Contributi su aree tematiche differenti
M@gm@ vol.0 n.0 Ottobre-Dicembre 2002
LA FORMAZIONE ALL'INTERVENTO SOCIOLOGICO
(traduzione Orazio Maria Valastro)
Georges Bertin
georges.bertin49@yahoo.fr
Dottore in Scienze dell'Educazione; ha conseguito
l'Abilitazione a Dirigere attività di Ricerche in Sociologia;
Direttore Generale dell'I.Fo.R.I.S. (Istituto di Formazione
e di Ricerca in Intervento Sociale, Angers, Francia); Direttore
del CNAM di Angers, Francia (Consorzio Nazionale delle Arti
e dei Mestieri); Dirige ricerche in Scienze dell'Educazione
all'Università degli Studi di Pau - Pays de l'Adour; Insegna
all'Università degli Studi di Angers, nel Maine, all'Università
Cattolica degli Studi dell'Ouest, all'Università Cattolica
degli Studi di Bourgogne, alla Scuola Normale Nazionale Pratica
dei Quadri Territoriali; è membro del GRECo CRI (Gruppo Europeo
di Ricerche Coordinate dei Centri di Ricerca sull'Immaginario)
e della Società Francese di Mitologia, fondatore del GRIOT
(Gruppo di Ricerche sull'Immaginario degli Oggetti simbolici
e delle Trasformazioni sociali) e direttore scientifico dei
quaderni di Ermeneutica Sociale; Direttore Esprit Critique,
rivista francofona internazionale in scienze sociali e sociologia.
Le ricerche sociologiche sono oggi realizzate molto spesso, ne siamo consapevoli, da professionisti operanti nei contesti sociali e non possono fare a meno di ricorrere ad approcci multi disciplinari o trasversali. Se ammettiamo abitualmente ciò come qualcosa d'indiscutibile, è meno frequente che ci s'interroghi sui principi di questo tipo d'approcci.
Quando i soggetti in formazione sono sottoposti all'iterazione automatica di conoscenze trasferite dai formatori della generazione precedente, come abbiamo frequentemente costatato anche in alcune Università francesi, nonostante si sia preparati a questo tipo di riproduzione pedagogica, con un adattamento che conserva dell'immaginazione solo il semplice aspetto riproduttivo, questo produce nel sistema educativo nazionale i risultati che conosciamo.
Ma quando, fondamentalmente, i soggetti della formazione sono dei futuri professionisti che interverranno nei contesti sociali, possiamo solo illuderci sulla loro capacità, a distanza di tre o di cinque anni dagli studi universitari, di confrontarsi con le problematiche sociali più difficili nelle situazioni di crisi che viviamo. E' perfino stupefacente come la cronaca non monopolizzi più spesso la stampa con questi fallimenti del sistema, perfettamente comprensibili in simili condizioni d'impreparazione quasi istituzionalizzata.
Possiamo pensare che le pratiche in atto e la loro efficacia simbolica, possano correggere le lacune di una formazione agli antipodi di come dovrebbe essere. Ci si stupisce tuttavia per la confusione prodotta e per l'incapacità di gestire questa questione, rispetto alle risorse statali destinate a tale scopo.
Mentre gli approcci accademici evidenziano l'importanza delle conoscenze dei soggetti in formazione, questi programmi di formazione sono molto spesso distanti dalla ricerca sociologica contemporanea, anche se rivendicano una rilevante competenza in merito. La ricerca contemporanea tenta invece di avvicinare, con una strategia credibile per i differenti attori sociali implicati, le conoscenze prodotte giorno dopo giorno da questi ultimi ed i limiti con cui si confrontano.
Noi presupponiamo, da parte nostra, che i progetti rivolti ai sociologi per valutare la loro formazione non possono fare a meno di considerare il concetto di "tragitto antropologico" enunciato da Gilbert Durand, il quale ravvisa in ogni pratica simbolica quella congiunzione mai compiuta e sempre provvisoria tra dati soggettivi e prescrizioni ambientali. L'intervento sociologico compie adeguatamente questa misteriosa alchimia che consiste nel sostenere dei dati verticali: le biografie, il ricorso alle storie di vita dei soggetti, al loro immaginario radicale ed ai miti, ci fanno conoscere la storia e le caratteristiche personali, collettive o inconsce, ed i vincoli delle realtà naturali, sociali, economiche e organizzative che strutturano l'ambito di ogni ricerca.
