L'osservazione partecipante
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.1 n.1 Gennaio-Marzo 2003
IL POTERE DELLA
LINGUA NELLA RICERCA ETNOGRAFICA
Lidia Dutto
lidutto@libero.it
Maturità
Linguistica e Laurea in Pedagogia ad indirizzo Sociologico; opera
professionalmente in qualità di traduttrice/interprete; interessata
alle discipline sociologiche e psicologiche, frequenta un Master di
preparazione in Counselling; appassionata di tradizioni popolari,
svolge ricerche in ambito rurale su svariate tematiche, in particolare
il pensiero magico, le credenze e gli effetti di tali attribuzioni
sulla vita della comunità oggetto di ricerca.
Il linguaggio è un potente strumento per mezzo del quale noi siamo
in grado di riconoscere il mondo ed interagire con i suoi membri.
Uno strumento, rudimentale all'inizio e raffinato via via negli anni,
che muta e fa mutare chi lo usa, che si crea man mano e offre accesso
alla cultura dei suoi parlanti. La capacità di riconoscimento che
sviluppa il bambino nel corso degli anni, è data in gran misura dal
rapporto che la madre - più d'ogni altro - sa creare col figlio. A
partire dal linguaggio dello sguardo, dall'intensità in esso veicolata,
per giungere all'atto linguistico vero e proprio, il bambino trasforma
le sue capacità d'interazione e comunicative. Le crescenti acquisizioni
modellano le sue strutture conoscitive e interpretative, cosicché
il primissimo accesso al mondo culturale della sua comunità man mano
si rimodella in base ai canoni di una comunità più ampia, la società.
In tale prospettiva, parlare significa creare un legame interpretativo
degli schemi della/le realtà possibili, cosicché acquisire una lingua
straniera significa acquisire parimenti nuovi schemi mentali che,
coloro che sono professionalmente coinvolti nel settore linguistico
quali i traduttori e gli interpreti per esempio, vedono costantemente
riflettersi sulle definizioni linguistiche. Il mondo "parlato" sarebbe
in ciò il riflesso del mondo "percepito".
Il linguaggio è lo strumento oltre il quale risiede dunque il mondo
del parlante, un mondo le cui basi si sono formate prima ancora dell'acquisizione
della capacità linguistica. Per il bambino, infatti, così come sostiene
Roger Brown: "il concetto è ... lì in anticipo, e aspetta che giunga
la parola che lo nominerà" (Brown, 1977).
OSSERVAZIONE PARTECIPANTE E LINGUA
Fare ricerca sociale significa entrare, attraverso la lingua, nel
mondo "percepito". L'approccio del ricercatore è un approccio "in
formazione", del tutto simile a quello del bambino. Attraverso un
codice linguistico comune - sia esso la lingua in vigore, ma ancor
più il dialetto - egli ha accesso, così come il bambino nei confronti
della "sua" realtà, al riconoscimento della realtà del suo interlocutore.
Via via che acquisisce dati sulla tematica oggetto d'indagine, il
ricercatore acquisisce nozioni sul mondo che regola tale oggetto e
ne definisce i contorni. La sua immersione in un mondo altro richiede
però flessibilità mentale, disponibilità a formarsi su schemi e mappe
concettuali nuove, umiltà e gestione delle possibili incongruenze
con i canoni regolativi del proprio mondo. Spesso tutto ciò rappresenta
la parte più difficile per il ricercatore. A livello personale, sono
proprio questi i punti che hanno da sempre affascinato il mio lavoro
di ricerca. Ricerca significa innanzi tutto flessibilità mentale e
desiderio di cogliere un mondo altro, la raccolta dei dati, poi, fluisce
facilmente.
L'osservazione partecipante permette un'immersione diretta
nella realtà studiata lasciando spazio ai successivi adeguamenti.
