Approccio dal basso e interculturalità narrativa
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003
LA PRESENZA IMMIGRATA
Un privilegiato e difficile momento di incontro etnografico
Monica D'Argenzio
senegal@inwind.it
Antropologa
culturale, etnologa; laureata in Sociologia con indirizzo etno-antropologico;
Mediatrice culturale presso Ass. Senegalese di Napoli.
La rilettura
di un'esperienza di ricerca sul campo
La ricerca sul campo si prospetta come una serie di incontri e traduzioni
[1]. Non è
un mero processo di raccolta di dati o di un sapere culturalmente
altro da parte di un soggetto autonomo, è, invece, un incontro dialogico
prima, ermeneutico dopo, "privo di regole e storicamente contingente
il quale implica in una certa misura sia conflitto, sia collaborazione
nella produzione di testi. Gli etnografi sembrano condannati a fare
tutto il possibile per realizzare un incontro genuino pur riconoscendo
nello stesso tempo quell'intreccio d'intenzioni politiche, etiche
e personali che mina ogni trasmissione di sapere interculturale"
[2]. D'altra
parte, essere obiettivi non vuol dire essere esenti da pregiudizi,
ma divenire consapevoli dei propri cercando, allo stesso tempo,
di trascenderli. Attraversare lo spazio della diversità e comprendere
ciò che è difficile, se non impossibile, da accettare è il nocciolo
dello scandalo dell'incontro etnografico [3].
Con un atteggiamento definito di etnocentrismo critico [4]
si gettano le basi per "lavorare dentro il contesto del culturale,
in modo da poter cogliere almeno in parte il significato degli atti
e degli eventi; ma dobbiamo anche agire fuori della comprensione
culturale del mondo, per formarci un qualche genere di idea del
modo in cui le connessioni casuali del mondo esterno vengono rifratte
nella realtà culturalmente costruita" [5].
All'origine di ogni incontro ci sono sempre un Io ed un Altro: l'Io
vede, guarda, scruta l'Altro e resta colpito dalla sua peculiarità,
dalle sue caratteristiche, dalle sue abitudini, così estranee all'occhio
di colui che osserva. Ma anche l'Altro è un io che vede e fa esperienza
dell'alterità; nel momento etnografico non c'è solo lo sguardo dell'Io
(l'occidentale) sull'Altro, ma vi è anche lo sguardo dell'Altro
sull'Io, portatore di uguali intenzioni e significati. Ridurre l'Altro
a mera differenza, trasformare la sua alterità, la sua "dote qualitativa"
in un insieme di variazioni quantitative è quanto di più limitativo
ci possa essere. Liberare il ricercatore da pregiudizi culturali
e preconcetti antropologi che ostacolano la visione dell'altro e
impediscono di coglierne l'essenza che è, poi, la sua stessa alterità,
è l'obiettivo da raggiungere per una più autentica esperienza vissuta
dell'esotico e del diverso.
La situazione etno-antropologica non si risolve, però, in pura contemplazione
- da ambo le parti - della "stranezza" che ci si trova di fronte
ma si trasforma, necessariamente, in uno scambio e, quindi, in un
dialogo. "[...] Dialogando si interpreta, si tenta di cogliere i
significati dell'alterità. Sia pure in modo non sistematico, né
definitivo, sembra quasi che nel dialogo con l'Altro scocchi la
scintilla della verità antropologica. Questa è indubbiamente la
virtù dell'alterità" [6].
Quanto segue rappresenta la riflessione del "giorno dopo";
la rilettura di un'esperienza di campo avuta tra le donne
della comunità senegalese [7]
presente a Napoli, tra il 1995 e il 1998. La metodologia adottata
si basa sulla personale constatazione che le ricerche quantitative
non sono in grado di darci "il senso della vita come movimento
evolutivo nel tempo, non possono aiutarci a comprendere come
le difficoltà oggettive della situazione di fatto siano vissute
dalle persone, ossia come i dati oggettivi accertati si trasformino
in atteggiamenti psicologici, diventino cultura come modo
di vita" [8].
Al metodo del sondaggio - che può dare uno spaccato congelato
del problema, matematicamente preciso ma umanamente povero
- sembra preferibile quello biografico che consente agli esseri
umani analizzati di far emergere con le loro parole e talvolta
con i silenzi, le aree problematiche reali, le questioni in
cui si trovano impigliati.
