Il counseling e le culture: le culture del counseling
Massimo Giuliani (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.2 Aprile-Giugno 2007
COUNSELING INTERCULTURALE:
L’IDENTITÀ MISTA DI BAMBINI E ADOLESCENTI IMMIGRATI O ADOTTATI
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Presidente dell'Associazione Shinui di Bergamo - Centro di Consulenza sulla Relazione (www.shinui.it). Direttrice della Scuola di Counseling Sistemico di Bergamo, Responsabile del corso di Mediazione Familiare e del corso di specializzazione in Counseling Interculturale. Responsabile scientifica dei corsi regionali sul Counseling Genitoriale per gli operatori dei Centri per le Famiglie della Regione Emilia Romagna.
Introduzione
I bambini e ragazzi figli di immigrati rappresentavano nell’anno
scolastico 2005/2006 il 4,8% del totale degli allievi nelle
scuole italiane ed è questo un dato in continua crescita [1].
In Italia la seconda generazione di figli di immigrati è diventata
una realtà con delle caratteristiche specifiche, ma ancora
il tema della loro identità mista e delle difficoltà che si
accompagnano a questa è poco dibattuto. Gli insegnanti si
trovano a gestire situazioni complesse senza avere gli strumenti;
l’istituzione scolastica si occupa di insegnare la lingua
italiana, ma spesso non vede il disagio che queste anime portano
con sé, anche quando sono nate qui, anche quando trascorrono
anni in una terra che non è propria né straniera. Se aggiungiamo
a questi bambini quelli che vengono accolti nelle adozioni
internazionali, il numero diventa veramente consistente.
Tuttavia, quando un sedicenne, figlio di mamma filippina,
si suicida lanciando un chiaro messaggio di sofferenza e di
insostenibilità della diversità, giornali e TV attribuiscono
le motivazioni al fatto che “i compagni di scuola lo prendevano
in giro dicendogli che era gay”.
Bullismo e omosessualità, due temi “di moda”.
Individuare le specifiche motivazioni che hanno spinto un
adolescente al suicidio è un’impresa, se non impossibile,
molto difficile. Dalle poche e taglienti parole scritte dal
ragazzo, solo il 7 aprile leggevo, di Irma Tobias, presidente
dell’associazione lavoratori filippini in Italia, una breve
lettera in una pagina secondaria de il Manifesto.
Il messaggio lasciato dal ragazzo era: “Non mi sento accettato
né integrato, mi sento diverso”. Irma Tobias denuncia il tormento
che affligge molte madri migranti senza trovare un’eco, in
una società sorda, inconsapevole dei dolori e dei rischi che
ciò comporta. Si chiede Tobias: “Questi nostri ragazzi sospesi
tra due mondi distanti e nessuno che si sforza di capire,
di agire?” Nelle successive poche righe ho trovato una descrizione
fedele e acuta del fenomeno: ”Crescere dentro i valori della
tua famiglia di provenienza, dentro gli odori, le abitudini,
i sapori, gli accenti di un mondo che, seppur lontano, ti
appartiene, che è dentro di te, è nei tuoi lineamenti, nei
colori dei tuoi occhi, nel viso di tua madre. E nello stesso
tempo crescere in un mondo, quello dove vivi, cresci, vai
a scuola, dove è importante essere accettato, esserne parte,
e quando pensi di avercela fatta, di essere uno fra tanti,
ecco la ‘sciagura’…” (il Manifesto, 07/04/07, pag. 2). In
questo caso la sciagura è “il luogo comune a tutte le latitudini
della presunta omosessualità”. Infine, aggiunge Tobias: “Questo
tormento spacca i cuori dei nostri ragazzi, che non li fa
sentire né di qua né di là, un po’ figli di immigrati, un
po’ cittadini italiani, la società non lo comprende, non vuole
coglierlo” (ibidem).
È proprio a proposito di questo conflitto identitario, tra
“il qua e il là”, che il presente contributo si sofferma.
L’articolo analizza i possibili effetti emotivi-comportamentali,
suggerendo letture alternative a quella psicopatologica e
illustrando le modalità con cui questi disturbi possono essere
trattati in un contesto di counseling.
Alcune storie
Rashida [2] è nata in Italia,
da papà e mamma tunisini, ma all’età di due mesi è stata portata
nella terra natale dei suoi, dove sarebbe rimasta con i nonni
materni. I genitori dovevano sistemarsi, lavorare, gettare
le basi per poter costruire una famiglia. All’età di dieci
anni tornò in Italia per ricongiungersi con i suoi e con una
nuova sorellina di dieci mesi. Durante quel lungo periodo,
Rashida aveva visto i genitori circa una volta ogni due anni,
per un mese scarso, d’estate. I nonni erano da sempre le figure
genitoriali e la Tunisia era il suo mondo.
