Percorsi di pedagogia della narrazione
Dalle fonti orali alle nuove tecnologie
Fabio Olivieri (a cura di)
M@gm@ vol.8 n.2 Maggio-Agosto 2010
ASCOLTARE LA VITA
Pietro Clemente
pietro.clemente@unifi.it
Antropologia culturale. Dipartimento di
Storia delle arti e dello spettacolo. Università degli Studi
di Firenze.
1. Paraulas
Di recente mi hanno colpito alcune cose pertinenti il raccontare.
Nel libro di Caterina Di Pasquale sulla strage di Sant’Anna
di Stazzema (Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli,
2009) , realizzato come una polifonia di voci dalla memoria
dolorosa dei sopravvissuti nel quadro dei recenti studi sulle
stragi naziste in Toscana [1] un testimone
del 1934, che aveva 10 anni nel momento della strage, viene
visitato dall’autrice del libro, nell’attesa la moglie le
dice “ Sono pochi anni che ha cominciato parlarne” (pag. 17).
Si parla di qualcosa successo 66 anni fa, di qualcosa di terribile,
di pubblico, di collettivo. Io avevo due anni allora. Un testimone
comincia a parlarne dopo 60 anni: dopo l’oblio, quasi un ritorno
della voce. Il Sindaco di quella comunità, che si è sentita
abbandonata nel dolore e nel lutto, e le cui vicende e istruttorie
chiuse in un armadio nascosto (“l’armadio della vergogna”sono
riemerse alla pratica giudiziaria nel 2007, quando racconta
del processo in cui sono emerse nuove testimonianze e nuovi
racconti , dice di alcune donne testimoni che “riescono a
testimoniare ora, andando quasi in trance e liberandosi di
un peso che poi era quello della verità” (pag. 137). Verità
nascosta, rimossa, negata. Caterina Di Pasquale chiama “cantastorie”
i grandi testimoni che nella solitudine e nella marginalità
hanno elaborato la memoria e il racconto della strage.
Da qui comincia un discorso sul raccontare. “Davanti alla
pietra” avrebbe detto un verso di Garcia Lorca, davanti alla
verità della storia e a quella della morte.
Per un antropologo, a contatto con le storie della vita, con
i racconti inascoltati, con le scritture di famiglia o singolari
che si fanno archivio (l’Archivio Nazionale Diaristico di
Pieve Santo Stefano, quelli di Rovereto, Trento, Genova e
oltre sono raccolte di storie diverse e formidabili) e chiedono
attenzione, che ridisegnano mondi della vita (“La storia è
imprevedibile” ho scritto per segnalare le nuove aperture
del passato che queste fonti memorialistiche portano alla
conoscenza) la tendenza a considerare lo “storytelling” come
una forma nuova di spettacolarizzazione narrativa della storia
o del racconto popolare, è come un pugno nello stomaco.
Non abbiamo ancora compiuto come comunità nazionale quel mandato
che negli anni 50 e 60 ci aveva lasciato l’eredità della resistenza
e del neorealismo, e che De Martino interpretò come “vogliono
entrare nella storia”, gli uomini dimenticati del Sud e dei
nuovi sud, le donne, la gente della vita quotidiana. Non è
stato compiuto il mandato di dare la voce alla gente, anzi
esso è stato oggetto di violenza mediatica, e già degli attori
professionisti ora si fanno voce, mediano quelle testimonianze
fatte davanti alla morte, e le trasformano in spettacoli fatti
davanti ai consumatori di tempo libero?
La parola narrata ha una dimensione sacra: lo sentiamo quando,
nel libro Nisa, l’antropologa americana M. Shostack,
fa emergere dal registratore e trascrive la storia della vita
di una donna Kung del Kalahari, che ha raccontato gelosie,
amori, caccia ai conigli con archi di legno, raccolta di noci
di mongongo. E quella donna Kung, Nisa per convenzione, sa,
ha capito che il suo lavoro di memoria resterà in altri mondi
e altre terre, come quello di Sherazade che raccontava, anche
lei, sfidando ogni sera la morte.
In sardo, in provenzale, “Paraula, paraulas” significa
anche parole, ma soprattutto ‘racconti’, parabole, metafore,
parole che hanno un peso speciale.
Quando ascoltiamo le voci della vita non c’è spettacolo, c’è
il sacro della vita umana. E per chi ascolta – come a noi
capita per mestiere – è preso dalla grandezza dei racconti
della vita, dalle possibilità dell’umano che in esse si schiudono
[2]. Si sente che la parola è difficile,
pesante, non è acqua, come nel proverbio toscano, che irride
del vino acquato dei contadini: ”Acquerello e parole se ne
fa quanto si vuole”.