Secondo Corbetta (1999), possiamo definire "l'osservazione
partecipante una strategia di ricerca nella quale il ricercatore
s'inserisce a) in maniera diretta e b) per un periodo di tempo
relativamente lungo in un determinato gruppo sociale c) preso
nel suo ambiente naturale e) allo scopo di descriverne le
azioni e di comprenderne, mediante un processo d'immedesimazione,
le motivazioni" (pag. 368). Per il ricercatore, comprendere
le motivazioni è la cornice entro la quale può muoversi una
possibile valutazione della realtà presa in esame. A tal fine,
il ricercatore ha a sua disposizione alcuni strumenti: se
documenti, testi, fotografie, ecc. danno concretezza storica
alla realtà studiata, è il rapporto con i soggetti-oggetto
della ricerca a rappresentare il legame privilegiato per tessere
i fili di costruzione e ricostruzione nei molteplici aspetti
delle sue rappresentazioni. E' dunque l'atto comunicativo
a permettere questo legame e a strutturarne i contorni. In
ciò il ricercatore deve essere in grado di lasciarlo fluire,
senza porre ostacoli che, seppure di natura inconscia, possano
interferire nel sottile gioco delle parti.
I questionari con l'ausilio di tecniche e metodi dell'intervista
giocano un ruolo di primo piano nella raccolta dei dati e
delle informazioni utili alla ricerca. In base all'esperienza
personale, il questionario semi-strutturato offre, grazie
alla sua flessibilità, i maggiori vantaggi. Opportunamente
preparato antecedentemente alla ricerca ed adattato in sede
d'intervista, il questionario semi-strutturato è tecnicamente
una traccia scientifica all'esposizione ma che autorizza contemporaneamente
spazi liberi, spazi per l'introspezione. A questo riguardo
due aspetti possono essere posti in luce relativamente a questo
tipo di questionario, aspetti che, pur essendo dicotomici,
sono prepotentemente in grado di illuminare più facciate di
una stessa realtà: a) nei suoi aspetti regolativi, di ordine,
di traccia, l'intervistato avverte una scientificità di metodo,
quella scientificità per la quale egli si dispone favorevolmente
come testimone del contesto di indagine; b) nei suoi aspetti
liberi, l'intervistato avverte di essere "al di fuori delle
regole", uno spazio entro il quale egli si concede digressioni
che non soltanto sono considerate utili per le finalità della
ricerca, ma la cui informalità può rappresentare la facciata
latente di tale contesto e delle Weltanschauungen, o visioni
del mondo, su cui s'indaga.
GIOCHI DI INCLUSIONE ED ESCLUSIONE
Durante i primi approcci con i testimoni, il ricercatore sa che sta
per entrare in un contesto solitamente nuovo per lui ed in questa
deve affrontare una tra le fasi più delicate del suo lavoro. E' in
questa fase che il ricercatore sperimenta il gioco sottile dell'accettazione:
deve dimostrare la sua capacità di accettazione dell'altro affinché
egli stesso sia accettato. E' il momento in cui il testimone lo studia
e decide se intraprendere il percorso proposto. A tal proposito, entrano
in gioco i primi fattori connessi alla presenza del ricercatore: il
suo modo di parlare, la modulazione della voce, il modo di vestire.
Un atteggiamento disponibile e umile, di chi ha voglia di imparare
da quel mondo, è avvertito dal testimone come una mano tesa verso
di lui, mano che difficilmente egli rifiuterà. Farsi accettare significa
iniziare un processo di inclusione verso quel mondo totalmente da
decifrare. In tutto ciò la lingua costituisce lo strumento protesico
per eccellenza al fine di creare legame.