E' in assoluto il caso degli studenti formati all'intervento sociologico ed allo sviluppo locale, la cui conoscenza non dovrebbe basarsi su dei modelli dati a priori. Si tenta di fargli credere in alcuni contesti formativi, organizzati sulla base del fantasma dell'onnipotenza, che gli si conferisce il possesso, d'altra parte illusorio, delle conoscenze scientifiche. I professionisti sanno bene che devono valutare, e lo scoprono confrontandosi con il proprio terreno d'intervento dove le situazioni e gli stessi attori sociali si trasformano incessantemente, tutta una serie di discrepanze, incertezze, incompatibilità, se assumono quello che Castoriadis chiamava l'irresponsabilità letale, rigettando dunque qualsiasi possibilità di comprensione delle situazioni incontrate.
Sappiamo ormai quasi da cinquant'anni che la ricerca scientifica avanzata rinvia lo scienziato al mistero del conoscere, almeno quella che si pone come tale, quella delle scienze dure, ed è necessaria la miopia di alcuni professionisti delle scienze umane e sociali, ancora allineati sui modelli più arretrati, per pensare che l'uomo possa uscire da questa contingenza propria ad ogni ricerca di significato. E' ciononostante in questa negazione che si fondano oggi alcuni percorsi formativi in sociologia che fabbricano degli intervenenti nei contesti sociali confinati in modelli precostruiti, laddove bisognerebbe sviluppare una comprensione dialettica delle realtà oggetto di studio e d'intervento.
Questo c'induce a contrastare quegli orientamenti che tentano ancora oggi di trattare il mondo sociale come una cosa, facendo degli insegnanti e dei sociologi che si occupano di formazione dei meccanici del reale. Dobbiamo propendere piuttosto a promuovere delle sentinelle, degli educatori, delle levatrici di significati, perché comprendano e interpretino la realtà giacché è il loro compito ma questo è ugualmente un ruolo che spetta agli attori sociali interessati, ed è a questo che generalmente non si è per nulla preparati.
La questione dell'oggettività nelle scienze sociali è sempre presente, concordiamo pertanto con Thierry Magnin che rimettere in discussione l'intimidazione terrorista poiché non distrugge affatto il carattere universale dell'approccio scientifico. Se da una parte nessuna teoria può pretendere alla completezza, dall'altra parte noi abbiamo compreso, insieme ai neuro biologi come Varela, che non c'è coscienza senza storia, né storia senza corpo: poiché l'esperienza individuale è irriducibile e senz'altro reale. La realtà è in questo senso anche immaginario, "la coscienza nascente per salti quantici".
I sociologi, nella prospettiva di lavoro sull'implicazione e l'intervento, che sono per noi in relazione dialettica, rispetto a quei modelli che traggono il loro "epistème" in ingannevoli certezze, non possono che far ritorno alle teorie oltremodo abbandonate dell'autogestione pedagogica, della Ricerca Azione oggi potentemente rinnovata grazie a dei recenti lavori (vedi bibliografia), della prâkxis studiata da Francis Imbert, della poiesi cara a René Barbier.
Jaques Ardoino ha dimostrato che una di queste correnti, la più applicata dagli anni sessanta, l'autogestione pedagogica, è stata introdotta nella vita sociale sulla base di tradizioni intellettuali fortemente impiantate nel consenso sociale (Charles Fourier e i falansteri del diciannovesimo secolo). Il gruppo terapeutico negli Stati Uniti è esso stesso l'erede degli ideali democratici della filosofia dei Lumi e del modello psicanalitico. Sviluppato da una critica radicale del modello burocratico, esaminando le sue fondamenta istituzionali, mette direttamente in evidenza le capacità del formatore in situazione, le sue implicazioni rispetto alla propria libido, alla professione ed alla politica, confrontandosi con differenti modelli possibili.
Per alcuni (Blake e Gibb), il ricercatore, il professionista, interviene ricordando gli obiettivi, situando il gruppo di fronte all'esigenza formativa, protegge l'integrità degli individui, suggerisce dei metodi. Per altri (Bennis e Shepard), egli manifesta agli individui le caratteristiche delle loro azioni individuali, interpreta le loro attitudini, denuncia la loro dipendenza e contro-dipendenza. Max Pagès, più rogeriano, rinvia al gruppo la sua immagine, diventa l'analista dei messaggi e della comunicazione, segna le tappe dell'andamento del gruppo.