Il discorso si è sviluppato su due registri. Uno scientifico, quello
dell'etnologo e l'altro più fluido ed informale, il mio diario di
campo. Dai tanti block notes, sui quali ho annotato meticolosamente
e giornalmente quanto è accaduto in questi tre lunghi anni di ricerca,
durante le mie "discese sul campo", ho estrapolato i momenti, gli
eventi, le conversazioni, quelle "mezze-frasi" dette, quei piccoli
gesti che mi sono parsi più significativi ed avvaloranti nei confronti
della ricerca. Questi due registri sono andati di pari passo, e,
pur riguardando la stessa materia, hanno espresso con codici diversi
il contenuto della mia esperienza. E' in questo modo che ho deciso
di produrre quel processo che va "dall'evento al documento" [9].
Il tema delle relazioni dialogiche
Conoscere Aïda Fall ha significato "conoscere tutti"; la sua fitta
rete di relazioni e di amicizie la pongono in una posizione di prestigio
e di privilegio rispetto a tante altre donne. Aïda conosce tutti
e sa tutto di tutti, in virtù anche del fatto che è stata una delle
prime donne ad arrivare a Napoli (nel 1989). La casa di Aïda e del
marito rappresenta un crocevia dal quale tutti vanno e vengono,
prendono informazioni, chiedono notizie e, soprattutto trovano sempre
ospitalità, un letto per dormire e un piatto caldo. E' lì che ci
si incontra, che ci si saluta, che ci si ferma per riposare un po'
e guardare la televisione. Per chiunque venga a Napoli, specie se
donna, conoscere Aïda diventa una tappa obbligata, perché nessuno
meglio di lei può dare i consigli giusti, le indicazioni più appropriate.
In qualunque momento la sua casa è aperta. La domenica pomeriggio
c'è una vera e propria "invasione" di senegalesi, amici del marito,
che accorrono per guardare le partite alla televisione, per giocare
a carte o semplicemente per chiacchierare. Sono talmente tanti da
stare seduti l'uno vicino all'altro, quasi accalcati, su quel tappeto
e lì, per quelle poche ore, sembrano essere trasportati in uno spazio
e in un tempo lontani, dimentichi della loro quotidianità. Aïda,
nel suo "regno", la cucina, prepara da mangiare, in compagnia di
qualche amica e della sottoscritta. La musica etnica e il suono
di parole che, per lo meno agli inizi era completamente indecifrabile,
fanno da sfondo a quella "piccola Africa".
Nel corso della mia ricerca Aïda è diventata la mia guida, il mio
passe-partout presso altri membri della comunità senegalese, la
mia principale informatrice; lei ed il marito mi hanno accolto senza
remore nella loro casa che è diventata per me una seconda dimora,
un punto di riferimento importante in caso di bisogno. Questo non
significa che abbia attribuito minore importanza alle altre donne
con le quali ho lavorato ed ho stabilito un legame particolare,
diverso e speciale. Condivido l'idea di chi afferma che il termine
"informatore" è troppo riduttivo e non riesce, di per sé, a rendere
il senso e l'importanza che tale figura rappresenta all'interno
del lavoro antropologico [10].
Altrimenti definito "interlocutore" o "nativo", questo personaggio
(o personaggi, come può accadere in alcuni casi) resta un elemento
assolutamente attivo nel lavoro di plasmazione delle rappresentazioni
delle realtà culturali prodotte dagli antropologi. Gli informatori
sono le "cerniere", i "punti di attacco" di cui il ricercatore dispone
per entrare in rapporto con ciò che si è proposto di tradurre e
quindi di rappresentare. La relazione antropologo-informatore è,
essa stessa, parte del lavoro antropologico sia nella sua fase di
campo che in quella dell'elaborazione finale di un prodotto alla
cui stesura contribuiscono più mani (se non effettivamente, almeno
virtualmente). Tale rapporto va letto proprio come luogo di produzione
del sapere antropologico. Perché? Perché il campo è un ambiente
comunicativo dove antropologo ed informatore/i mettono in gioco
se stessi e si definiscono reciprocamente in base alle proprie categorie
culturali che, con l'intensificarsi delle relazioni, si modificano
dando vita a "quelle rappresentazioni costitutive del prodotto etnografico
finale, alla cultura come produzione etnografica" [11].
