L'approccio qualitativo e le sue applicazioni nell'intervento professionale
Lucio Luison (a cura di)
M@gm@ vol.2 n.1 Gennaio-Marzo 2004
APPROCCIO QUALITATIVO E APPLICAZIONI NELL'INTERVENTO PROFESSIONALE
Lucio Luison
luison@sociologia.it
Responsabile Relazioni Pubbliche
ASL n.2; Esperto in Metodi e Tecniche della Ricerca Sociale;
Presidente dell'AsEU, Associazione di Sociologi dell'Unione
Europea; Presidente di Mediatores, Associazione Italiana per
la Mediazione Sociale; Presidente dell'Associazione Italiana
di Sociologia Professionale.
Il fatto
che la società attuale - la "knowledge based society" - ponga
la conoscenza al centro dei processi produttivi, crea uno
strano paradosso: più che alla produzione di nuove conoscenze
l'interesse prevalente sembra progressivamente rivolgersi
verso la gestione della conoscenza che già possediamo. L'aumento
di questa conoscenza e la velocità con la quale aumenta il
tasso di incremento della sua accumulazione sembra, infatti,
essere giunto al punto da rappresentare, esso stesso, un problema
da affrontare in modo prioritario. L'entità di questo problema
è talvolta rappresentata attraverso degli esempi paradossali:
alcuni, ad esempio, stimano che occorrerebbero sette secoli
per leggere tutto ciò che è prodotto in un solo anno nel campo
della chimica mentre lo storico della scienza Derek De Solla
afferma che è molto più semplice ed economico ripetere certi
esperimenti scientifici che non racco-gliere ed esaminare
quanto su tali esperimenti è già presente in letteratura.
Una delle forme nelle quali si presenta il problema della
gestione della conoscenza disponibile è, dunque, quello della
loro sintesi e della loro comprensibilità: come "gestire"
le conoscenze che ci servono, come "estrarre" quelle che possono
effettivamente esserci utili e, innanzi tutto, come trasformare
una massa di informazioni in "conoscenze" comprensibili e
utilizzabili. Fatto, quest'ultimo, che era già stato segnalato
anni fa da Herbert Simon quando aveva sottolineato come il
significato del verbo "conoscere" si stava modificando e stesse
passando dal "possedere informazioni" all' "avere accesso
alle informazioni".
Un secondo fenomeno si accompagna ed intreccia con questi
aspetti: da un lato, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell'informazione
permette di elaborare più economicamente e più rapidamente
i dati relativi a problemi particolarmente complessi, dall'altro,
però, ci troviamo spesso in difficoltà nel comunicare molti
concetti scientifici prodotti in queste elabo-razioni e, soprattutto,
ad insegnare alle nuove generazioni la capacità di coglierne
il senso complessivo. Inoltre, è ormai divenuta evidente l'influenza
che le nuove tecnologie dell'informazione hanno su "ciò" che
si produce e su "come" lo si produce. In studio realizzato
dal ministro del lavoro dell'amministrazione Clinton, Robert
Reich ipotizzava che, nel futuro prossimo, ci sarebbero state
solo tre categorie di lavoratori: coloro che manipolano simboli
e lavorano con software ed informazioni virtuali; gli organizzatori
ed i professionisti; e, infine, i fornitori di servizi che,
in sostanza, corrispondono agli attuali lavoratori non specializzati.
Se, quindi, dobbiamo prender atto che stanno rapidamente cambiando
i contenuti della conoscenza, il modo di produrla e quello
di comunicarla o di trasferirla dovremmo nel con-tempo porci
il problema di come cambi il ruolo sociale ed occupazionale
di coloro che sulla conoscenza fondano i propri "mezzi di
produzione" e, soprattutto, di quali caratteristiche debba
avere l'approccio di questi attori in particolare quando,
come nel caso di chi si occupa professionalmente di scienze
sociali, l'etica della professione impone che la "comprensione"
della realtà si accompagni alla tensione verso l'oggettività
scientifica.