Rashida era stata segnalata a Shinui dalla scuola, dopo un
anno di permanenza in Italia [3].
Le insegnanti erano preoccupate perché vedevano Rashida apatica,
demotivata, chiusa in sé stessa e isolata. Il suo andamento
scolastico non era proficuo e la ragazzina non dava segni
di miglioramento. L’operatrice, che cominciò ad accompagnare
Rashida a casa e nei compiti, instaurò presto un buon rapporto
di fiducia. Un giorno, la ragazzina le confidò il suo desiderio
di morire e la preoccupazione perché vedeva cose e sentiva
voci “strane”. Si decise quindi per un percorso di counseling
familiare.
Vitali è nato in Bulgaria; cresciuto in un istituto, all’età
di quattro anni e mezzo è stato adottato da una coppia italiana.
All’età di nove anni la neuropsichiatria infantile inviò la
famiglia a Shinui, ritenendo utile un lavoro attorno al tema
dell’identità mista. Vitali veniva seguito dalla psicologa
e dal neuropsichiatra per problemi di iperattività e di balbuzie.
Il bambino stava, tuttavia, peggiorando: aveva cominciato
ad avere scatti improvvisi di ira anche violenti: ad esempio,
un paio di volte aveva ribaltato il tavolo con tutto ciò che
c’era sopra senza apparentemente nessuna ragione; oppure,
una volta prese un compagno per il collo con tale impeto che
l’insegnante temette che lo strangolasse. Vitali poi si pentiva,
chiedeva scusa, era rammaricato e desolato, ma, incontrollabili,
i “nervosismi” [4] si presentavano
creando scompiglio, paura e danni.
La comparsa di “allucinazioni” (Vitali vedeva passare dalla
finestra della classe persone che nessun altro riusciva a
vedere) convinse gli operatori del servizio a provare un’altra
strada terapeutica. Questo bambino non parlava del suo paese
natale né ricordava parole nella sua lingua d’origine. Non
aveva alcun ricordo di nulla.
Quando alla fine del primo incontro di consultazione chiedemmo
che tipo di aiuto si aspettavano da noi, i genitori risposero
“un aiuto per Vitali, perché sia più tranquillo e per migliorare
il clima in casa”. Il figlio, invece, esclamò: “Vorrei venire
a giocare!”. Tuttavia, con l’apertura del secondo incontro,
Vitali esordì: “Vorrei sapere chi era la mia mamma e perché
mi ha lasciato”.
Fatmir arrivò dall’Albania in Italia otto anni fa, all’età
di due anni, con papà e mamma. Sua sorella nacque dopo l’emigrazione.
I suoi genitori lavoravano regolarmente e avevano una rete
familiare estesa, poiché altri fratelli e sorelle, già sposati,
li avevano preceduti. La famiglia manteneva stretti rapporti
con la terra d’origine, trascorrendo là ogni anno le vacanze
estive, Fatmir e la sorellina rimanevano tutto il periodo
delle vacanze scolastiche insieme ai nonni ed altri familiari.
Pur conoscendo bene la lingua e vivendo periodi significativi
nella propria terra natale, Fatmir nascondeva le sue origini
e, al rientro in Italia, non gradiva condividere con i compagni
e gli insegnanti i racconti delle esperienze estive.
Le maestre segnalarono il bambino a Shinui chiedendo un aiuto
dopo scuola sia nello studio che dal punto di vista educativo,
poiché il rendimento scolastico era scarso, l’impegno discontinuo
e l’attenzione pressoché inesistente: Fatmir faticava a restare
seduto in silenzio per più di un quarto d’ora e spesso diventava
il protagonista di disordini trascinando con sé alcuni allievi
particolarmente vivaci e “problematici”. Le insegnanti stavano
considerando di fargli ripetere la quinta elementare, poco
fiduciose nella capacità del ragazzino di inserirsi alle scuole
medie. Al contempo, erano ben consapevoli delle difficoltà
che sarebbero derivate dalla presenza di Fatmir in una classe
con compagni più piccoli; temevano la sua incontenibilità
e prevedevano che avrebbe ulteriormente danneggiato il clima
generale. Sostanzialmente il ragazzino era diventato un disturbo
e la bocciatura un tentativo vano di aggirare l’ostacolo.