Dal punto di vista dei soggetti in formazione, è al formatore che spetta di consegnare loro quel che è necessario considerare per assumersi le proprie responsabilità: spetterà a loro decidere se lavorare o meno, se gestire le proprie relazioni e mettere in azione delle attività comuni con gli altri studenti, se organizzare il proprio lavoro e perseguire degli obiettivi. Il formatore diventa allora "uno strumento al servizio dei soggetti in formazione", intervenendo secondo le modalità scelte da questi ultimi e rispondendo alla domanda formativa. Il suo intervento si situa di conseguenza a tre livelli: 1) analizzare - rinviare al gruppo l'immagine del suo funzionamento, chiarire i messaggi esplicitare i sentimenti; 2) organizzare - dare dei consigli, proporre dei modelli; 3) comprendere - presentare delle idee, dare delle informazioni, delle sintesi, chiarire le idee, fare il punto sulle questioni.
Questa posizione, come progetto più generale, tende a denunciare la superiorità di chi detiene un sapere e quanti ne sono apparentemente sprovvisti. Il metodo dell'autogestione è di per sé pertinente per stabilire una relazione tra l'esperto ed i soggetti in formazione, bisogna convenire, nel caso specifico della formazione nel settore della sociologia dello sviluppo, che è un'esigenza quasi etica. Ciò suppone una definizione della cultura non in termini di capitale accumulato o di beni da commercializzare che si detengono o di cui siamo sprovvisti, ma in quanto realtà psicologica, atto. Poiché, all'inverso di una concezione creatrice dell'atto formativo o culturale, la cultura non è un qualcosa di definitivo, un oggetto o un insieme di beni, e vi sono tanti modi di avvicinarsi alla realtà come agli individui, non essendo la cultura equivalente per ogni individuo. Percepiamo quindi i vantaggi di quest'approccio per un sociologo in quanto non lo squalificano nella relazione avviata con i soggetti con cui è in rapporto.
La psicologia moderna ci ha mostrato analogamente che il pre-adolescente si sviluppa in funzione delle relazioni che condivide con il suo ambiente (familiare, sociale ed economico) e dei processi psichici che sviluppa, e che i suoi bisogni culturali, come anche altri tipi di necessità, sono condizionati dalle sue prime esperienze. Il cambiamento di un individuo può quindi essere ottenuto unicamente in un ambiente dove tutto converge verso il cambiamento, da qui la necessità d'indirizzare coerentemente l'azione dei formatori sulle stesse istituzioni.
L'ambito della formazione in sociologia dovrebbe pertanto essere concepito come un luogo propizio dove fare evolvere gli individui attraverso un doppio movimento di distacco e implicazione, sviluppando uno spirito critico non strumentale. Deve, in effetti, contribuire ad agire sulle istituzioni esistenti perché l'educazione gioca un ruolo essenziale nella formazione delle società. Si tratta di qualcosa di "eminentemente sociale" (Durkheim).
La formazione dei sociologi si presenta fin da ora al servizio di quest'ambizione. Il modello della formazione "clinico sociale" è ormai ammesso se non addirittura garantito, si esplicita attraverso la psicosociologia, la sociologia, l'economia, ed è in ogni caso multi disciplinare. Il termine clinico indica notoriamente il letto del malato nella sua postura supina, per esteso indica quello che si apprende sul campo. Lagache lo definiva scienza del comportamento umano, rispetto dell'ambiguità, dei doppi sensi, dell'opacità.
L'intervento sociologico si contrappone di conseguenza alla postura sperimentale, dominata dalla misurazione e dal controllo. Laddove quest'ultima è normativa, quantitativa, la clinica è all'opposto qualitativa, monografica, contribuisce al cambiamento sociale ed è essa stessa intrinseca al cambiamento. Qui la verità non è definita dal verificabile ma dall'autenticità, dalla congruenza, dall'empatia. Roger Bastide, nella sua antropologia applicata, la impiegava nell'analisi approfondita di una comunità e della sua azione riformatrice, ed è precisamente il caso dell'intervento sociale, ossia "una scienza teorica focalizzata sulla pratica".