Sta alla sensibilità dell'etnologo, cercare e trovare, nel campionario
umano a sua disposizione, coloro che gli saranno utili guide nella
lettura di un testo quanto mai mobile e sfaccettato com'è quello
di una cultura umana, osservata direttamente nelle sue espressioni
quotidiane, a livello individuale come collettivo; e nel suscitare
il loro interesse in modo che essi non funzionino come stanchi robot
o come annoiati traduttori o ripetitori d'informazioni minuziose
o, ancora, come impiegati a pagamento, ma come collaboratori partecipi,
comprensivi e desiderosi di spiegare la propria cultura all'altro
venuto da lontano. Aïda ha rappresentato, dal primo momento, la
classica informatrice da manuale, colei che qualunque ricercatore
vorrebbe incontrare ma, allo stesso tempo, sfuggire. Donna molto
furba ed intelligente, ha capito subito quali erano i motivi del
mio interessamento nei confronti della sua comunità e, accettandomi
di buon grado - come mi è parso -, ha posto anche le condizioni
della mia presenza tra "loro", nonché il tipo di rapporto che avrebbe
caratterizzato il dialogo o lo scambio.
Se oggi mi sento di dire che ho trovato in lei la sorella che non
ho avuto, per quel clima di confidenza e di fiducia che si è instaurato
nel corso della nostra amicizia - in ragione del fatto di essere
coetanee - è pur vero che rimaneva un'immigrata di colore in cerca
di miglior fortuna nel nostro paese ed io una studentessa italiana
dal viso pulito che era anche affascinata dall'esotico e che trovava
molto gratificante ricevere riconoscimenti di ogni tipo da parte
dei suoi amici senegalesi (ma quale ricercatore non li vorrebbe?).
Retaggio di un passato storico-coloniale che ha retto e regge tuttora
l'ideologia del centro-periferia, Aïda aveva trovato in me il simbolo
del suo riscatto sociale, quasi un trofeo da mostrare ma anche da
custodire gelosamente lontano dagli sguardi delle altre donne. Considerata
da tutti una Fall, potevo sì ottenere consensi ed accettazione ovunque
ma ero diventata una proprietà privata, appunto di Aïda, e questo
stigma ha condizionato la mia ricerca in positivo quanto in negativo.
Impedendomi di stabilire contatti troppo prolungati e approfonditi
- perché gelosa - per quanto le era possibile ha cercato di influenzare
non poco la mia ricerca. Per un lungo periodo le mie discese sul
campo sono dipese da lei, dalla sua disponibilità a parlare o ad
accompagnarmi in giro.
E' così che può essere letto il mio legame con Aïda, di forte
dipendenza. Oggi, dopo una più attenta e matura riflessione,
mi sento di aggiungere l'aggettivo "schiacciante" perché l'etnologo,
figlio pur sempre di una cultura colonialista ed eurocentrica,
non riesce più a gestire la relazione, da osservatore diventa
osservato e non agisce soltanto ma è anche agito. Gli informatori,
dunque, lungi dall'essere neutri trasmettitori di informazioni,
influiscono in modo determinante sulle modalità di costruzione
e di scrittura delle rappresentazioni etnografiche. Ognuna
di esse è il frutto di una differente interazione tra antropologo
ed informatore, nonché di una diversa intenzionalità etnografica.
La relazione antropologo-informatore può essere definita come
"una croce morale espressa con vari angoli di angoscia e ipocrisia.
Personalmente determinata, politicamente ed ideologicamente
compromessa, linguisticamente manipolata, eticamente dubbia"
[12]:
è questo il senso del rapporto etnografico. Sin dall'inizio
avevo previsto una reazione di sospetto piuttosto che un'accoglienza
rilassata. In particolare una maggiore diffidenza l'ho potuta
riscontrare in quelle donne "molto lontane" da me per stato
civile, età e per differente esperienza di vita, mentre un'ospitalità
più calda l'ho trovata con le mie coetanee o con chi - come
è ovvio supporre - aveva già avuto prolungati contatti con
la società europea sia per la durata della permanenza in terra
di immigrazione, sia per il tipo di vita vissuto che ha portato
ad una crescente accettazione dei valori e delle categorie
nostrane, ma non per questo dimenticando le proprie.