Maria Sol è stata adottata dalla Bolivia quando aveva nove
mesi ed è cresciuta in un paesino del bergamasco. Era stata
prelevata da un orfanotrofio nel quale aveva passato tutta
la sua breve vita. I genitori adottivi non potevano avere
figli a causa dell’infertilità della donna e adottarono un
altro figlio maschio tre anni dopo, da un paese del continente
asiatico. Con l’arrivo del fratellino, Maria Sol incominciò
a balbettare, sintomo che tuttora, a diciannove anni, permane.
Alla signora Rossi, sua madre, era stato segnalato il mio
nome da uno psichiatra e da una psicologa, che avevano visto
la ragazza e dichiarato, a detta della signora, “di non essere
in grado di curarla perché non conoscevano la sua cultura
di origine né quel genere di sintomi”: Maria Sol parlava con
i morti i quali le raccontavano delle storie, sentiva delle
voci e, recentemente, aveva incominciato a vederli.
Al primo incontro, mi si presentò alla porta dello studio
una ragazza che, malgrado i suoi anni, ne dimostrava nel complesso
intorno ai quindici e, a giudicare dall’espressione del viso,
poteva essere ancora una bambina. Nel vederla feci un grande
sforzo per salutarla in italiano: Maria Sol era vestita con
una camicia variopinta sudamericana, era pettinata con due
trecce nere dai capelli lisci e lunghi, portava sandali, era
bassa di statura e aveva un inconfondibile sguardo indio dagli
occhi a mandorla.
Durante l’incontro emerse che Maria Sol si vedeva e si sentiva
boliviana, ma non poteva appartenere a quel popolo perché
cresciuta in Italia. Vedendo per strada gruppi di musicisti
sudamericani si fermava a sentire i suoni di una terra lontana,
sconosciuta e nel contempo che sentiva propria. Avrebbe desiderato
imparare lo spagnolo e, a volte, sognava con un viaggio nel
suo paese natale.
Contemporaneamente il suo mondo era quello italiano; la sua
storia di vita, per essere narrata, conteneva i racconti della
bergamasca. Ma qui più volte non si sentiva accettata, bensì
rifiutata [5].
Quando i diversi spezzoni identitari non possono convivere
Cosa hanno in comune le storie riportate qui sopra?
In tutti i casi una parte significativa dell’identità, che
riguarda le proprie origini, ha subito un mutamento e fatica
a convivere con altri aspetti identitari.
Nella prima storia, la ragazzina è stata strappata dal suo
mondo; nella seconda, il passato, anche se rappresenta la
metà della vita, è stato rimosso; nella terza, il bambino
cerca di nascondere le sue origini e di “camuffarsi”, sembra
rifiutarle; nella quarta, una parte dell’identità che la ragazza
porta visibilmente e inevitabilmente nel proprio corpo è totalmente
sconosciuta.
Le origini possono anche essere dimenticate, oppure troppo
lontane e mediate dai genitori (come nei casi di bambini nati
in Italia di genitori che tornano nel paese d’origine ogni
tanto, mantengono la lingua, usi e costumi). Ad ogni modo,
sono tutti casi in cui la convivenza dei diversi spezzoni
dell’identità è faticosa, discontinua, disarmonica e squilibrata.
Radici strappate, spezzate, dimenticate, rimosse, rifiutate,
sconosciute… Analogamente a quanto accade alle piante, quando
questo succede, la crescita viene danneggiata e, nell’essere
umano, si aggiungono sofferenza e disagio. Nei bambini, il
senso di inadeguatezza, legato alla diversità, e la quantità
di stimoli, spesso apparentemente disarmonici, incompatibili
oppure effettivamente in conflitto, invadono il loro vissuto
creando ansia ed emozioni di tristezza. Sintomi come balbuzie,
difficoltà di concentrazione, scarso o discontinuo rendimento
scolastico, problemi comportamentali e relazionali sono ricorrenti.
Sintomi apparentemente psicotici, come allucinazioni visive
e uditive, spesso compaiono. Queste visioni creano paura e
angoscia perché, da un lato, i ragazzini stessi sono consapevoli
della loro estraneità e, dall’altro, l’ambiente circostante
li avverte come segni allarmanti.