La prâkxis pedagogica di Francis Imbert appartiene a questo stesso orientamento, è essa stessa apertura, processo, considerazione dell'insieme dell'essenza indeterminata/indeterminabile delle capacità autonome del soggetto in formazione. Tendendo all'autonomia ha come obiettivo quello di permettere e facilitare l'accesso ad una trasformazione lucida delle regole che gli sono imposte, in quanto l'interesse fondamentale è quello di favorire le capacità autonome dei soggetti riconosciuti attori del proprio sviluppo. I soggetti in formazione, dal punto di vista di questo genere di pedagogia, devono e possono verificare nella loro esperienza la validità di ciò che gli è stato insegnato, in una costante dialettica con il formatore. Non devono, in effetti, rimanere al livello del vissuto spontaneo, è necessario che mettano in discussione e confrontino vissuto ed evidenze, dandosi i mezzi teorici e pratici per questo confronto.
Possiamo constatare come questa postura, applicata all'intervento sociale, trovi il suo significato quando il sociologo realizza la sua azione professionale tra gli attori sociali interessati dal suo stesso intervento: si tratta di pensare a degli strumenti critici tra pratica e teoria, al fine che questi stessi si ritrovino e si coniughino liberando nello stesso tempo quell'energia sociale istituita, sorvegliata e repressa dall'inibizione istituzionale. Castoriadis scriveva che bisogna rivelare il senso degli immaginari sociali per mostrare l'istituzione immaginaria della società. Su questo punto Imbert pone una condizione: stabilire un agire che impegni ognuno di noi ad elaborare delle trasformazioni della sua visione del mondo, del suo immaginario culturale, sociale e politico, della sua ideologia e infine del suo "essere" di classe.
L'analisi istituzionale ci ha improvvisamente familiarizzati verso quelle procedure che permettono simili identificazioni e costituiscono una vera propedeutica per ogni intervento. Si faceva apprendere agli studenti, dell'università di Parigi VIII, a valutare l'analisi della domanda rispetto a quella della committenza. Il cliente collettivo era avviato verso l'autogestione dell'intervento che gli si proponeva, raccogliendo ed analizzando il materiale simbolico prodotto, traboccante delle alienazioni presentate dai gruppi e dalle istituzioni. Il metodo era la libera associazione della vita dell'istituzione, l'ordine di non omissione delle informazioni ottenute, la loro indispensabile restituzione al gruppo, la valorizzazione dei conflitti inducenti per Deleuze e Guattari ad una vera schizoanalisi, alle volte un lavoro in profondità sul desiderio, alla sua esplorazione attraverso la distruzione delle credenze e delle rappresentazioni in modo tale che il soggetto comprenda la natura ed il funzionamento delle proprie "macchine desideranti". Si trattava insomma d'interpretare il campo simbolico dell'intervento sociale e nessun operatore sociale potrebbe oggi eludere ciò, nel principio del suo agire, senza giustamente condannarsi all'incapacità d'intervenire.
Le metodologie della ricerca azione ci appaiono in questa logica perfettamente pertinenti a promuovere e sostenere il lavoro dei futuri operatori sociali, perché sono realmente delle metodologie agenti dell'intervento sociologico. La ricerca azione in sociologia ha, in effetti, un senso unicamente rispetto a situazioni di cambiamento sociale, alle quali partecipa perseguendo due obiettivi la cui corrispondenza è formativa (dà forma ed ordine al caos), producendo delle conoscenze e dell'azione.
Gli autori anglo sassoni che hanno cercato di evitare qualsiasi strumentalizzazione del modello di Lewin (Corey, 1953), hanno insistito sul fatto che sono gli stessi operatori, studiando scientificamente i loro problemi, che devono fondare la ricerca azione in base a dei valori democratici (Whitehead, 1993). Stenhouse sperava che gli stessi formatori diventassero dei ricercatori, "non è sufficiente", scriveva, "che si studi il lavoro dei formatori, devono farlo loro stessi", e ne definiva le condizioni: - una ricerca locale; - i ruoli complementari del formatore e del gruppo di progetto; - la definizione di un linguaggio comune. Il loro ruolo è definito dal proprio campo professionale: ogni formatore analizzando il proprio gruppo classe. Citava inoltre i metodi utilizzati e percepiti come complementari: - osservazioni; - diari di ricerca; - profili psicologici; - analisi di contenuto; - interviste; - questionari; - studi di casi.