Scriveva J.Lacan nell’apertura del suo classico e misterioso
Le parole e le cose: “La parola salva e uccide”.
Tengo con una certa venerazione la videocassetta in cui Dina
Mugnaini, ex contadina mezzadra di San Gimignano, racconta
la storia della morte del suo primo figlio, e il sogno ricorrente
che fa e che ci dice ancora quarant’anni dopo da quell’evento
riaprendo la cicatrice che c’è nella sua anima. Racconto che
uscendo dall’angoscia solitaria del dolore e comunicandosi
a noi, a me, si è fatto possibile storia pubblica. Oggi che
Dina è morta quel racconto fa parte del grande camposanto
di narrazioni che è la memoria di chiunque di noi sia fatto
di ricordi, come io sono.
Se il racconto si allontana dalle serate della veglia [3]
contadina, dalla trasmissione dei nonni verso i nipoti, dai
monumenti e dai giuramenti, e si fa palcoscenico forse si
perderà il dialogo che ha con la vita e con la morte.
Riconosco nella voce di Ascanio Celestini che mi parla da
un CD lo stile dei narratori a veglia dei miei studi sulla
fiabistica, anche i miei nipoti, nati con il videoregistratore
e il computer colgono ‘l’evento della voce’, ma il suo racconto
acquista senso se raccontiamo anche noi ai nipoti, se la parola
spettacolo riattiva la parola familiare, generazionale, che
sta nelle strutture e nelle intercapedini della vita quotidiana.
Ascolto la voce di Elisabetta Salvatori che in Toscana si
è proposta come narratrice per eredità femminile di nonna,
la sua voce, che incanta adulti e pubblico esigente, parla
anche delle stragi di Sant’Anna, parla dell’emigrazione, dei
contadini, parla con altre voci , valorizza altre voci. In
un saggio dedicato a Bruno Bettelheim, e al suo Il mondo
incantato, anni fa scrivevo che è finito il tempo di
interpretare le fiabe e che è tornato il tempo di raccontarle
[4]. Qualsiasi attività culturale, che non
abbia come scopo la restituzione della parola e del racconto
ai protagonisti della vita, è ambigua. Rischia di avere odore
di narcisismo e di diritti d’autore, di individualismo e di
vendite, di guadagno e di lavoro. Cose non certo negative
in sé, ma solo nel momento in cui lo ‘storytelling’ diventasse
circuito specializzato, riservato, sottratto, non impegnato
nella restituzione e valorizzazione delle fonti alle fonti.
Nel dirlo riprendo, interamente cambiato in quasi tutto il
mondo, il programma che fu di Gianni Bosio e dell’originario
progetto del Canzoniere Italiano e poi dell’Istituto De Martino,
che era quello di restituire alle classi non egemoniche le
proprie forme di espressione, sottraendole sia alla dimenticanza
che al mercato, mantenendo vivo il pluralismo creativo delle
forme, salvandolo dal destino dei vini costretti alla ‘pastorizzazione’.
Mi piacerebbe che voci come quella di Celestini e di Salvatori
facessero da mediatrici delle migliaia di voci che non si
esprimono nelle famiglie, nel sistema mediatico, nella trasmissione
della conoscenza.
2. Il museo in corpo
Mi piace anche il Museo di Palazzo Vecchio,
dove trovi Lorenzo de’ Medici che fa quattro chiacchiere con
te e magari ti dice che non ha l’acqua in casa e cosa mangia.
E’ un problema di comunicazione della differenza storica quello
che gli attori che fanno le veci di Lorenzo affrontano. Ma
non è quella l’unica strada della comunicazione museale. Con
molte discussioni, ma infine con largo consenso, la sperimentazione
di una forma importante di comunicazione è stata fatta al
Museo della Resistenza di Fosdinovo, da Studio Azzurro, o
al Museo della Resistenza di Torino da un altro soggetto che
allestisce musei comunicativi, è la scelta di dare la voce
ai protagonisti, con i volti dei narratori su grandi schermi,
in dialogo elettronico diretto col visitatore. Dagli schermi
ci parlano uomini e donne e parlano di sé a vent’anni, a quindici,
a trenta, raccontano di montagne, morti, scontri, giuramenti
fatti da loro, non da attori che ne facciano le veci.
