie al racconto di sé, si propongono all'altro i nostri paesaggi affinché risponda e ne sia partecipe, attenuandone la solitudine. Esercizi di stile gratificanti, talvolta più dei contatti diretti nell'ambiente circostante. Il disincorporamento rende lievi, libera l'espressione dei pensieri salvandoli dal contagio della presenza.
BIBLIOGRAFIA
Arjun Appadurai, Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalizations, The University of Minnesota, 1996.
Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, 1987.
Heinz Kohut, La ricerca del sé, Bollati Boringhieri, 2000.
Franco Scataglini, El Sol, Mondadori, 1995.
Ernest S. Wolf, La cura del sé. Elementi clinici di psicologia del Sé, Atrolabio Ubaldini, 1993.
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