L'esempio è Thiara Diop, la mia "occasione mancata". Un iniziale
atteggiamento di sospetto era più che comprensibile. Era la prima
volta che un'italiana entrava nella sua casa, che accettava di sedersi
sul suo letto e di condividere il cibo con lei. Il timore nasceva
dalla sua condizione di irregolare, senza permesso di soggiorno.
Nel momento in cui Thiara si rese conto che non potevo essere una
minaccia per lei non ci furono più ostacoli fra noi. Il vero scoglio
nel nostro rapporto è stata la nostra diversità. Ovvio? Ed invece
no. Mi aveva aperto la sua casa, offerto il suo cibo, dato un letto
per riposarmi, insomma aveva avuto per me tutte quelle attenzioni
che una madre ha per una figlia. Fatto questo, lei, non riusciva
davvero a capire che cosa volessi. Io, invece, volevo le sua parole,
i suoi pensieri, la sua storia, la sua vita. I nostri punti di vista
erano, quanto mai, diversi. Thiara mi aveva fatto partecipe di tutto
quello che per lei era importante e fondamentale, mi aveva dato
tutto. Si considerava mia madre e come tale si comportava. Se le
mie assenze da casa sua si facevano molto prolungate, chiedeva al
figlio di telefonarmi per avere mie notizie; lei stessa mi ammoniva
se non le facevo visita. Ero diventata "sama doom, sama doom" ("figlia
mia, figlia mia"), frase con la quale mi accoglieva ed io non dovevo
chiamarla Thiara ma "mam".
In un'ottica puramente etnocentrica ho voluto impostare il mio rapporto
con Thiara su un livello paritario dimentica della nostra differenza
generazionale e sociale. Sulla scia della rivoluzione dei ruoli
che ha interessato quella grossa fetta di società globale ormai
lontana dagli schemi tradizionali, pensavo di potermi relazionare
con lei in un modo tutto innovativo, con un'apertura affettiva ma
soprattutto mentale. Supportata da questa errata convinzione non
sono riuscita nel mio intento. A caratterizzare i nostri frequenti
incontri sono stati lunghi e insopportabili"silenzi; ogni mio tentativo
di stabilire un dialogo che andasse oltre i semplici convenevoli
ha trovato un ostacolo insormontabile. Ancora adesso sento echeggiare
nella mia mente quella frase che per un lungo periodo ho detestato;
"parles con Daouda, parles con Daouda" erano le parole che Thiara
mi propinava quando le mie domande si facevano troppo insistenti
e la mia presenza diventava scomoda. Secondo le sue categorie -
che in questo caso risultavano quelle corrette - l'oggetto delle
mie attenzioni non poteva essere lei ma il figlio, mio coetaneo,
istruito e sicuramente con uno stile di vita molto affine al mio.
Riflettendo a distanza di tempo, capisco solo ora come i miei presupposti
fossero sbagliati e che da Thiara, che si definiva mia madre, non
avrei potuto pretendere altro che affetto e attenzioni materne e
nei suoi confronti non avrei potuto essere che una figlia rispettosa
che non fa domande alla madre perché sconveniente e poco attenta
alla differenza di età.
Maturando col tempo una coscienza esotica [13]
potrei significativamente proporre l'espressione di "indifferenza
alla differenza" per riassumere il mio approccio errato. La relazione
con Thiara rappresenta per me un caso emblematico di "un non saper
vivere la relazione" e, quindi, di omologazione. "Esiste una contraddizione
nel voler abolire una distanza la cui esistenza è riconosciuta e
nel pretendere di confondersi nel magma dei fatti e dimenticare
la propria - ma anche l'altrui [corsivo mio] - presenza identitaria"
[14]. Tutto
accade come se si rimproverasse agli informatori di avere un'esistenza
autonoma da quella del ricercatore; si esige da loro che riflettano
fedelmente non solo gli usi e i costumi del gruppo di appartenenza
ma anche la personalità di chi sta loro di fronte. Si nega loro
il diritto di essere quello che sono, appunto altro, di essere attori
della loro storia, di esistere per se stessi e non per gli altri
(gli antropologi). La coscienza di questo momento è, a sua volta,
una coscienza dell'alieno nel senso che la comprensione dell'alterità
esige la perdita, l'abbandono momentaneo o la sospensione dei propri
punti di riferimento.