Li sentiamo vicini. Ascoltiamo, stupiti, la vita. Il signor
Riva nel MEAB, Museo Etnografico dell’Alta Brianza, comunica
il suo museo come se lo avesse nel corpo. Parla delle cose
esposte come di pezzi della sua vita. “I bachi da seta
li mettevamo nel corpo per tenerli caldi, le donne nel seno,
e anche noi bambini qualche volta nelle vesti” . Ci disgusta
a volte la verità di quelle vite lontane, ma la guida ci aiuta
a passare il ponte col passato, a vederlo fatto di bambini,
di donne, di progetti. Mi colpisce che Riva abbia il museo
nel corpo, ma il museo in quanto memoria del tempo è incorporato,
la memoria è corpo. Forse anche per questo il racconto della
vita dà stupore, perché si coglie che è nel corpo, che lascia
cicatrici, che la luce degli occhi di chi racconta viene cambiata
dalle cose che la bocca racconta e che vengono dalle vene,
dai polmoni, dal cuore. Nelle storie di miniera, avere la
miniera in corpo è la silicosi. Avere il museo in corpo è
invece l’ossessione autobiografica di chi lotta contro la
smemoratezza.
Il corpo è come ‘posseduto’ dal bisogno di racconto, come
nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge tradotta
- nel messaggio finale- da Primo Levi, che la fece sua:
“Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore”
Per Riva la volontà di testimonianza coincide quasi con la
vita, è ‘la sua malattia’, nel museo c’è il tempo che sta
nel fondo dei suoi ricordi del suo essere quello che è. Per
me vedere il museo incorporato nella memoria del testimone
è stata una esperienza forte di alterità. Quasi surrealista
( la comunicazione museale moderna recupera gli scarti e i
giochi di scombussolamento dei codici) perché quei bachi li
vedevo addosso a Riva, alle sue donne di casa, lo vedevo impugnare
la sua zappa. Ma questo mio vedere il museo attraverso la
sua vita è qualcosa che ai miei occhi lo ‘ri-allestisce’.
La sua voce, al contrario di quelle delle audio guide (un
po’ professorali, neutre, con parole di gergo, lunghe) è ‘paesaggio’
museale, riveste gli oggetti, li anima come in un racconto
di Andersen.
La visita di Riva è quasi estrema, ma dice che il Museo non
comunica senza far vivere la differenza, la sofferenza, la
distanza dal presente. Se non inquieta il museo finisce per
essere edificante, tranquillizzante.
Nell’ultima conferenza, Irving Goffman [5],
ci lasciò un messaggio critico forte sulla comunicazione dell’intellettuale
come atto istituzionale, intriso di potere. E’ come se Riva
parlando per coloro che Bosio chiamava ‘ceti non egemonici’
rompesse il circuito del potere istituzionale, quello che
spesso abbiamo noi ‘professori’.
La comunicazione riuscita lascia una traccia di dolore, una
ferita si riapre, il mondo appare meno concluso, e ancora
aperto al fare umano.
L’esperienza più forte e surreale di comunicazione museale
che mi è capitato di provare, è stato nel museo Guatelli,
che non era una casa museo, ma un museo-casa, incorporava
generazioni di antenati contadini mezzadri che avevano vissuto,
faticato, sofferto e amato proprio lì. Ettore Guatelli ci
teneva a dire anche ‘amato’ per non fare dei mezzadri dei
marziani. Diceva che sua mamma e suo papà facendo l’amore
nel pomeriggio facevano scricchiolare il letto e venivano
sentiti dalla cognata arcigna e gelosa che poi rimproverava
lei, e le diceva che non lavorava abbastanza. Storie di famiglie
multiple co-residenti.
Nei locali, oggi parte del percorso museale Ettore diceva,
e noi ripetiamo ad altri ora che è morto, qui sono nato io,
qui dormivano i miei genitori, questa era la stanza dello
zio Josfet, quello che all’ospedale cercava i vitelli sotto
il letto, tanto era abituato a vivere in simbiosi con la stalla.
Mi colpì soprattutto un giorno,
in cui transitavamo con i miei allievi di Siena a fianco della
casa padronale, ed Ettore ebbe un guizzo di memoria: “ lassù,
dietro le persiane della casa padronale, a due passi da quella
dei contadini, c’era spesso la padrona che ci controllava,
io andavo sulla strada, mi vedeva: Ettore?! Che fai Ettore?!
Non andare alle noci eh! - No signora padrona vado
sulla strada provinciale, mi ha chiamato lo zio…”.