I rischi dell’identità doppia o della “doppia appartenenza”
Spesso il “qua” e il “là” diventano due realtà diverse, lontane,
incompatibili, antagoniste. Di conseguenza, diventa sempre
più difficile appartenere a tutti e due i posti e impossibile
sceglierne uno. Bambini e ragazzini figli della migrazione
si sentono sempre più destinati a non essere “né di qua né
di là”, perdendo il senso del sé, i punti di riferimento,
la possibilità di dare un senso alla propria identità.
La doppiezza crea dicotomie, inserisce nell’ottica di “o-o”;
“le dicotomie chiudono e costringono a pensare e sentire:
• in modo limitante: ci sono apparentemente solo due possibilità;
• in modo polarizzato: sulle due estremità di un asse, anziché
su un continuum;
• in modo superficiale: senza lo spessore della complessità
e della pluralità;
• in modo dualista: lo sguardo dell’occhio destro si mantiene
separato da quello del sinistro, e non si costruisce una visione
d’insieme.” (Edelstein, 2007, pag. 169).
Inoltre, due identità o appartenenze portano facilmente a
paragoni. Nei paragoni emerge di solito una prospettiva normativa,
che presuppone l’esistenza di un modello ideale al quale gli
altri vengono paragonati. Automaticamente, i modelli diversi
o le culture “altre” diventano incompleti, deficitari, talvolta
devianti o patologici (Fruggeri, 2001).
Inevitabilmente si arriva alla conclusione che una cultura
sia meglio dell’altra. I bambini si trovano a dover scegliere,
costretti a rinunciare ad una parte della loro appartenenza,
a rifiutarla, a rimuoverla, a dimenticarla. Spesso “vince”
la cultura dominante e i bambini si trovano a portare con
loro un’appartenenza nei confronti della quale nutrono sentimenti
ambigui: oscillano fra l’amore e il rifiuto, fra l’orgoglio
e la vergogna.
Nel tentativo di recuperare spezzoni perduti, con una prospettiva
normativa ci si trova da capo: o l’una, o l’altra… Ma nessuna
si può cancellare.
In età adolescenziale, questi conflitti identitari creano
reazioni di ribellione che possono sfociare in fenomeni di
massa violenti contro la cultura dominante.
Identità mista
Parlo di identità mista perché questo concetto permette di
uscire dal dualismo, dalla dicotomia e dalla prospettiva normativa
e consente di entrare in una prospettiva pluralista.
Quest’ultima prospettiva ha come punto di riferimento la molteplicità:
considera ogni modello e ciascuna cultura viene analizzata
in base alle proprie caratteristiche e funzioni senza essere
oggetto di paragone con nessun modello ideale (Fruggeri, 2001;
Edelstein, 2007).
In questo modo si aprono molteplici possibilità e le micro
culture o appartenenze consentono ai bambini di essere contemporaneamente
tutti uguali e tutti diversi. Si può parlare di nazionalità,
di etnia, di religiosità o di laicità, ma anche di famiglie,
di gruppo classe, di maschi e di femmine, di sottogruppi,
tutti portatori di culture coesistenti.
Ogni singolo individuo appartiene a più gruppi e diventa più
facile superare i rischi di:
a) sentire di non appartenere a nessun gruppo;
b) appartenere ad un gruppo minoritario, penalizzato;
c) paragonarsi ad un modello ideale, uniforme, dominante;
d) sentirsi estraneo nella propria terra, in una terra dove
si vive, si gioca, si studia, ma inevitabilmente si rimane
al di fuori.
L’intervento di counseling
L’obiettivo
L’obiettivo dell’intervento di counseling è di consentire
ai bambini di riconciliarsi con le diverse sfaccettature della
loro identità per poter conviverci senza vissuti di inadeguatezza,
senza vergogna, senza vuoti. E’ possibile creare un insieme
ricco e armonioso, una complessità con la quale si può convivere
e nella quale si riescono a trovare nuovi significati.
La fase di consulenza e il contratto di lavoro
Il primo passo nel percorso di counseling, in conclusione
alla fase di consulenza, è quello di esplicitare il conflitto
vissuto dai ragazzi, esprimere ciò che loro non riescono ad
esprimere. Ad esempio, a Rashida e a tutta la sua famiglia
si potrebbe dire:
“Rashida sta vivendo una situazione particolarmente difficile:
è cresciuta in Tunisia, il suo mondo per ora è quello. Fa
fatica a sentire un senso di appartenenza a questo mondo.
Deve anche appropriarsi della sua famiglia che per forza sente
estranea. Non è mancanza di amore nei vostri confronti, ma
una parte della sua identità le è stata strappata e questo
fa male…”
E’ questa un’azione non solo empatica, ma un intervento che
consente di dare senso al disagio, di identificare e focalizzare
il malessere, di dare un nome alla sofferenza.