Concepiamo agevolmente come questo modello si applichi quasi naturalmente all'intervento sociologico, qualunque siano le condizioni, poiché nessuno ritiene che l'intervento sociologico non sia interessato da queste stesse pratiche, direttamente legate all'analisi del campo d'intervento e del contesto. Nel 1983 Kemmis e Carr pubblicavano le proprie osservazioni (Becoming critical) e definivano come segue la ricerca azione: "una forma di ricerca intrapresa dai partecipanti alle situazioni sociali per migliorare la razionalità e la pertinenza delle loro pratiche, la loro comprensione e le situazioni nelle quali agiscono".
Vediamo manifestarsi una definizione dell'intervento sociologico rispetto alla quale noi pretendiamo preparare i sociologi nel nostro territorio, l'omologia delle intenzioni e delle forme attraverso cui si mettono in pratica, è perfettamente considerevole tra i due settori. Infatti, i ricercatori inglesi non esitano a definire la ricerca azione come processo sociale che permette di: migliorare, trasformare le pratiche; promuovere, implicare gli attori sociali interessati. E' rilevante come nel nostro paese prevalga il fatto di riuscire ad ottenere gli stessi risultati con dei mezzi molto lontani da quelli effettivamente previsti. Contrapposto ai metodi di "verifica delle ipotesi a priori", di cui si vantano ancora attualmente alcuni colleghi, i ricercatori inglesi si preoccupano d'implicare progressivamente i formatori e ottengono gradualmente il consenso del loro contesto, in una dimensione sia pratica che teorica.
La ricerca azione che è quindi un processo partecipativo e collaborativo, di riflessione su di sé e sui propri campi d'attività, deve avere un'influenza sulle condizioni della pratica formativa, è una vera epistemologia della pratica (Whitehead, 1993). Il professionista apprende a partire dalla propria esperienza (Winter, 1989), la sua ricerca fa proprie le dimensioni psico affettive della sua esistenza. Quanti sociologi lasciati a se stessi ed alle proprie risorse, in uno scollamento con la propria emotività, non riescono a stabilire alcun contatto tra la loro pratica ed i suoi effetti osservabili su se stessi, in nome di un sacrosanto distacco sostenuto dal segreto professionale, dall'oggettività, eccetera, eccetera. Le metodologie della ricerca azione sarebbero in questo caso dei potenti strumenti complementari per accedere ad una sociologia d'intervento, tra se stessi ed il mondo, tra la richiesta istituzionale che è stata formulata e quella del loro pubblico. Winter (1989) poteva verificare, a proposito dei formatori inglesi, l'importanza del linguaggio nella manifestazione di queste riflessioni, le parole utilizzate hanno un senso e dipendono dalla comprensione che gli individui hanno del loro contesto. Si tratta dell'"indicalità" degli etnometodologi, propedeutica indispensabile ad ogni problema sociale, o ancora la conseguente filiazione verificata da Costoriadis tra un regime sociale e il tipo antropologico che lo fa funzionare.
Se i sociologi fossero formati su queste basi, sia i sociologi a venire sia i giovani professionisti, diventerebbero realmente produttori di una ricerca sociologica, mentre oggi gli si raccomanda spesso ed in modo perentorio di mantenere la distanza e di non scegliere dei soggetti di riflessione con i quali siano troppo implicati. Com'è possibile aiutarli più tardi a lavorare altrimenti che nella negazione della loro implicazione? Infatti, questo è l'unico reale problema, non tecnico, non funzionale, al quale si troveranno confrontati e conseguentemente davanti al quale si troveranno disarmati. Le procedure, le consuetudine, le prescrizioni alla congruenza porteranno a termine il lutto delle situazioni non governabili, quindi insopportabili, ma inevitabilmente ripetitive perché non rivelate.