In quello spazio-tempo narrativo il passato era tornato, e
noi avevamo sentito l’emozione dolorosa di un bambino tornato
ad aggirarsi tra i fantasmi della sua infanzia, avevamo capito
il senso di limite e di servitù che un cucciolo d’uomo contadino
apprendeva come normale nel crescere in quel mondo. Una sorta
di dolore del tempo, di bisogno di pietas, di scuse
per non esserci stati, per non avere protestato contro quell’ingiustizia,
per noi che eravamo stati testimoni di questa improvvisa comparsa
del passato nel presente. E’ molto difficile fare i conti
col passato storico e con le sue condizioni sociali e morali.
Ma senza una ‘ferita nella sensibilità’ non c’è speranza.
3. Il racconto e il dolore
La mia vita di studioso, nella parte che ho trascorso nel
senese e in Toscana, è stata basata per molti anni, e via
via ne ho preso coscienza, sul raccogliere le voci degli altri,
fare mie testimonianze di dolore e di lotta, storie di vita
di donne e di uomini, ma soprattutto di donne. In questa terra,
io che venivo dalla Sardegna dei minatori e dei pastori, ho
imparato il valore della memoria dei contadini. Ne ho scritto
largamente, ma ho ancora un debito di restituzione perché
questa memoria, che ho avuto l’opportunità di ascoltare, per
le caratteristiche del mio mestiere di antropologo ‘ascoltatore
di voci’, si è inabissata nella dimenticanza. E il sospetto
che dà vita alla mia riflessione è che le donne , produttrici
della memoria nelle mie interviste, le donne che sole raccontano
la vita, l’amore, la nascita, il dolore, siano state anche
le principali protagoniste della dimenticanza. In ogni caso
è facendo ricerca a Siena che ho capito che la memoria della
vita quotidiana è propria delle donne, che gli uomini raccontano
la leva e la guerra, la militanza e la lotta, ma non il mondo
della vita. Nel mio insegnamento a Firenze ho introdotto sistematicamente
le interviste ai propri nonni da parte degli studenti che
fanno un secondo esame di antropologia. Esse mostrano che
sono ancora vive le radici contadine della Toscana, che tanti
nonni erano contadini, che l’esperienza della guerra, dei
tedeschi in casa, dello sfollamento, delle stragi nei paesi
di campagna e di montagna è ancora una ferita aperta nella
memoria, che spesso i nipoti (talora scoprono la storia dei
nonni nel fare l’esame di antropologia) accolgono come una
narrazione nuova e una nuova fondazione, le storie dei nonni.
E’ stato François Lyotard , filosofo francese della post-modernità,
a parlare di ‘riaprirsi della ferita’ come segno della autenticità
delle esperienze. [6]
Anche io ho incorporato qualcosa che ora sento anche mio,
insieme alle storie fondatrici della mia vita mi sento ‘abitato’
dalle memorie dei testimoni che ho ascoltato, cui ho dato
forse una promessa di ‘entrare nella storia’. Sono abitato
soprattutto da storie di donne, e di esse sono un emblema
due grandi storie che sono diventate libri.
La storia di Dina [7] e la storia di Delia
[8], entrambe contadine mezzadre l’una a
San Gimignano, e l’altra a Buonconvento, una protagonista
di una lotta familiare contro la suocera che la porta a lasciare
la terra, l’altra protagonista di un’esperienza militante
e formativa che la porta a diventare funzionaria del Partito
Comunista e deputata regionale. La prima, sollecitata dall’antropologa
Valeria Di Piazza, si fa narratrice orale e la sua lingua
trascritta si traduce in una sorta di letteratura vernacolare
ricchissima, la seconda impara a governare la scrittura e
racconta, scrivendo, la propria vita come esperienza da trasmettere,
tra dolore e pudore.
Quelle storie abitano e guidano la mia memoria di studioso
che tanti anni fa è venuto dal mare e che ha trascorso gli
anni dei suoi studi nella nuova terra di adozione a raccogliere
voci dalla memoria. Straniero, abitato da memorie native.
Maschio abitato da memorie di donne . Mistero della narrazione
che si fa carne e sangue.