In questo quadro, a nostro avviso, l'approccio qualitativo
può mostrare tutte le potenzialità conoscitive della propria
strategia e tutta la rilevanza dei suoi metodi, a partire
dal porre l'unicità e la peculiarità dei casi a fondamento
del proprio agire conoscitivo. Se, come abbiamo accennato
sopra, ciò che soprattutto sembra avere importanza è dare
un senso - complessivo o sintetico che sia - alle conoscenze
di cui disponiamo il ruolo che i professionisti orientati
al qualitativo possono svolgere dovrebbe risultare più che
evidente. Nelle pagine che seguono autori diversi per ambiti
di interesse e per modalità di approccio svolgeranno una serie
di riflessioni che ben esemplificano queste potenzialità.
Prima però di entrare nel merito di questi approfondimenti
vorrei premettere alcune ulteriori considerazioni di carattere
generale che insistono sul binomio conoscenza / approccio
qualitativo. A rischio di apparire tautologici, le ragioni
di questa sottolineatura rientrano nella necessità di rivendicare
quanto appartiene al lavoro sociologico ed alle sue specifiche
modalità di intervento sulla realtà sociale: come, infatti,
ha ben evidenziato Orazio Maria Valastro nell'intervista a
Georges Bertin: "In questo processo entra in gioco una variabile
determinante, quella relativa alla complessità sociale, che
mette in risalto la nostra formazione sociologica e le nostre
compe-tenze professionali come appropriate a non eludere la
complessità sociale ed a confrontarsi con quest'ultima. Le
problematiche sollevate dall'intervento sociale in questo
processo, all'interno dei differenti modelli della programmazione
sociale mutuati dalla conoscenza sociologica e la loro evoluzione
in quanto modelli operativi, deve necessariamente prendere
in considerazione gli attori sociali coinvolti in questo stesso
processo, nell'ambito di quella complessità sociale che ne
determina e al contempo è la risultante del loro agire sociale."
Un ambito, in particolare, nel quale meglio potremmo mettere
alla prova le riflessioni di cui sopra è quello che si va
determinando nel processo di integrazione europea. Due termini
apparentemente congruenti ma dovremmo anche dire di per sé
"innocui" e certamente logicamente collegati, come "cittadinanza"
e "identità" - oltre che mostrarci come le parole ab-biano
spesso, se non sempre, un potenziale dirompente - ci obbligano
a confrontarci con una dinamica sociale quanto mai rapida
ed incalzante che impegna a pieno la natura e le ca-ratteristiche
dell'approccio qualitativo al lavoro sociale.
In periodi di drammatici cambiamenti come quelli che stiamo
vivendo, con incredibili opportunità di libertà, sicurezza
e ricchezza ma con altrettanto esplosivi rischi per una coesistenza
pacifica, essi fanno sorgere in tutti domande inevitabili
su "come percepiamo la no-stra identità, sia a livello individuale
che collettivo?"; "come può una società necessariamente pluralistica
sviluppare degli orientamenti culturali e normativi comuni
a tutti i suoi "citta-dini anche quando le differenze tra
loro sono profonde sino ad essere radicali?"; "come pos-siamo
risolvere in un modo accettabile conflitti che riguardano
la sfera regolativa - ovvero le basi stesse di una organizzazione
sociale -?"; e, quindi, "cosa può tenere unita una società,
cosa può rendere coesa una comunità?"
Si tratta di questioni che devono certamente essere considerate
alla luce di quella vasta ed in eludibile interdipendenza
economica, politica e culturale che passa sotto il nome di
"globalizzazione" ma sono e restano le risorse culturali che
la società ha a disposizione il ri-ferimento primario per
rispondere a queste domande. Sono queste risorse culturali
che producono la coesione sociale e determinano i limiti di
questa coesione - come è sotto gli occhi di tutti -. Potremmo
dire, con il Club di Roma, che, al pari di quanto avvenne
anni fa, quando si iniziò a riflettere sui limiti dello sviluppo
economico e sul consumo di risorse fonda-mentali nonché sul
fatto che di questo limite avremmo dovuto tenere conto nel
programmare il nostro sviluppo, oggi diviene sempre più chiaro
che non ci sono solo limiti di crescita di tipo economico
ma che è anche necessario considerare come stiamo "consumando"
le risorse che producono e sostengono la coesione sociale
sulla quale si basa la nostra sopravvivenza come esseri umani
in una società pacifica.