L’obiettivo di costruire dei ponti per poter convivere con
le diverse parti della propria identità va proposto e concordato
con tutti i membri della famiglia. Queste comunicazioni non
solo aiutano a conoscere il percorso che verrà svolto, ma
danno un immediato senso di sollievo.
A Rashida e ai suoi genitori si potrebbe dire inoltre:
“Bisogna trovare il modo per aiutare Rashida a poter stare
qui senza sentire che il suo pezzo tunisino non ci sia. Bisogna
anche curare la ferita dello strappo. E questo si può fare.
Si possono mettere insieme i pezzi, come in un puzzle. Ne
scaturiranno probabilmente immagini belle che non vi aspettavate”.
All’interno della proposta descritta emerge una ridefinizione
del disagio riportato: i bambini non sono malati, ma portano
con sé frammenti identitari frantumati, spezzati, scollegati.
La fiducia nel poter creare continuità e armonia fornisce
un ulteriore sollievo.
La depatologizzazione non rimane però implicita: il counselor
deve dichiarare che il bambino non è malato e che queste visioni
o voci rappresentano quel mondo perduto, sconosciuto o strappato:
“Vostra figlia non è malata, state tranquilli! È solo sofferente,
ha bisogno di riavvicinarsi a ciò che le è stato tolto. Ci
sono molti modi per farlo, non solo quello di tornare indietro,
nemmeno quello di cancellarne uno dei due”.
Il lavoro va co-costruito con l’operatore, il bambino e la
sua famiglia. Nel caso di famiglie adottive, si può dichiarare
che è un dono che si fanno reciprocamente: i genitori consentono
ai figli di fare un viaggio alla scoperta di pezzi dimenticati
o perduti; i bambini raccontano e riportano ai genitori pezzi
a loro sconosciuti e lontani. Il nome “straniero” o i tratti
somatici che il figlio porta con sé, passano a far parte della
famiglia e non sono più un elemento che allontana, scollegato,
a volte minaccioso. L’identità familiare può così mutare e
arricchirsi, aprendo le porte alle origini di uno dei suoi
membri. Con Vitali questo ha consentito ai genitori di non
sentirsi estranei al suo percorso e nemmeno minacciati dalla
domanda del figlio che chiedeva chi fosse sua mamma e perché
lo avesse abbandonato… Per Vitali è stato un modo per fare
questo viaggio senza sensi di colpa nei confronti dei suoi
genitori adottivi.
Anche in altri casi ciò va dichiarato. Con Rashida, che sentiva
estranei i propri genitori e li vedeva responsabili dell’allontanamento
dai suoi cari, una ridefinizione del genere l’ha aiutata a
riappacificarsi:
“Trovo bello che siate tutti insieme qui per provare a stare
meglio. Voi, come genitori, state facendo tutto ciò che è
nelle vostre possibilità per avvicinarvi a vostra figlia.
Anche il venire qui da me è come un regalo. Rashida, per conto
suo, nel rendersi disponibile, vi sta già donando una parte
di sé”.
In questo passaggio si aggiunge un ulteriore elemento importante:
Rashida non è il problema, ma è tutta la famiglia che fa fatica.
Una visione sistemica consente a tutti di sentirsi protagonisti
e toglie il peso che spesso grava esclusivamente sui ragazzi.
Questo è parte della depatologizzazione.
Il lavoro con gli oggetti
Alla fine del primo incontro ci si lascia con qualcosa da
fare. Non basta una ridefinizione, un inquadramento della
problematica e la condivisione dell’obiettivo. Il passo successivo
è quello di iniziare a collegarsi con i pezzi mancanti.
Nel caso di Rashida, le chiesi di trovare delle foto dei nonni
e di appenderle accanto al suo letto per poterle vedere prima
di addormentarsi, nei momenti in cui era da sola oppure in
quelli in cui si sentiva triste e soffriva la loro mancanza.
Le domandai, inoltre, se aveva qualche oggetto o indumento
della nonna. In effetti, in casa c’era un vestito della nonna
che a volte usava la mamma. La consegna fu quella di portarsi
il vestito a letto e di dormirci insieme, indossarlo oppure
avvolgerlo attorno a sé, metterlo sotto il cuscino o poggiarlo
sui piedi.
È questo un lavoro con oggetti che aiutano a collegarsi con
le “assenze”, ad avvicinarsi e a integrarli in sé.
