Salute mentale e immaginario nell'era dell'inclusione sociale
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.5 n.1 Ottobre-Dicembre 2006
LA COMPLESSITÀ INTROSPETTIVA: LA DIALOGICITÀ INTERIORE NEL DISAGIO PSICOFISICO
Laura Tussi
tussi.laura@tiscalinet.it
Docente di Lettere in Istituti
Superiori di I e II grado; Giornalista; Laurea in Lettere
Moderne (indirizzo pedagogico) e in Filosofia, Università
degli Studi di Milano; si occupa di tematiche storico-sociali
e pedagogiche.
La narrazione
autoriflessiva racconta vicende che si svolgono nella prassi
umana. La vita è praxis di rapporti sociali trasformati in
struttura psicologica e narrativa. Il metodo biografico fa
scaturire un’ingente potenzialità relazionale che rivoluziona
l’impostazione tradizionale dell’analisi epistemologica, come
l’interazione tra soggetto e ricercatore che si collocano
attivamente nel contesto della ricerca e sono implicati nel
processo riflessivo e metabletico.
L’approccio autobiografico, nell’ambito delle scienze dell’educazione,
diviene strumento di ricerca qualitativa perché si basa sulla
soggettività, intesa come unicità e specificità. Con il pensiero
della complessità, supportato dall’epistemologia sistemica,
subentra la “qualità” come categoria significativa nella ricerca
del metodo autobiografico, che diviene esperienza euristica
ed insieme ermeneutica, in un approccio che si configura quale
strumento, non solo di ricerca, ma anche di formazione. L’autoformazione
derivante dalle esperienze di vita sono fondamenti del processo
formativo. L’autoriflessione biografica è una modalità di
apprendimento dall’autobiografia, perché permette di riscoprire
se stessi tramite l’analisi di aspetti dell’esperienza troppo
spesso relegati all’oblio.
La pratica autoformativa del metodo narrativo costituisce
un mezzo di autoriflessione e autoconoscenza quale ricostruzione
e riedificazione della personale identità nella ricerca dei
diversi sé del passato, grazie ad un consapevole ritorno interiore
e autoriflessivo, tramite la narrazione di sé, con la possibilità
di attribuire significato anche al presente, di esplicitare
connessioni e rimandi del testo di una vita, per riformulare
un progetto di sé. Il passato del vissuto personale trascorso
non è sempre lineare e continuo, ma frammentario e discontinuo,
per cui subentra la necessità di cogliere i nessi di interdipendenza
o connessione, armonizzando la molteplicità dei diversi tempi
di vita.
La pedagogia dell’Anima
L’educazione interiore risale, da un’antica tradizione ascetica,
agli sviluppi più recenti della psicanalisi. In pedagogia
si è smarrita la dimensione che si rivolge allo studio e all’analisi
dell’interiorità, dell’anima (in accezione junghiana) e di
tutto quanto è recondito nelle istanze dell’inconscio. Attualmente
le scienze dell’educazione volgono la propria attenzione ad
una pratica dal retaggio remoto: l’autobiografia, quale libera
e spontanea anamnesi della vita. L’autobiografia nasce come
genere letterario, fino ad approdare, in chiave pedagogica,
a molteplici sviluppi di carattere psicosociale, attraverso
la considerazione ed analisi emotiva di storie di vita (biografie),
giungendo a porsi all’attenzione accademica e ai più svariati
esiti psicopedagogici, come chiave di espressione dell’interiorità
e porta di accesso ad una dimensione nascosta dell’anima,
per riscoprire quella dimensione più genuina, creativa e meditativa
legata al mondo intrapsichico dell’immaginario.
L’educazione interiore non è soltanto un percorso ascetico
e spirituale, ma quale pratica di contemplazione, meditazione
e autoriflessione, costituisce, laicamente, un programma che
uomini e donne hanno sempre intrapreso e perseguito al fine
di sviluppare le potenzialità del pensiero introspettivo,
per poi ampliare l’acume intellettivo, giungendo ad un contatto
più stretto, ad un rapporto più viscerale e sentito con il
proprio sé e creare, plasmare, un io più emancipato, maggiormente
predisposto alle interrelazioni, sviluppando rapporti profondi
e proficui con le persone. Attraverso l’esplorazione di un’autobiografia,
ogni individuo che intraprende il percorso di conoscenza del
proprio sé giunge a recuperare una maggiore attenzione per
la dimensione affettiva di moti emozionali latenti e ad arricchire
l’immaginazione creativa.