Come dice Tobie Nathan, "la langue constitue une frontière
à la fois souple et hermétique, délimitant dans l'univers
de tout locuteur un dedans et un dehors. (...) De même, à
l'intérieur de la langue, l'accent, les expressions idiomatiques,
les argots, les créoles, les langues d'initiés, procèdent
à leur tour au même jeu d'inclusion et d'exclusion, organisant
au sein du groupe une multitude d'espaces qui s'excluent,
s'entrecroisent ou se chevauchent. (...) Du point de vue des
utilisateurs, la langue est un système culturel qui enveloppe
le groupe social, tout en contribuant à l'identifier à la
manière d'une marque sur le corps: incrustée, solidaire de
sa nature et néanmoins contingente puisque arbitraire. Elle
permet au groupe d'exhiber, d'affirmer une identité face aux
étrangers; elle permet aux semblables de se reconnaitre et
de se sentir inclus dans une même entité" (Nathan, 2001, pagg.
143-144).
E' in questo percorso d'inclusione ed esclusione che il ricercatore
deve dar prova della sua abilità nel dimostrare al suo interlocutore
che la distanza che li separa - se di distanza si può parlare - potrà
essere colmata insieme, proprio tramite il lavoro di ricerca che egli
ha intenzione di compiere con lui. Ciò farà sentire il testimone onorato
della scelta da parte del ricercatore, scelta che porterà ad includerlo,
a sua volta, in un percorso d'indagine che, se presentata e condotta
con elegante umiltà, non farà che aumentare la sua sensazione d'essere
partecipe di "qualcosa d'importante".
L'IMPORTANZA DELL'IDIOLETTO
Strumento tra l'agire e l'essere, nell'intervista la parola
informa, regola, narra, sancisce un mondo fatto di postulati
e credenze per lo più inaccessibili se non tramite un'analisi
approfondita. Pur avendo come traccia un ventaglio di domande,
è perciò importante che il ricercatore lasci defluire il discorso
secondo gradi di libertà molto ampi, senza quelle strozzature
che possono interferire nel creare comunione e partecipazione
con il soggetto intervistato.
Da parte sua, l'emittente fornirà una narrazione nella quale rientrano
prepotentemente i seguenti fattori: a) modo di esprimersi personale;
b) tonalità vocali ed espressive; c) espressioni dialettali; d) proverbi;
e) silenzi.
E' molto importante che il ricercatore lasci fluire il discorso
tenendo in considerazione questi elementi poiché è necessario
che l'interazione comunicativa rispecchi le forme espositive
più reali del contesto studiato. Qualora il soggetto non dovesse
sentirsi a proprio agio nell'esprimersi e nell'esprimere il
proprio vissuto, è come se tale contesto subisse una privazione.
La spontaneità del soggetto regala, infatti, verità all'esposizione.
Per Bruner l'informalità dispone a favore della creazione
di significato, "La procedura che seguivamo nei colloqui era
informale, e pensata per incoraggiare il processo di creazione
di significato durante il resoconto narrativo, piuttosto che
le risposte più categoriche che si ottengono con le interviste
standardizzate. All'inizio d'ogni colloquio spiegavamo che
eravamo interessati all'autobiografia spontanea, e a come
le persone procedono nel raccontare la loro vita, a loro modo"
(Bruner, 1992, pag. 119). In linea col pensiero di Bruner,
possiamo asserire che "il come le persone procedono nel raccontare
la loro vita" permette di estrapolare gli elementi chiave
di riferimento alla realtà e, dunque, pervenire alla visione
del mondo dell'emittente. I modi del racconto spontaneo non
soltanto informano sul sistema di riferimento ma anche sugli
aspetti che il parlante ritiene importante raccontare e che
aiutano a delineare i contorni del suo spazio interno ed esterno.