Con Vitali il lavoro è stato leggermente diverso. I genitori
gli hanno sempre detto la verità e, di conseguenza, non riuscivano
a fare altro che dichiarare che non sapevano chi fosse la
mamma biologica, aggiungendo che riuscivano soltanto a formulare
ipotesi sulle motivazioni dell’abbandono (formulandone ovviamente
soltanto di funeste), io decisi di dirgli:
Counselor: “Noi possiamo aiutarti. Vediamo un po’. Prima cosa,
sappiamo che la tua mamma biologica era bulgara.”
V.: “Sì!”
C.: “Di conseguenza, sappiamo che tu sei nato in Bulgaria,
una parte di te è bulgara”.
V. (annuendo e sorridendo): “Sì!!”
C.: “Allora, proviamo a fare un viaggio nel passato, a ricordare
esperienze e vissuti che ti avvicineranno alla tua mamma biologica.
La memoria fa bene, cura. Proviamo a dissipare la nebbia che
c’è fra la tua vita qui in Italia e quella in Bulgaria, costruendo
un ponte. Oggi le tue parti bulgare sono la metà della tua
vita! In futuro queste parti saranno sempre più piccole perché
tu avrai sempre più pezzi italiani, ma quella, oggi, è grossa
e bisogna andare a recuperarla”.
V.: “Sì! Ma come si fa?”
C:: “Magari puoi portare per la prossima volta fotografie
della Bulgaria. Ne hai?”
I genitori adottivi dicono di averne alcune da quando sono
andati a prenderlo a Sofia.
C.: “Splendido! Portatele e inizieremo questo viaggio verso
il passato”.
Genitori: “Ma sono solo quelle da quando siamo andati noi,
lui non ha nulla che appartiene al periodo precedente”.
C::”Va bene lo stesso. Rappresenteranno uno spunto per ravvivare
la memoria. Ci sono foto dell’istituto dove era Vitali?
G:: “Sì, non era a Sofia, ma in un paesino chiamato…” (non
si ricordano).
Proposi di trovare una cartina della Bulgaria per vedere dove
si trovasse l’istituto. Così Vitali poté visualizzare sulla
cartina dove era nato, un paesino nelle vicinanze di Sofia,
dimenticato dai genitori. Infine, poiché emerse che i genitori
avevano comprato tutti i vestiti a Sofia, chiesi loro di portarli.
I cicli di incontri e le tecniche
I percorsi possono essere di breve durata. Nella prima fase
di consulenza, che spesso dura un unico incontro di un’ora
e mezza circa, è utile:
1. esplicitare il problema, il dilemma, il conflitto interno
e il dolore,
2. ridefinire in positivo,
3. dichiarare e concordare il lavoro da fare,
4. depatologizzare,
5. valorizzare le differenze,
6. avviare il lavoro con la richiesta di andare alla scoperta
di oggetti posseduti che appartengono ai posti lasciati, abbandonati,
dimenticati o perduti.
In effetti, con questi primi passi, usualmente i ragazzini
e l’intera famiglia raggiungono una sensazione di grande sollievo
e, il più delle volte, le allucinazioni scompaiono.
Dopo la fase di consulenza, si decide se avviare un ciclo
di incontri predefinito (da 4 a 8) con l’obiettivo generico
di stare meglio e di ricostruire il puzzle o il ponte (a seconda
della situazione si usano metafore diverse).
Posizionare il processo di counseling su un asse temporale
di cui si conosce la presunta fine consente di intravedere
il cambiamento desiderato, di riacquistare fiducia nella possibilità
di stare meglio, anche subito (Edelstein, 2007).
La cadenza degli incontri può essere quindicinale all’inizio,
mensile successivamente. Il lasso di tempo che trascorre tra
un incontro e l’altro (intorno a un mese) consente non solo
di svolgere a casa le consegne richieste, ma di elaborarle
e di acquistare un nuovo equilibrio. Quando la famiglia torna
diventa più facile individuare i cambiamenti e valorizzarli.
È questa una tecnica adottata dall’approccio sistemico milanese
(Boscolo e Bertrando, 1993).
Le narrazioni
Gli oggetti e le fotografie spesso consentono di costruire
delle narrazioni, in modo da riempire vuoti, da avvicinarsi,
da ricordare e da scoprire mondi sconosciuti, dimenticati,
abbandonati.
È importante aiutare i ragazzi a costruire storie belle e
piacevoli. Ciò non implica rifiutare le storie tristi, ma
vuol dire che intenteremo un percorso per trovare la luce
nel buio.