Porre alla base delle dinamiche educative l’importanza del
ritorno a se stessi, del rimembrare degli eventi nell’introspezione,
nella narrazione di sé e autobiografica, crea nelle istituzioni,
negli ambiti predisposti alla diffusione di cultura e alla
pra??tica educativa, un ampio margine di riflessione, da
parte di ogni individuo, sulla propria storia, l’esistenza,
analizzando le vicende belle o tristi o dolorose, rivivendo
frustrazioni affettive o gioie d’amore, ripercorrendo successi
o insuccessi formativi ed emotivi, riscoprendo ansie, delusioni,
felicità piccole e grandi e tutte le amenità del vivere quotidiano.
Il paradigma identitario nell’incontro con il disagio
L’incontro con l’alterità, soprattutto quando diviene portatrice
di sofferenza e di disagio, realizza e presuppone sempre un
interscambio culturale, ossia lo specifico caratterizzante
dell’operatore e del malato, che si possono incontrare anche
in un contesto transculturale. Il mondo della globalizzazione
sta progressivamente incontrando il processo ed il fenomeno
della creolizzazione delle culture, per cui è difficile immaginare
dei confini più o meno virtuali e più o meno portatori di
dolore e sofferenza e disagio che suddividano il mondo in
un mosaico di culture.
Dopo queste premesse risulta necessario e indispensabile prendere
in considerazione il paradigma o parametro culturale nell’incontro
con il paziente, indipendentemente dalle origini etniche e
dalla provenienza, i cui contesti permettono di cogliere le
differenze simboliche, le diversità semantiche, nell’analisi
dettagliata della varietà di linguaggi, nella sofferenza e
nel disagio, di matrice biopsicosociale, che spesso scaturisce
in dipendenza dalle radici culturali ed etnocentriche.
La cultura è condivisione di simboli e significati, come la
diversità culturale è un modo differente di considerare la
propria interiorità tramite una concezione “altra” del proprio
essere-nel-mondo. Riaprire il dialogo con la diversità innesca
un processo di adesione al nuovo in modo critico e riflessivo,
con il risultato di attribuire senso e spessore alla sofferenza,
contestualizzandola nell’ambito di una trama narrativa esistenziale
e personale, nell’ambito della storia di vita del soggetto
e della sua dimensione culturale, etnica, razziale.
Il disturbo psichico è ubiquitario e per ottenere una visione
analitica globale dell’ “altro”, non occorre solo la comprensione
della sfera biologica e psicologica, ma risulta necessario
valutare ed analizzare la particolare e specifica storia di
vita della persona in relazione alla sua cultura, al suo specifico
identitario.
Incontro con l’Alterità di operatori, servizi e famiglie
Oltre le diverse interpretazioni, le lungimiranti intuizioni,
le intenzioni benpensanti, riguardanti l’emergenza handicap,
i vari interventi educativi, medici e riabilitativi, a livello
professionale, di tipo operativo, risultano spesso “nascosti”,
non evidenti, perché l’ “altro”, il portatore di diversità
ed alterità, è fonte di timore, paura e soggetto a segregazione,
emarginazione e pregiudizio.
Un’evoluzione positiva dell’intervento professionale, operativo
e riabilitativo, si auspica mediante una presa di coscienza
generale di ciascun soggetto in causa, dall’educatore, allo
psicologo, al famigliare, coinvolti nell’incontro quotidiano
con questo sintomo del male sociale, con risvolti individuali
e risposte spesso individualistiche ed egoistiche dove la
quotidianità nella sua complessità, sfugge alle maglie attanaglianti
delle rappresentazioni, che escludono le difficoltà e riducono
spesso il problema all’ambito del diritto e dell’uguaglianza.
Gli interventi corretti rivolti ad handicap gravi non devono
avere origine in un umanitarismo pietistico o masochista,
ma nel rispetto dei diritti e nella consapevolezza che l’azione
professionale ben fatta a favore del diversamente-abile, volta
al bene sommo del “diverso”, è vantaggiosa per l’intera società
che riscopre, nell’apertura verso le insondabili e poliedriche
sfaccettature, le polimorfe caratteristiche dell’umano, dei
valori inalienabili, insostituibili, imprescindibili ed arricchenti
per una civiltà purtroppo votata al consumismo e al rifiuto
dell’inefficienza come la nostra. Dunque il rispetto, il confronto,
la tolleranza positiva e non pregna di sufficienza e recon??dito
disprezzo, il dialogo costruttivo, l’interscambio di opinioni,
il contatto con ogni aspetto, peculiarità e carattere di “alterità”
che permea l’esistenza umana e la sua ontologia.