L'alterità non è solo irriducibile ma è soprattutto inquietante
perché sfugge ad ogni forma di controllo e di categorizzazione;
ogni approccio a essa dovrebbe premunirsi di una tensione esotica.
La posizione dell'antropologo che agisce sul campo è ambigua e scomoda;
l'esigenza fondamentale che anima una ricerca etno-antropologica
implica innanzi tutto il riconoscimento sia dell'identità dell'Altro,
sia dell'identità di chi compie l'indagine. Qualunque soggettività
prevalga - quella dell'informatore, il caso di Aïda, o quella del
ricercatore, nel caso di Thiara - è inevitabilmente una rottura
dell'identità. L'alterità acquista un senso solo se si precisa al
di fuori dell'atteggiamento degli interlocutori, il che vuol dire
che non è in qualità di antropologo che deve lavorare chi compie
la ricerca, ma in quanto Altro aperto agli Altri: unico modo per
rispettare gli spazi, l'identità di quanti appartengono a un'altra
cultura e anche unico modo per non lasciarsi sommergere dagli altri.
Tutto il lavoro etnografico può essere letto alla luce di due parole:
"rischio" e "malinteso". L'esperienza antropologica è un rischio
e si connota per essere ingannevole e, quindi, inautentica; il pericolo
è tanto più evidente quando s'incontrano due mondi culturalmente
lontani, come nel mio caso. Far fronte ad un diverso contesto culturale
diventa una questione di rischio: il rischio di pensare, proporre
e disporre nuovi significati culturali che il mondo, gli uomini,
le cose possono smentire in ogni momento. Ma anche "interpretare"
comporta una serie di rischi: il rischio di conferire un senso,
di ricostruire in narrazioni continue ciò che si è visto, il rischio
di dire e non dire, di prendere posizione su quanto si è detto:
il rischio di un'impossibile intimità con la verità [15].
Così come il rischio di dare una forma definitiva ad una materia
che col tempo potrebbe essere un'altra rappresentazione e potrebbe
alimentare altri discorsi. L'etnologo non può diventare altro rispetto
a se stesso; non può negare la propria identità di straniero, anzi
sarebbe corretto che se ne servisse in modo tale che la nuova realtà
susciti una filosofia dialogata, la quale emerge grazie all'incontro
di due culture. L'etnografia è, quindi, interpretativa: ciò che
s'interpreta è il flusso del discorso sociale e l'interpretazione
consiste nel tentativo di preservare il "detto" di questo discorso
dall'eventualità che esso svanisca e di fissarlo nei termini che
ne consentano una lettura.
"La vocazione essenziale dell'antropologia interpretativa non è
di rispondere alle nostre domande più profonde, ma di mettere a
disposizione risposte che altri (badando ad altre pecore in altre
vallate) hanno dato e includerle così nell'archivio consultabile
di ciò che l'uomo ha detto" [16].
La negoziazione dei significati [17],
l' "invenzione della cultura" [18]
non sono solo quelle che avvengono sul campo, ma anche, e forse
soprattutto, quelle che si configurano e si strutturano nel corso
del tempo in base alle diverse prospettive teoriche e personali
con cui il materiale è riletto. Il malinteso diventa, così, il tramite
privilegiato per raggiungere la conoscenza; indica che le strutture
conoscitive, gli schemi che si hanno a disposizione non sono adatti
ad affrontare la relazione. E' solo così che si può percepire l'altro
in tutta la sua alterità: con il malinteso l'altro si dimostra davvero
tale. Il malinteso non è dovuto ad una mancanza di informazione
ma è un non "sapere la relazione" e per uscire dal malinteso bisogna
imparare a vivere e sapere come vanno le cose. Non solo è necessario
liberarsi il più possibile dei propri schemi, ma aprirsi all'alterità
implica una certa dose di prudenza e di discrezione. L'atteggiamento
ideale sul campo è quello di colui che, con la curiosità del bambino
e l'accortezza dell'adulto, vuole prima di tutto imparare qualcosa
di nuovo, sforzandosi di andare oltre le proprie aspettative.