Si potrebbe dire, in altri termini, che, così come è avvenuto
per la "coscienza ambientale", dobbiamo sviluppare una "coscienza
della cultura" che crei una maggior sensibilità verso le risorse
culturali di cui disponiamo, a partire dai valori e dalle
norme sociali. Proprio per questo, e non è un caso, negli
ultimi anni si è iniziato a parlare sempre più spesso di "competenza
culturale".
Considerare i diritti di cittadinanza e le identità culturali,
in una fase di così profondi cambiamenti, porta in primo piano
quelle che Peter Berger ha chiamato le "strutture di mediazione"
ovvero le istituzioni che, nelle società pluralistiche, operano
come degli intermediari, distribuendo informazioni ed orientando
l'opinione pubblica.
Se ci domandiamo quali sono i valori centrali in conflitto
nelle società attuali e quali "strutture di mediazione" sono
in grado di intervenire per risolverli, apparentemente non
troviamo molto di nuovo: gli esseri umani hanno combattuto
sulle regole, sia quelle relative alla sfera pubblica che
quelle relativa alla sfera privata, nel corso di tutta la
loro storia. Basta ricordare le guerre che, per secoli, hanno
insanguinato l'Europa dopo la Riforma protestante e che tutt'ora
sopravvivono in Nord Irlanda.
Ciò che rappresenta un fatto nuovo è che la modernizzazione
ha portato ad una sorta di globalizzazione di questi conflitti:
l'istruzione ed i media di comunicazione - una parte di quegli
"intermediari istituzionali" - fanno sì che un conflitto normativo
sorto in una parte del mondo si trasferisca rapidamente in
altre parti, talvolta riapparendo in forme assolutamente differenti
ed indistinguibili da quelle originarie perché fuso con la
tradizioni ed i problemi locali. Ancor più significativo però
è il fatto che, quando ciò che è in discussione sono le regole
di base della convivenza sociale, la modernizzazione produce
la pluralizzazione dei valori e delle credenze. Contrariamente
a quanto avveniva in passato quando le società, nonostante
i numerosi contrasti, anche sanguinosi, potevano sperare di
mantenere un sistema di regole unitario che riscuotesse un
sufficiente grado di adesione (fosse liberamente o attraverso
la forza) da parte della maggioranza, oggi la globalizzazione
rende questa possibilità sempre più difficile. Da un lato,
il pluralismo più che un dato di fatto diviene una virtù:
raggiungere l'ideale di persone con differenti valori e credenze
che vivono assieme ed in pace; dall'altro i conflitti normativi,
nelle società moderne o in via di modernizzazione, sembrano
ruotare sempre più attorno all'allargamento dei limiti del
pluralismo. Poiché ci saranno sempre credenze e valori che
stanno al di là di una ragionevole soglia di tolleranza la
domanda che dovremmo porci (e che è implicita nell'accostamento
tra diritti di cittadinanza ed identità culturali) è: "quali
sono queste credenze e questi valori?" "e la società come
dovrebbe trattare coloro che aderiscono a questi valori e
a queste credenze?".
In passato - e le guerre di religione europee ne furono un
esempio - quando né la sop-pressione violenta né la conversione
producevano risultati, la mediazione avveniva in termini di
separazione geografica (cuius regio eius religio, recitava
il trattato di Westfalia). Oggi, soluzioni simili hanno già
mostrato i loro limiti e la loro inefficacia, così come poco
efficace si è dimostrata la versione della separazione istituzionale
(cuius institutio eius religio, potremmo dire) perché
il problema centrale resta "quale gruppo o quali gruppi devono
essere accettati ed inseriti all'interno del sistema istituzionale
del pluralismo?".
In questo scenario complessivo dobbiamo aggiungere l'elemento
"Europa": l'allargamento dell'Europa ci obbliga a riflettere
sia sulla nostra identità di cittadini europei che sulle relazioni
con il mondo che ci circonda. A partire da quello più prossimo,
com'è quello mediterraneo. Per un sociologo l'identità evoca
una comune definizione della situazione da parte dei soggetti
che produce un legame reciproco e crea tra loro una solidarietà.