4. Mi pregavano di raccontare
L’espressione di Ernesto De Martino nelle Note lucane
[9] relativamente alla “volontà di storia
dei contadini lucani” ci ricordano i nostri temi:
“mi pregavano di dire, di raccontare, di rendere pubblica
la storia dei loro patimenti…Dite, raccontate…Essi vogliono
entrare nella storia…anche nel senso che…le loro storie personali
cessino di consumarsi privatamente…siano notificate al mondo,
acquistino carattere pubblico…e formino così tradizione e
storia” (De Martino …)
De Martino si riferisce a una Lucania anni ’50 che è entrata
nel mito di fondazione dell’antropologia italiana, e che resta
una grande metafora della ricerca, ma che va aggiornata alla
nuova democrazia antropologica e narrativa che viviamo a partire
dagli anni ’90 del Novecento : ci sono nuove soggettività
che si esprimono autonomamente. Dare ad essi la propria voce
cede il posto a dare loro direttamente la voce.
Su questo si aprono nuove riflessioni. L’antropologia tende
a mettere in risalto gli ‘attori sociali’ e la loro ‘agency’
. Anche le scene del racconto e della testimonianze ne sono
mutate. Resta fondamentale per me il passo di Ernesto De Martino
che più volte ho definito il mio giuramento di Ippocrate:
“Ma io entravo nelle case dei contadini pugliesi come
un ‘compagno’, come un cercatore di uomini e di umane dimenticate
istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria
umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini
incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui
migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che
ritrovavo” [10] (pag. 59).
Non è cambiato molto nel metodo della ricerca, nella sua etica,
ma è il protagonismo dei soggetti che entra ora nel mondo
globale, si fa complesso, chiede contesti critici nuovi.
Il messaggio che connette il racconto con il dolore si fa
anch’esso difficile, continuamente negoziato. Vale anche per
me quel che ho scritto a proposito di Ascanio Celestini, una
pratica diffusa di riappropriazione della voce da parte della
gente della vita quotidiana non c’è stata. Nonostante i loro
libri, l’uno scritto l’altro trascritto, Delia e Dina sono
rimaste nella nostra mediazione di studiosi, nella coscienza
dei nostri allievi. Potevamo fare di più perché narrassero
direttamente e pubblicamente? Forse potevamo. Certo è una
strada che non possiamo separare da quella della loro presenza
nei nostri studi, nei nostri ricordi. Il potere della “conferenza”
è nella nostra voce di accademici e intellettuali, noi raccontiamo
i loro racconti, come gli attori, come gli ‘storytellers’.
E così si confondono sono ambigui i discorsi. Chi è il Vecchio
marinaio? E’ Dina che ha raccontato il dolore o sono io che
lo trasmetto?
Siamo ancora davanti alla figura fondativa della narrazione
, la riprendiamo dall’originale e da un’altra traduzione (di
Beppe Fenoglio):
Since then, at an uncertain hour,
That agony returns:
And till my ghastly tale is told
His heart within me burns
Da quel momento
A un’ora imprecisa,
Quell’agonia mi torna;
E fino a che non ho detto la mia storia
Di morti, dentro il cuore mi brucia
La traduzione di Fenoglio sembra ancora più
vicina al messaggio di Levi e al nostro problema: agonia,
storia di morti. Al centro sono le parole ‘tale’, ‘storia’.
Morti, sono anche molti testimoni che hanno raccontato e che
abitano le nostre memorie di studiosi. Da qualche anno l’esigenza,
la missione forse , di dare una nuova pubblicità alla storia
di Dina Mugnaini mi chiama all’attenzione , si fa presente.
E chiama la mia attenzione a una filologia e a una filosofia
delle fonti del racconto ‘sociale’. Richiamare l’attenzione
alle differenze, agli originali, alla scrittura popolare,
al racconto della gente comune, non è ancora acquisito dalla
cultura corrente. E’ come se le voci comuni occupate da Raffaella
Carrà, da Maurizio Costanzo, da Castagna, da Maria De Filippi,
che hanno costruito il loro successo televisivo su di esse,
chiedessero di far tacere il potere più forte del messaggio
mediatico per essere sentite. E che solo nel silenzio di quello
strumento potente di emissione possa ritrovarsi un filo, un
senso, che dica anche le ambiguità, le autonomie. Dal punto
di vista dei mass media e dell’editoria la voce dell’intervistato
e quella dell’intervistatore studioso non hanno molta differenza
di potere, sono entrambe marginali. Se la televisione tacesse
si potrebbero meglio definire gli ambiti del racconto, i portavoce
e le voci dirette. Ettore Guatelli ha sempre cercato di essere
ascoltato in televisione, ha fatto due apparizioni da Maurizio
Costanzo, e poi è uscito dalla scena. Chi vede i suoi racconti
del museo girati da film maker appassionati e curiosi, vede
che ha una grande presenza scenica, immediatezza e sincerità
di racconto. Avrebbe ‘bucato’ lo schermo se lo schermo non
fosse stato già occupato .