Ad esempio, guardando le foto, Vitali iniziò a descrivere
l’istituto dove era cresciuto. Si ricordò che c’erano delle
signore poco simpatiche e delle ragazzine che si prendevano
cura di lui. Io gli chiesi di raccontarmi chi fossero queste
ragazzine (e non di descrivermi quelle poco simpatiche). Erano
ragazze cresciute nell’istituto che, non adottate, dopo i
12 anni potevano iniziare a lavorare con i più piccoli, facendo
animazione o prendendosi cura di loro. In particolare, si
ricorda di una che gli dava il bacino della buona notte e
che, quando diventava agitato, lo abbracciava e lui si calmava.
Erano ragazze che conoscevano da dentro come poteva essere
crescere senza genitori e senza affetto e colmavano dei vuoti
che altrimenti nessuno avrebbe potuto riempire.
Le narrazioni non devono necessariamente essere storie “vere”.
A volte si possono colmare dei vuoti inventando una storia
che per i ragazzi può avere senso. Ad esempio, Vitali aveva
una cicatrice nella gamba, profonda, che arrivava fino al
muscolo e per questo non poteva fare ginnastica e faticava
a correre o a salire le scale. Non aveva idea di come fosse
accaduto e nemmeno i genitori avevano avuto informazioni.
Gli chiesi di immaginare come poteva essersi ferito, di inventare
una storia. Così, Vitali iniziò a descrivere il giardino dell’istituto
che finiva bruscamente e dall’alto si poteva cadere in basso
(il papà annuisce aggiungendo: “sì, in effetti, mi ricordo,
non era uno spazio proprio a norma”). Vitali racconta che
una volta, giocando, non ha visto il precipizio ed è caduto,
facendosi male contro una roccia. Non sappiamo se questa storia
sia “vera” o “falsa”, ma per Vitali ha senso e, raccontandola,
gli sono tornati in mente gli amici, quelli che non ha potuto
salutare come avrebbe desiderato al momento della partenza.
Nei loro confronti si sentiva in colpa.
Durante questa narrazione Vitali poté così salutarli, ricordarli
con amore, avere nei loro confronti pensieri affettuosi e
riprendersi nel cuore quelli a cui sarebbe sempre rimasto
legato.
Fatmir, invece, alla fine della quinta elementare, decise
con la tirocinante che lo accompagnava nel percorso di counseling
a domicilio di fare la ricerca d’esame sull’Albania (ovviamente
il suggerimento proveniva dall’operatrice). La ricerca si
incentrò su tutti gli aspetti dell’Albania che a Fatmir piacevano
e che gli erano cari: la musica, il cibo, la sua famiglia
allargata compresi i nonni, lo stare insieme, gli spazi all’aperto,
la geografia e il mare, le religioni, la storia. L’intenzione
non era quella di costruire un’immagine fedele del paese con
i suoi problemi sociopolitici, ma di riportare l’immagine
di una terra natale che il bambino poteva ricostruire dentro
di sé collegandosi con frammenti che per lui potevano essere
significativi. Il lato scuro dell’Albania Fatmir lo aveva
già sentito e conosciuto, anche attraverso i pregiudizi dell’opinione
pubblica italiana. Non aveva bisogno di enfatizzarli.
La fine del percorso
La fine dei percorsi viene accompagnata da un rituale o da
una cerimonia in cui si possono consegnare dei diplomi ai
bambini. È questa una tecnica utilizzata da White, terapeuta
familiare narrativo australiano che, oltre alle storie, inserisce
la forma scritta della narrazione per favorire un’ulteriore
evoluzione o per garantire l’irreversibilità del cambiamento
in positivo (White, 1992).
Maria Sol si era messa ad imparare lo spagnolo. Dopo che era
riuscita a parlare con persone boliviane nella loro lingua
di origine, aveva smesso di balbettare. Verso la fine del
percorso, programmammo un viaggio familiare nella sua terra
natale. Al rientro, insieme ad una valigia piena di oggetti
che aveva raccolto perché diventassero propri, le consegnai
un certificato in cui si dichiarava che Maria Sol, nata il
21 giugno del 1980 [6],
era italiana, bergamasca, andina e boliviana, cattolica e
induista (Maria Sol praticava la religione del paese di origine
di suo fratello ancora prima di arrivare da me) e che parlava
tre lingue: italiano, bergamasco e spagnolo. Tutto ciò apparteneva
oggi anche alla sua famiglia che, in virtù del percorso che
aveva fatto la ragazza, si era arricchita e aveva acquisito
maggiore spessore.