Gli interventi a favore dell’handicap devono incentrarsi su
principi di socializzazione, suscitare stimoli socializzanti
e non segreganti, che inibiscono la capacità del dialogo,
dell’interscambio dia-logico, nell’assenza di abilità relazionali
e socializzanti: la necessità di raggiungere risultati positivi
nell’azione operativa, di conseguire una giusta integrazione,
buoni livelli di autonomia, sono obiettivi fondanti presi
in carico da tutta la comunità sociale ed educante. Abbandonare
il problema handicap a se stesso significa impoverire una
comunità e aprire una ferita profonda sul piano culturale,
a partire dal nucleo famigliare del disabile che diventa decisivo
con la sua centralità affettiva, in quanto non deve permettere
di ridurre il figlio a un caso, a una categoria di disabilità,
ad un’utenza, indirizzato da “politiche societarie” che valorizzano
la soggettività sociale, le reti associative e di volontariato
e le relazioni interfamigliari, attribuendo rilievo alla centralità
dei legami familiari e societari.
L’intervento riabilitativo non dovrebbe dunque esasperare
la differenza, facendo di questa stessa peculiarità la stigmate
stessa dell’emarginazione. La segregazione è un fenomeno imperante
e omnipervasivo. Le risposte alle esigenze dell’handicap vanno
fornite in organizzazioni di servizi come per altri cittadini.
Un’azione riabilitativa corretta deve permettere al soggetto
di vivere in modo agiato la città e il quartiere, evitando
l’emarginazione segregante in centri residenziali, con eccessivo
concentramento di persone. Occorre consentire un’equa distribuzione
sociale del peso materiale e psicologico che non dovrebbe
gravare totalmente nell’ambito della famiglia, penalizzandola.
In quest’ottica olistica di intervento risulta auspicabile
l’adozione di piccole comunità residenziali o semiresidenziali,
interventi qualitativi come servizi aperti che facilitino
l’interazione e la partecipazione di tutti i soggetti in causa:
gli operatori, il personale medico e riabilitativo, gli educatori
e i famigliari, che possano interagire nell’ambito di servizi
collocati in zone abitate, facilmente raggiungibili e accessibili,
perché l’obiettivo principale, il focus fondamentale sotteso
all’azione di ogni intervento consiste nell’integrazione.
I miti della società dell’effimero
Una società fondata sul principio del valore e della sopravvivenza
del più forte presenta notevoli svantaggi perché conferma
principi ancestrali e primordiali quali il culto della potenza
fisica, la rivalità, l’inimicizia, il dissidio, la supremazia
e il principio di onnipotenza che emargina o addirittura annienta
i più deboli. In una società che incoraggia la competizione
economica, il successo del potere, la supremazia dell'arroganza
rispetto al dialogo rispettoso e al confronto pacifico, vengono
abbandonati principi valoriali basati sull’etica, fondati
sulla giustizia che stimolano alla solidarietà ed alla cooperazione
solidale per l’emancipazione personale di ogni singolo e distinto
individuo, in quanto portatore di una insita diversità.
Una civiltà, una società, una comunità basate sul principio
di potere e di onnipotenza, fondate sul primato dell’economico,
in un’ottica massificatrice ed edonistica del tempo libero
dove riecheggia l’eco del prestigio del dio denaro in chiave
strettamente consumistica ed aleatoria, per raggiungere gli
scranni del potere con politiche dell’effimero, queste portano
di conseguenza ed inevitabilmente, come anche la Storia insegna,
all’esclusione degli infermi, dei deboli, delle minoranze,
degli anziani, insomma dei diversi, e come è stato, al loro
annientamento.
In base a questi presupposti si deduce che il problema, la
questione handicap può arricchire una società di valori e
principi di apertura al dialogo tra diversità, in un “mito”
che qualcuno sta vivendo in una nuova civiltà che finalmente
vede nel più de??bole non più un perdente, ma un’occasione
per provare e dare Amore.
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