E un ruolo fondamentale - come è stato più volte ripetuto
- è giocato dal modo di presentarsi e di interagire dell'informatore
e dell'etnologo. La loro relazione è una drammatizzazione
dei rispettivi ruoli, è esibire certe verità e nasconderne
altre, è un continuo tira e molla, una reciproca manipolazione,
una "vera e propria lotta, con l'uso di presupposizioni, digressioni,
dissimulazioni, atti di metacomunicazione" [19].
In questo senso il dialogo, la parola - oltre all'osservazione
- diventano degli strumenti conoscitivi privilegiati ed i
veicoli di verità nascoste e di palesi menzogne. Uso volutamente
questo gioco di parole per sottolineare - ancora una volta
- il carattere anche paradossale e la complessità della ricerca
sul campo. Le resistenze, le omissioni, le dimenticanze -
quasi sempre intenzionali - non sono da considerarsi come
semplici ostacoli alla ricerca ma elementi su cui riflettere
per giungere ad una più completa e profonda comprensione.
La riflessività significa, a questo riguardo, un resoconto
consapevole delle condizioni di produzione della conoscenza
mentre viene prodotta e costituisce la base della pratica
ermeneutica [20].
Riflessività significa introdurre nel testo etnografico il
tema delle relazioni dialogiche, cioè come etnografo ed informatori
costruiscono un testo collettivamente. E la stessa ricerca
non può essere considerata come il risultato innocente di
un rapporto simile all'amicizia [21].
Aggiungerei che l'informatore può essere considerato il primo
censore della propria cultura poiché è lui a stabilire quali
informazioni fornire all'antropologo e quali tacere, è lui
a decidere quando parlare e quando creare quel "muro di gomma"
che è dato dai suoi silenzi di fronte ai quali nulla può colui
che, come mi è più volte accaduto, sembra essere agito come
una marionetta. In fondo non erano, forse, imbroglioni e bugiardi
gli indigeni di Malinowski? [22]
Sapere e pratica antropologica
Nel sapere antropologico e nella sua pratica è insita una
difficile e, allo stesso tempo, biasimevole operazione di
"riduzione". Conoscere e capire la cultura altra è possibile
solo riconducendo l'ignoto al noto, il non familiare al familiare
e, quindi, riportando il tutto alle proprie categorie culturali:
impresa di per sé degna e necessaria ma, appunto, riduttiva.
Richiamo, a questo proposito, l'immagine dell'antropologo
"traduttore-traditore"; un gioco di parole che insiste, "sulla
mancanza di un segno di uguaglianza, e quindi sulla realtà
di ciò che va perduto e distorto nell'atto stesso del comprendere,
del valutare, del descrivere" E ancora: "[...] La traduzione
interculturale non è mai completamente neutrale; è avviluppata
in relazioni di potere: si entra nel processo di traduzione
da una posizione specifica, da cui si sfugge solo in parte.
Nella traduzione riuscita, l'accesso a qualcosa di estraneo
- lingua, cultura e codici diversi - è sostanziale. Qualcosa
di diverso viene convertito, reso disponibile per la comprensione,
l'apprezzamento, la fruizione. Allo stesso tempo il momento
dell'insuccesso è inevitabile. La consapevolezza di ciò che
sfugge alla versione "finita" affliggerà sempre il momento
del successo [...] Se affrontato consapevolmente, l'insuccesso
provoca una consapevolezza critica della propria posizione
e, di conseguenza, riapre il processo ermeneutico" [23].
Nel momento stesso in cui avevo la possibilità di assistere
ad un "fatto" che si poteva ascrivere nell'universo del quotidiano
o ad un avvenimento particolare, straordinario, sapevo che,
in quel medesimo istante, era già finito, mi era già sfuggito.
"Filmarlo" nella mia mente o su carta Kodak, immortalarlo
successivamente nelle pagine del mio diario lo aveva alterato,
modificato e sottoposto inevitabilmente ad interpretazione.