Essa si fonda, quindi, su legami spirituali, e può essere
ricondotta ad un nucleo di significati condivisi ovvero nella
condivisione di uno stesso universo di simboli ed evidenze.
Questo mondo dei significati è il primo degli elementi che
ci servono per trovare la nostra identità collettiva, l'altro
è la delimitazione, l'individuazione. Conoscere me stesso
implica che io posso distinguere me stesso dall'altro: l'identità,
quindi, è sempre basata, anche, su una negazione (come ha
dimostrato Luhmann). L'identità collettiva, analogamente,
richiede una distinzione tra un "noi" ed un "loro" (per altro,
è noto come niente porti ad una forte identità di gruppo quanto
l'individuazione di un nemico esterno).
E' necessario però un terzo elemento per costituire un'identità
collettiva nel pieno senso della parola: la capacità di agire
ed essere responsabili delle proprie azioni. L'identità personale
include la capacità di una azione indipendente, l'identità
collettiva richiede e comporta un'autorizzazione che consente
alla collettività di condurre un'azione collettiva. Niente
di nuovo, l'aveva già detto Aristotele quando affermava che
l'identità della Polis è primariamente un'identità costitutiva
(la politéia) attraverso la quale una comunità diviene un
soggetto politico; che si fonda sulla conoscenza comune di
ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato così come di ciò
che è utile o non lo è; che poggia sulla solidarietà delle
persone (philìa) la cui manifestazione politica è il consenso
generale.
Per certi versi e per quanto diverso sia il mondo di oggi,
quanta poca acqua sia passata sotto i ponti lo dimostra la
definizione di coesione sociale usata dai Canadesi che la
considerano come: un processo continuo che sviluppa una comunità
che condivide valori, obiettivi ed uguali opportunità e che
è fondata su un senso di fiducia, speranza e reciprocità tra
tutti i cittadini.
Un concetto analogo a quello che ispira l'attività dei mediatori
culturali, dei quali oggi è di moda parlare, che considerano
la convivenza interculturale come "un vivere quotidiano tra
persone che hanno differenti bagagli culturali, nel quale
interagiscono tra loro dando vita a relazioni sociali, a scambi
e ad avvicinamenti che sfociano nella costruzione di una nuova
cultura condivisa, senza che ciò implichi l'eliminazione delle
identità originarie, bensì la sua eventuale trasformazione
ed arricchimento".
I saggi che seguono danno, a mio avviso, un ampio ed interessante
resoconto vuoi di ciò che sostanzia l'approccio qualitativo,
ovvero "in cosa" esso si differenzia da altri approcci, vuoi
di "come" esso si esplica nella prassi di analisi ed intervento
sociale.
Augusto Debernardi ci mostra come, a partire da una riflessione
sui fondamenti del concetto di bisogno - Di Bernardo (1979)
parlerebbe di "premessa proeretica" - si giunga ad una analisi
dei bisogni nella quale emerge l'approccio qualitativo all'analisi
come metodologia in sé e per sé e, contemporaneamente, si
possono rilevare le distinzioni nella qualità dei bisogni.
Il suo "discorso" ci porta rapidamente - come si addice ad
un sociologo da tempo "operatore nel sociale" - dal livello
filosofico alla considerazione di elementi di fatto, di comportamenti
reali, di azioni ed organizzazioni dei servizi che mostrano
come, nella pratica, analisi ed intervento sui bisogni si
coniughino con l'inclusione sociale frutto, come si è accennato
sopra, della dinamica nei limiti del pluralismo.
Lidia Dutto ci introduce ad una metodica in divenire, oggetto
di sempre più frequenti discussioni anche per il suo essere
collocabile, professionalmente, in una "terra di nessuno"
ancora da definire. In una interessante riflessione sui fondamenti
epistemologici del counselling, Dutto sottolinea le potenzialità
attuali e le possibilità di sviluppo della conoscenza sociologica
applicata al counselling e le sue caratteristiche in quanto
modalità qualitativa di intervento sociale. Il suo testo sottolinea
utilmente, sia in quanto approfondimento teorico che per le
implicazioni pratiche, alcune relazioni con l'etnografia,
la sociologia clinica e l'ipnosi costruttivista sicuramente
meritevoli di essere riprese con più spazio.