Conclusioni
I bambini immigrati o adottati convivono con un altrove che
può restare per lungo tempo sconosciuto, indefinito, inesplorato:
un luogo lontano da temere (“se non ti comporti bene ti rimando…”)
o da idealizzare e da pensare come rifugio (“tanto, un giorno
io scappo”) (Favaro, 1998). Questa doppiezza o dicotomia si
presta a dualismi spesso apertamente in conflitto, con punti
divergenti e difficili da conciliare. Le aspettative della
scuola e della famiglia (implicite ed esplicite) non sempre
coincidono e sono gli stessi bambini a dover creare un equilibrio
e a mediare fra le parti.
Altre situazioni di difficoltà si presentano quando il bambino
non ha la possibilità di collegarsi col passato (come nel
caso delle adozioni), ma porta con sé i segni della diversità
oppure quando il ragazzo sente di essere stato strappato dal
proprio mondo (come nel caso dei ricongiungimenti familiari
dopo anni di lontananza fisica ed emotiva fra genitori e figli).
Queste fratture identitarie portano con sé una sofferenza
manifestata attraverso disturbi del comportamento, dell’attenzione
e dell’apprendimento, problemi di tipo relazionale e spesso
sintomi apparentemente di tipo psicotico.
In questi casi è importante non trattare questi bambini come
malati psichiatrici perché l’effetto rischia di essere contrario:
da una parte le visioni e le voci permangono e, dall’altra,
gli effetti collaterali degli psicofarmaci accentuano altri
disturbi e incidono negativamente sulla loro possibilità sia
di mantenere l’attenzione sia di socializzare con i compagni.
L’incerta appartenenza può trovare equilibri nei percorsi
di counseling sistemico, per lo più familiari, e armonizzarsi
in una configurazione plurale di spezzoni identitari che si
congiungono, che si rinforzano a vicenda, che si complementano,
che li rende più forti, che permette intersezioni, che valorizza
le differenze.
NOTE
1] Dati del Ministero della
Pubblica Istruzione (2006).
2] Per salvaguardare la privacy
i nomi sono fittizi.
3] La nostra associazione
è attiva nel territorio con progetti di counseling interculturale
con famiglie migranti. I servizi sociali, la scuola, la neuropsichiatria
infantile e altre realtà cattoliche o del terzo settore ci
segnalano situazioni che richiedono un intervento interculturale
specifico. I servizi, per lo più gratuiti, sono finanziati
dall’associazione Shinui.
4] Così abbiamo scelto di
chiamare questi comportamenti durante gli incontri di counseling.
5] Questo caso è stato descritto
più dettagliatamente in un articolo pubblicato nel 2001 nella
rivista Janus (Barbetta e Edelstein, 2001).
6] La data di nascita di
Maria Sol è incerta; segnata da una data simbolica che si
dà ai bambini che entrano in orfanotrofio, solitamente il
24 dicembre. Arrivata in Italia, i pediatri avevano detto
ai genitori che la data segnalata nei documenti era improbabile
e che la bambina doveva avere almeno 6 mesi di più. Calcolando
così la data di nascita a giugno, chiesi a Maria Sol di scegliere
un giorno e, il 21 giugno, giorno estivo e solare, la ragazza
chiese ai genitori di festeggiarle i suoi 20 anni. Questa
festa fu un’ulteriore ri-conferma degli aspetti perduti e
incerti della sua identità.
BIBLIOGRAFIA
Barbetta P. e Edelstein C. (2001), “Altre culture - altri
sintomi?" in Janus, vol. 4. Zadig Roma Editore, pp. 53 – 59.
Boscolo L. e Bertrando P. (1993), I tempi del tempo. Una nuova
prospettiva per la consulenza e la terapia sistemica, Torino,
Bollati Boringhieri.
Edelstein C. (2007), Il counseling sistemico pluralista. Dalla
teoria alla pratica, Trento, Erickson.
Favaro G. (1998), “Vivere ‘tra’. Ricerca di identità e condizioni
di vita dei bambini e dei ragazzi immigrati” in Minori immigrati.
Identità, bisogni, servizi, Fondazione Zancan, Rovigo, Stampa
IPAG.
Fruggeri L. (2001), “I concetti di mononuclearità e plurinuclearità
nella definizione di famiglia” in Connessioni, vol.8, pp.
11-22.
White M. (1992), La terapia come narrazione: proposte cliniche,
Roma, Astrolabio.
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