Questo lavoro non può realizzarsi che al prezzo di una costante de-costruzione dei fenomeni osservati e quindi nel realizzare l'esperienza di questa de-costruzione nella formazione, attraverso elaborazioni personali, storie di vita, una condivisione delle interpretazioni e la loro comparazione, il continuo dialogo tra gli agenti delle istituzioni interessate. L'esperienza, i soggetti in formazione, ci fanno apprendere che quando questo lavoro è realizzato non è mai istituito, ma è lasciato al caso degli incontri e dei tempi informali. E' in proporzione inversa pertanto che deve essere gestito il tempo della de-costruzione delle azioni sociali, poiché i fenomeni osservati sono essenzialmente volubili, si modificano tutti i giorni.
Perveniamo, in questo caso, ad una nuova definizione della ricerca azione (Altrichter, 1990): "un processo d'intervento che non riposa sull'invariabilità degli obiettivi, la determinazione d'ipotesi e la prova della fondatezza di queste stesse ipotesi. Questo processo è definito su due assi, assiomatico ed empirico": assiomatico, quando le persone incontrate riflettono, migliorano, sviluppano il proprio lavoro intersecando riflessione ed azione, nella diffusione dei risultati ottenuti non soltanto presso i soggetti partecipanti ma di qualsiasi altra persona interessata; empirico, quando la situazione nella quale s'immergono i ricercatori li mette in relazione con le proprie problematiche, la loro partecipazione ai problemi e alla loro risoluzione, la loro capacità a prendere delle decisioni.
La collaborazione sospende, di fatto, i percorsi verticali del lavoro a vantaggio delle pratiche interattive. La ricerca azione è, di fatto, una pratica di collaborazione, un metodo di lavoro insieme a delle persone che hanno gli stessi interessi e sono coinvolti allo stesso modo. Condividiamo come nel settore dell'intervento sociale le differenti categorie d'operatori sociali rispondono a questa definizione, essi devono essere formati verso questi approcci che gli forniscono in questo modo una struttura comune di lavoro e di concertazione. Questa formazione sfocia indiscutibilmente nella produzione di risultati arricchiti da queste stesse collaborazioni, la modificazione della visione del mondo di ciascuno e di quella dei suoi simili, o alter ego professionali, e l'alterazione dei ruoli e degli statuti degli operatori. Ci dirigiamo quindi verso un atteggiamento poietico nel senso attribuitogli da Barbier, il quale si è rivolto, da più di un quarto di secolo, verso dei modelli epistemologici complessi di cui assume le ambiguità e la ricchezza e che definisce come "approcci trasversali"; molto fecondi per tutti quelli che non considerano il sapere universitario unicamente come un mezzo per impossessarsi del campo d'intervento ma gli assegnano una finalità pratica ed euristica, la prima fecondante l'altra e viceversa. L'approccio trasversale procede attraverso i paradigmi delle connessioni e delle associazioni, capaci a rendere conto del confronto tra reale e immaginario.
Attraverso questa prospettiva ritorniamo al "tragitto antropologico" di Gilbert Durand, al nomadismo ed all'erranza nelle quali Michel Maffesoli ravvisa i comportamenti socialmente condivisi nell'epoca in cui viviamo. Si tratta di un'effettiva ánthrôpos-logica come la descrive ugualmente Georges Balandier, che passa attraverso una postura metodologica, quella che René Barbier definisce insieme a Jean-Louis Legrand "implexité", ossia un deciso confronto tra la postura dell'implicazione e la complessità. La dinamica educativa e di ricerca anticipata da Barbier, risolutamente ancorata ad un processo "ai confini", riveste la forma della ricerca azione esistenziale, produzione di conoscenze e trasformazione della realtà, e Barbier insiste giustamente sull'attuale e necessario rigore di un approccio di cui chiunque può riconoscerne l'utilità sociale. Durkheim non diceva lui stesso che la sociologia non vale un'ora di lavoro e di sacrifici se non ricerca quest'utilità?
Al di là delle posture "totalitarie" ancora inculcate agli studenti ed a loro insaputa nella formazione all'intervento sociologico, noi affermiamo che se il pensiero non è riuscito a comprendere, ad abbracciare una realtà, è spesso il caso delle pratiche che qui ci preoccupano, questo non significa che non pervenga ad una realtà che sappiamo sempre relativa. Relativismo di cui non possiamo che felicitarci. Non è forse nella straordinaria plasticità delle forme sociali che risiede, come pensava Simmel, la speranza della loro permanenza?
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