In pratica, "Nous pouvons dire qu'une langue est un système
culturel fabriquant la nature du monde. Cette nature parait
d'autant plus évidente qu'elle a imprégné les locuteurs depuis
le premier éveil de leur raison. (...) Enfin, une langue est
strictement caractéristique d'un groupe humain" (Nathan, 2001,
pag. 145), l'atto linguistico permette dunque di riferire
e di autoriferirsi in quanto pregno di istanze sociali ed
emotive della comunità di appartenenza. Nel caso per esempio
delle interviste con testimoni di provenienza rurale o montana,
soprattutto quando alla provenienza si associa un isolamento
dettato dalle influenze climatiche o dalle conformazioni topografiche,
la nozione di lingua come caratteristica di un gruppo umano
risulta maggiormente importante poiché la lingua qui si arricchisce
di postulati specifici di una singola comunità, pertanto non
si potrà più parlare di questo o quel dialetto, ma di specifici
idioletti caratterizzanti una borgata o un versante montuoso.
METAFORE E PROVERBI NELLA TRADIZIONE RURALE
Ed è proprio nei percorsi di ricerca compiuti in ambito rurale
o montano che al ricercatore si presenta molto spesso la straordinaria
occasione di raccogliere, grazie alla narrazione spontanea,
proverbi, locuzioni linguistiche e detti tipici locali che,
a loro volta, vengono ad arricchire con svariate tonalità
i dati raccolti. Questo è maggiormente possibile allorché
l'intervista si svolge nel dialetto locale. L'uso del dialetto,
laddove possibile, è un metodo privilegiato di lavoro con
i testimoni della realtà rurale poiché permette vicinanza
comunicativa e comunione. Con l'uso della lingua autoctona
dei testimoni, il ricercatore si offre la possibilità di raccogliere
espressioni e proverbi che resterebbero altrimenti nascosti.
Agli occhi del ricercatore il proverbio fa diventare straordinario
ciò che per il testimone è ordinario. Il proverbio funziona
come il cervello umano: opera in economia. Esso condensa il
contesto per creare significato.
Grazie alle locuzioni dialettali, ai proverbi, alle metafore, il ricercatore
raccoglie vissuti reali, fantasmi e proiezioni. Non stupisce perciò
che per uno stesso proverbio si possano riscontrare differenti interpretazioni
per comunità che vivono a pochissimi chilometri di distanza l'una
dall'altra. Uno stesso proverbio può essere infatti interpretato secondo
approcci diversi solo in base alla localizzazione topografica della
comunità d'appartenenza del soggetto. Il potere del proverbio risiede
perciò nell'offrire secondo svariati gradi di condensazione aspetti
reali ma finemente celati che soltanto chi ha come referente quella
realtà può comprendere appieno. Al ricercatore, che com'è ovvio non
può conoscere le espressioni dialettali dei parlanti, è richiesto
lo sforzo di avvicinarsi alla loro lingua informale. Lasciar defluire
gli usi linguistici propri del sistema indagato significa di fatto
lasciar trasparire un mondo per il quale non si dispongono di strumenti
operativi, ancor più quando l'interpretazione di questo mondo è offerta
dagli stessi emittenti.
IL POTERE TERAPEUTICO DELLA NARRAZIONE
Nel momento in cui il soggetto narra la sua storia, i legami con la
propria comunità d'appartenenza, il suo approccio alla vita, egli
diviene protagonista. La sua storia ora diventa importante per qualcuno,
qualcuno che sa comprenderla e accettarla senza critica. Secondo la
mia esperienza personale, questa sensazione di "importanza" che il
ricercatore sa offrire, diventa la base fondamentale attraverso la
quale il soggetto intervistato avverte di far parte di un progetto,
di essere stato interpellato perché ritenuto non soltanto "simpatico"
ma anche affidabile. Così egli contribuisce ad un'intervista scientifica,
si lascia trascinare dalle domande regalando risposte esaurienti,
cerca di offrire maggiori risposte talvolta avanzando altresì argomentazioni
critiche all'esperienza personale e comunitaria. Ciò viene tanto più
permesso dall'uso del backtalk, tecnica che a livello personale utilizzo
ampiamente in quanto permette la rivisitazione dei concetti del soggetto
con le parole del ricercatore, regalando la possibilità di mettere
in luce la correttezza delle interpretazioni.