Era stato filtrato dal mio modo di essere, dalla "mente antropologica"
così come dalla mia identità femminile, occidentale, medio-borghese
e via dicendo. L'affannosa ricerca di informazioni, dei contatti
giusti, delle conoscenze più opportune, la cura alla propria
immagine per ovviare a quella sensazione di sentirsi fuori
posto che qualunque antropologo ha, almeno una volta, provato,
l'ansia e l'eccitazione per l'incontro con l'esotico, vengono
a scontrarsi con quel paradosso proprio del lavoro di ricerca
sul campo per cui alla fine, quel che resta sono solo delle
"diapositive antropologiche". Avere ben chiaro tutto questo,
essere consapevoli dei limiti dell'impresa etnografica può
essere la pre-condizione per la sua migliore riuscita. D'altra
parte l'antropologia insegna che è necessario "prendersi tempo";
non può esistere conoscenza senza la riflessione che viene
dal coraggio di riconsiderare i problemi a distanza di tempo.
L'antropologo si differenzia dagli altri ricercatori sociali
perché accetta che la distanza - spaziale e temporale - si
ponga tra lui e il suo oggetto di studio, perché accetta che
ciò che conta non sia solo l'esattezza della conoscenza ma
la "profondità della comprensione": accetta il rischio dei
suoi pensieri. Come postilla finale voglio ricordare le parole
della mia "maestra": "Il viaggio non è solo un'avventura dell'intelligenza
in un mondo altro, ma è anche un'esperienza di vita, una particolare
forma di iniziazione, con le sue prove e le sue scoperte,
con i suoi momenti d'entusiasmo e di depressione, i cui frutti
germoglieranno nel tempo" [24].
BIBLIOGRAFIA
Affergan F., Esotismo e alterità, Milano, Mursia, 1991, pp.
280, ISBN 88-425-0946-9; ed. or. Exotisme et alterité, Paris, Presses
universitaires de France, 1987.
Banderali C., Identità mitica e identità storica in U. Fabietti
(a cura di) Etnografia e culture, Roma, Carocci, 1998: 158-174,
ISBN 88-430-1110-3.
Barth F., Una prospettiva personale sui compiti attuali dell'antropologia
culturale in Borofsky R. (a cura di) L'antropologia culturale
oggi, Roma, Meltemi, 2000: 425-439, ISBN 88-8353-028-4.
Bianco C., Dall'evento al documento, Roma, CISU, 1988, pp.
271, Bibliografia Nazionale 89-171.
Cerulli E., Gli informatori in "L'Uomo", vol. IV, n.2, 1980:
333-350.
Clifford J., I frutti puri impazziscono: etnografia, letteratura
e arte nel XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp.
428, ISBN 88-339-0785-6; ed. or. The predicamene of culture, Cambridge,
Cambridge Mass.
- Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX,
Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 475, ISBN 88-339-1148-9;
ed. or. Routes: travel and traslation in the late twentieth
century, London, Cambridge Press, 1997.
Cresswell R., Elementi di etnologia, Bologna, Il Mulino,
1987; pp. 465, ISBN 88-15-01454-3; ed. or. Elements d'ethnologie,
Paris, Colin, 1975.
de Martino E., L'umanesimo etnografico in de Martino E: la fine
del mondo, Torino, Einaudi, 1997: 389-413, ISBN 88-06-14356-5.
Fabietti U., Relativismo, oggettivismo, ragione antropologica
in "L'Uomo", vol. IV, n.1, 1991: 21-39.
- Tempo e modello in antropologia in Fabietti U. (a cura
di) Il sapere dell'antropologia, Milano, Mursia, 1993: 263-281,
ISBN 88-425-1253-X.
- Introduzione a Fabietti U. (a cura di), op. cit, 1998:
13-18.
- L'etnografia tra esperienza e interpretazione in Fabietti
U. (a cura di), op. cit., 1998: 217-235.
Fabietti U., Matera V., Etnografia: scritture e rappresentazioni
dell'antropologia, Roma, NIS, 1997, pp. 278. ISBN 88-430-0516-2.
Ferrarotti F., Oltre il razzismo: verso una società multirazziale
e multiculturale, Roma, Armando Ed., 1988, pp. 206, ISBN 88-7144-069-2.
Geertz C., Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino,
1987, pp. 447, ISBN 88-15-01278-8; ed. or. The interpretation of
cultures: selected essays, New York, Basic Books, 1973.
- Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988,
pp. 303, ISBN 88-15-01674-0; ed. or. Local knowledge. Further essays
in interpretative anthropology, New York, Basic Boo ???õ?ks Inc., 1983.
- Opere e vite, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 159, ISBN 88-15-02771-8;
ed. or. Works and lives: the anthropologist as author, Cambridge,
Polity Press, 1988.
Kilani M., L'invenzione dell'altro: saggi sul discorso antropologico,
Bari, Ed Dedalo, 1997, pp. 323, ISBN 88-220-6188-8; ed. or. L'invention
de l'autre: essais sur le discours anthropologique, Lausanne, Payot
Lausanne, 1994.
Lospinoso M., Diario africano, Napoli, Liguori 1993, pp.
138, ISBN 88-207-2318-2.
- Il disagio dell'etnologo in "Prometeo", n. 51, sett. 1995:
50-59.
- L'Etnologo e l'altro: parole e silenzi, comunicazione al
Convegno Nazionale "Dialogo, silenzio, empatia", Chiavari, 1-2 ottobre
1999 in Dentone A., Bracco M. (a cura di) Dialogo, silenzio, empatia,
Bastogi, Foggia 2000.
Macioti M.I., Imbroglioni e bugiardi, gli indigeni di Malinowski
in "La critica sociologica", n. 106, lug.- ott. 1993: 120-126.
Manoukian S., L'informatore, la guida, il traduttore in U.
Fabietti (a cura di), op. cit., 1998: 39-57.
Marcus G., Dopo la critica dell'etnografia: la fede, la speranza
e la carità, ma di tutte più grande è la carità in Borofsky
R. (a cura di), op. cit., 2000.
Mattalucci C., Rappresentazioni indigene e rappresentazioni occidentali
in Fabietti U. (a cura di), op. cit., 1998: 175-199.
Remotti F., Introduzione a Geertz C., op. cit., 1987: 9-33.
- Introduzione a Affergan F., op. cit., 1991: V-XVI.
Rodeghiero L., L'antropologo e la sua ombra in Fabietti U.
(a cura di), op. cit., 1 ???õ?998: 19-37.
Salzman P.C., Lo straniero solitario nel cuore di tenebra: fatti
e misfatti della vocazione antropologica in Fabietti U. (a cura
di), op. cit., 1993: 57-73.
Sperber D., Il sapere degli antropologi, Milano, Feltrinelli,
1984, pp. 135, ISBN 88-07-10014-2; ed. or. Le savoir des anthropologues:
trois essais, Paris, Herman, 1982.
Wagner R., L'invenzione della cultura, Milano, Mursia, 1992,
pp. 186, ISBN 88-425-1137-4; ed. or. The invention of culture; Chicago
& London, The University of Chicago Press, 1981.
NOTE
[1] J.
Clifford, 1999:21
[2] J.
Clifford, 1993:113
[3] E.
de Martino, 1997:391
[4] Ivi,
p. 396
[5] F.
Barth, 2000:425
[6] F.
Remoti, 1991:XV
[7] Il
termine senegalese è usato - qui, come altrove nel testo -
come sinonimo di wolof, principale etnia del Senegal. Infatti
la stragrande maggioranza dei senegalesi presenti sul nostro
territorio proviene da quelle aree del paese (regioni nord-ovest,
Baol, Sine-Saloum, Dakar) a prevalente popolamento wolof.
[8] F.
Ferrarotti, 1988:37-39
[9] C.
Bianco, 1988
[10]
U. Fabietti (a cura di), 1998:15
[11]
Ivi, p. 13 e ss.
[12]
A. Riscaldi in U. Fabietti (a cura di), 1998:143
[13]
F. Affergan, 1991:7
[14]
Ivi, p. 169
[15]
J. Clifford, 1999:68
[16]
C. Geertz, 1987:71
[17]
S. Manoukian in U. Fabietti (a cura di), 1998:55
[18]
R. Wagner, 1992
[19]
M. Griaule citato in L. Rodeghiero in U. Fabietti (a cura
di), 1998:31
[20]
G. Marcus, 2000:69-70
[21]
J. Clifford, 1993:96
[22]
M.I. Macisti, 1993
[23]
J. Clifford, 1991: 58-59; 226-227
[24]
M. Lo spinoso, 1993:130
newsletter subscription
www.analisiqualitativa.com