Il contributo di Rosario Castellana prosegue, in un certo
senso, ed amplia il saggio pre-cedente attraverso una riflessione
sul conflitto, le sue origini e le implicazioni, soprattutto
in termini di resistenza alla mediazione. In una prospettiva
psico-sociologica, attraverso collegamenti teorico-pratici
con la neurolinguistica e la logodinamica generativo-trasformazionale,
sono sottolineati gli aspetti qualitativi, sia nell'analisi
che nell'intervento, individuabili nell'ambito del conflitto
come fenomeno sociale. Per altro non marginale e propedeutico
ad ulteriori approfondimenti è l'accenno alla natura comunicativa
di alcuni aspetti del processo di mediazione.
Giovanni Bertin introduce l'applicazione di concetti e metodologie
proprie della valutazione della qualità all'ambito dei servizi
sanitari, con una prospettiva decisamente sociologica. Chiarendo
i diversi punti di vista (manageriale, professionale e partecipativo)
rispetto ai quali il dibattito sul concetto di qualità è andato
sviluppandosi nel corso degli ultimi anni, l'Autore sottolinea
come la qualità sia, in buona sostanza, una costruzione sociale
strettamente collegata al processo di comunicazione e confronto
tra i diversi attori sociali che vi sono coinvolti.
Gianna Miceli svolge in modo sintetico ma completo una rassegna
della normativa rispetto ai cambiamenti previsti dall'introduzione
del nuovo piano sanitario in termini di processi di miglioramento
della qualità. Vengono in particolare sottolineati gli aspetti
di tutela dei diritti dei cittadini che le innovazioni in
termini di qualità possono (o potrebbero) introdurre e le
conseguenze dell'adozione di tecniche di misurazione della
qualità percepita da parte dei pazienti.
Le interviste di Orazio Maria Valastro a Georges Bertin e
ad Albino Sacco-Casamassima introducono, al livello dei prestigiosi
interlocutori, il tema dell'intervento del sociologo (o di
tipo sociologico) nella comunità locale. Nella prima, Georges
Bertin entra nel merito del ruolo e della funzione del sociologo
nella comunità locale sia in relazione alle modalità di intervento
che rispetto alle interpretazioni che gli attori danno delle
loro quotidianità. Particolarmente interessante l'analisi
della peculiarità del lavoro sociologico e dei suoi fondamenti
nell'etnometodologia, in termini teorici, e delle relazioni
con l'intervento istituzionale e la ricerca azione, dal punto
di vista operativo. Nell'intervista a Sacco-Casamassima, a
lungo dirigente della Cassa per il Mezzogiorno negli anni
fecondi degli studi stimolati da Olivetti e degli interventi
a Matera, sono passati in rassegna - attraverso un racconto
delle esperienze vissute presentato in modo insieme aneddotico
e denso di riferimenti - interventi e metodologie, dall'analisi
di comunità, alla pianificazione territoriale, dalla partecipazione
popolare al coinvolgimento delle giovani generazioni, di estremo
di interesse.
La recensione di Georges Bertin del volume collettaneo "Lavoro
e mondializzazione", curato dallo scomparso Ettore Gelpi,
infine, soffermandosi su questa panoramica sulle recente evoluzioni
della categoria del "lavoro", in un quadro internazionale
che riflette sugli effetti della globalizzazione, delle differenze
tra Nord e Sud, delle modificazioni indotte dalle trasformazioni
e dall'innovazione tecnologica ben si adatta all'approccio
che si voleva dare alla rubrica soprattutto nell'enfasi posta
dall'Autore, e richiamata da Bertin, del "rifiutare i compromessi
imposti affinché ognuno assuma meglio e maggiormente le proprie
responsabilità di fronte a sé stesso e di fronte agli altri".
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Peter L. Berger (ed), The Limitis of Social Cohesion, Bertelsmann
Foundation Publishers, 1998.
Giuliano Di Bernardo, L'indagine del mondo sociale, Franco
Angeli, Milano 1979.
Thomas Jansen (ed) Reflections on European Identity, European
Commission, Forward Studies Unit, Working Paper 1999.
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