Lo storyteller professionista trasforma il racconto in consumo.
Non è destino che sia così; forse può non farlo, come succede
talora per le arti che la forza della vita e della morte si
trasmetta per la potenza quasi sciamanica di un’opera. Ciò
che dirime è il rapporto tra storia e dolore, tra racconto
e ferita nella sensibilità.
La memoria senza il conflitto, senza il dolore, senza la morte
diventa edulcorata e buonista, invece la storia fa salti,
apre scenari drammatici.
Contro la smemoratezza e contro il passato come ‘macchietta
vernacolare’, contro le epiche ideologiche che ricostruiscono
ad hoc, che danno una idea del moderno come progresso e non
come tendenza alla catastrofe, la polifonia dei racconti,
la pluralità delle veglie è forse l’unica possibilità di contrasto
alle voci unidirezionali che ci vengono da luoghi senza contatto
con la vita.
Una studentessa dei miei corsi di Firenze che ha intervistato
un prozio contadino, reticente a raccontarle la sua vita perché
non si sentiva legittimato a farlo per una ricerca universitaria,
dopo avere raccontato l’infanzia e il lavoro tra guerra e
dopoguerra si rende conto di avere raccontato la sua storia
e conclude:
“Spero tu faccia sentire la mi storia a quarche d’uno di importante…o per lo meno a quarche d’uno perché la mi storia mai nessuno si è interessato fino a oggi…e la storia quella con la esse maiuscola e la un si fa solo con le storie di quelli belli ricchi e signoroni ma con quelli che gli hanno patito la fame come me e che di signore e un aveano proprio nulla”.
La nipote nel suo commento lo definisce un
antastorie. Con i ‘cantastorie’ della strage di Sant’Anna
di tazzema avevamo cominciato. Forse la parola ‘cantastorie’
(ma anche la parola ‘contastorie’ presente con un genere diverso
ma sempre epico nella cultura popolare), richiamando alla
nostra cultura ‘altra’, ai generi del mondo pre-moderno, viene
usata per rimarcare l’alterità della narrazione, rispetto
ai linguaggi comunicativi prevalenti, e viene preferita alla
parola ‘storytelling’, che annuncia un nuovo anglismo,
dal campo semantico largo e ambiguo, almeno nel suo trasferimento
nella lingua italiana.
La parola ‘cantastorie’ è usata in un senso metaforico ed
è utile a rivendicare il radicamento delle ‘umane dimenticate
istorie’ nel nostro humus culturale vitale.
Note
1]
P.Clemente, F.Dei, a cura, Poetiche e politiche del ricordo.
Memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana,
Roma-Firenze, Carocci – Regione Toscana, 2005.
2] P.Clemente, Ascoltare
in Antropologia Museale 22, 2009, L’antropologo che intervista
.Le storie della vita in M.Pistacchi ( a cura) Vive voci.
L’intervista come fonte di documentazione, Roma, Donzelli,
2010.
3] F.Mugnaini, La
mazzasprunigliola . La tradizione del racconto nel Chianti
senese, L'Harmattan Italia, Torino, 1999.
4] P. Clemente, L’undicesima
glossa: racconti sul raccontare, in V.Ongini, a cura,
Chi vuole fiabe, Chi vuole?Voci e narrazioni di qui e
d’altrove, Firenze, Idest, 2002.
5] I.Goffman, La
conferenza in Forme del parlare, Bologna, Il Mulino,
1987.
6] F. Lyotard, Glossa
sulla resistenza in Il postmoderno spiegato ai bambini
, Milano, Feltrinelli, 1987.
7] Valeria Di Piazza,
Dina Mugnaini, Io so’ nata a Santa Lucia.Il racconto autobiografico
di una donna toscana tra mondo contadino e società d'oggi,
Castelfiorentino, Società storica della Valdelsa, 1988.
8] Delia Meiattini,
Le barriere invisibili, storia di una donna contadina
dalla terra alla politica, Siena, Tipografia senese,
Comitato di Ente PO Comune di Siena, 1997.
9] E. De Martino,
Furore simbolo valore, Milano, Feltrinelli, 1980.
10] E. De Martino,
Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni
in R.Brienza, a cura, Mondo popolare e magia in Lucania,
Roma – Matera, Basilicata editrice, 1975.
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