La sensazione d'importanza della propria storia personale è il primo
aspetto per creare un rapporto ottimale tra chi conduce la ricerca
e l'intervistato. Di lì in poi, gli incontri, le interviste divengono
un lavoro introspettivo che se, condotto correttamente, risulta foriero
di ulteriori aspetti da non sottovalutare: per il soggetto infatti
questi incontri, con la loro cadenza e le regole da rispettare, vengono
a rappresentare un setting terapeutico eccellente in cui il soggetto
qui è ascoltato, compreso, mai valutato criticamente. La forza di
qu?=esto aspetto è particolarmente evidente presso i soggetti anziani
i quali, se debolmente restii all'inizio del lavoro d'intervista,
giunti al suo termine esprimono ogni volta gratitudine per "averli
ascoltati" e tristezza per la loro cessazione. Personalmente ritengo
che operazioni simili condotte all'interno di istituzioni preposte
alla cura dell'anziano potrebbero costituire una sorta di "cura" in
grado di sopperire, seppur parzialmente, allo stato depressivo in
cui viene spesso a trovarsi la persona in questo stadio della vita.
CONCLUSIONE
L'atto linguistico è dunque qualcosa di più che una semplice catena
di parole giustapposte. In sintonia con Roman Jakobson, possiamo asserire
che "le système sémiotique le plus important, la base de tout le reste,
c'est le langage: le langage, c'est réellement les fondations mêmes
de la culture. (...) Toues les autres systèmes de symboles sont accessoires
ou dérivés", la lingua è "L'instrument principal de la communication
porteuse d'information" (1963, pag. 28). La lingua riflette il contesto
e ha il potere di interpretarlo. Attraverso la lingua il ricercatore
tenta di riconoscere i contorni di un mondo che non sempre si lascia
facilmente cogliere. Talvolta il passaggio dai contenuti manifesti
ai contenuti latenti è ricco d'insidie e va avanti per prove e tentativi.
Abbiamo menzionato che alcune tecniche di intervista, in particolare
il backtalk, permettono tentativi di interpretazione più solidamente
fondati poiché misurati con i parlanti stessi, evitando così la precarietà
di facili induzioni unilaterali.
L'atto linguistico, nella ricerca, permette al ricercatore
e ai testimoni della realtà studiata di crescere insieme attraverso
passaggi prestabiliti, non mancano in ciò giochi e raffinatezze
sottili che il ricercatore deve sapere gestire con attenzione.
In tutto ciò esistono trappole linguistiche ed interpretative,
come pure straordinarie possibilità. Di fatto, l'approccio
alla ricerca è innanzi tutto un desiderio di conoscenza e
la variabilità dei segni e dei codici che s'inferiscono ogni
qualvolta si stabilisce un contatto con l'altro rende conto
della variabilità dei contesti cui l'umanità è sottoposta.
Nel racconto di ognuno è compito del ricercatore cogliere
i colori e le tonalità delle interpretazioni che hanno reso
gestibile la sua vita.
BIBLIOGRAFIA
Brown, R, (1977), A first language: The early stages, Cambridge, Mass.,
Harvard University Press (trad. it. La prima lingua, Roma, Armando,
1979).
Bruner, J, (1990), Acts of Meaning, Harvard College, trad. it. La
ricerca del significato. Per una psicologia culturale, (1992), Torino,
Bollati Boringhieri.
Corbetta, P. (1999), Metodologia e tecniche della ricerca sociale,
Bologna, Il Mulino. Jakobson, R, (1963), Essais de linguistique générale,
Paris, Les Editions de Minuit.
Nathan, T. (2001), L'influence qui guérit, Paris, Editions Odile Jacob.
Ugazio, V. (a cura di) (1997), La costruzione della conoscenza. L'approccio
europeo alla cognizione del sociale, Milano, Franco Angeli.
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