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  • Pratiche narrative per la formazione
    Francesca Pulvirenti (a cura di)

    M@gm@ vol.3 n.3 Luglio-Settembre 2005

    IL DIALOGO FILOSOFICO TRA NARRARE E RIFLETTERE


    Antonio Cosentino

    cosant@libero.it
    Docente di Filosofia e Storia presso il Liceo classico di Cetraro (CS); Incaricato presso l’Università della Calabria come Supervisore di tirocinio della SSIS; Fondatore e Direttore del C.R.I.F (Centro Italiano della “Philosophy for Children”); Vice-direttore di “Comunicazione Filosofica” (rivista elettronica della Società Filosofica Italiana); Membro dell’Editorial Review Board della rivista “Thinking” (Rivista internazionale di “Philosophy for Children”); Certified Teachers Educator (IAPC -Università di Montclair -New Jersey, USA - 1993); Laurea in Pedagogia (Università di Roma – 1989); Diploma di specializzazione nella ricerca filosofica (Università di Roma – 1982); Laurea in Filosofia (Università di Roma - 1974).

    Se provo ad associare delle immagini ai due termini “narrare” e “riflettere”, mi si presentano alla mente, rispettamene, quella del movimento e del viaggio, associata al termine “narrare”, e quella di fermata o di pausa, associata al termine “riflettere”.

    Quando si narra, o si segue una narrazione, si viaggia attraverso il tempo e in differenti luoghi dello spazio; si segue l’intreccio delle relazioni tra mondi intramentali e mondi esterni, quello delle relazioni intersoggettive; si segue il flusso delle intenzionalità e delle memorie, delle causalità, delle prevedibilità e delle imprevedibilità, mentre il vettore del presente si muove lungo la strada illuminata dal passato verso un punto conclusivo, una “fine” della storia - di quella storia. Quando si riflette sembra essere necessario interrompere la corsa, appartarsi, sottrarsi al flusso per sé inarrestabile della vita. È esemplare, a questo riguardo, il caso di Descartes quando racconta nel suo Discorso sul metodo come il viaggiare in sempre nuovi e diversi posti, è come attraversare tante diverse storie e rendersi conto, nello stesso tempo, del fatto che nessuna di esse è vera: ognuno vede le cose in modo diverso. “Paese che vai, gente che trovi” è la formula del senso comune che riassume il senso della contingenza di ogni verità di ciascuna storia. È come dire che ogni narrazione costruisce ed esaurisce la propria verità al suo interno, o, in modo più radicale, che la narrazione non ubbidisce affatto ai criteri di vero-falso (Goodman, 1988). E allora - prosegue Descartes - la verità va cercata dentro di sé, isolandosi dal mondo della vita e fermandosi per sc ?rutare nella propria mente: ripiegarsi su se stessi, riflettere. In verità Descartes continua a raccontare anche quando parla della riflessione; non racconta gli oggetti della riflessione, e tuttavia la riflessione è un momento del suo racconto.

    Generalizzando, si profila una domanda che riguarda in termini più complessivi le relazioni tra il “raccontare” e il “riflettere”; in altri termini, c’è da domandarsi se qualcosa può esserci ancora fuori dai racconti, ossia fuori dal tempo, fuori dalle relazioni spaziali, estraneo alle storie che si dipanano, si fanno raccontandosi e si raccontano facendosi. La nostra tradizione culturale ha i suoi fondamenti in una risposta a questa domanda che suona come un “Sì, c’è qualcosa di a-temporale, a-spaziale, non vincolato alla contingenza delle forme di vita”. Da Platone in poi il metafisico non solo c’è, ma è anche il più vero, il più reale. Platone nei suoi Dialoghi utilizza la narrazione, ma la utilizza per presentare un mondo delle idee iperuranico in cui non c’è più posto per le storie, per un “inizio” e una “fine”. Questo esito dualistico ha alimentato, in diversa misura e con diverse espressioni, tutta la nostra tradizione culturale ed è diventato una nostra tipica “forma mentis”. Così il narrare dà vita alla letteratura, al cinema, e a tutte quelle forme di espressione che intrattengono un rapporto più partecipativo e intrinseco con i mondi della vita. Al contrario, il riflettere si trasferisce nel “mondo delle idee” e separa questo mondo da quello delle cose, della contingenza, dello spazio e del tempo: prendono forma i saperi astratti della logica, della matematica, ?delle scienze considerate nella loro “purezza” e si consolida la modalità “paradigmatica” del linguaggio, del codice delle spiegazioni sistematiche con pretese di universalità e necessità, i linguaggi simbolici la cui coerenza è tutta interna: di un simbolo con altri simboli, di un simbolo con la logica del sistema.

    Il punto in questione ora è se tutte queste forme di sapere de-contestualizzato siano veramente tali, fino in fondo. Dewey rileva come, a suo vedere, la logica aristotelica non è affatto “formale”, cioè svincolata da riferimenti storici e non condizionata da contenuti contingenti (Dewey, 1949). Egli vede una stretta interdipendenza tra logica ed ontologia aristoteliche e, in più, riconduce l’ontologia aristotelica alle condizioni socio-culturali ed economiche dello specifico contesto storico in cui Aristotele vive ed opera. Wittgenstein si rende conto che il linguaggio-etichetta - come lo intende nel Tractatus - non comunica, non vale, cioè, nelle pratiche discorsive ordinarie (Wittgenstein, 1964); che solo nell’uso e nella specificità dei vari “giochi” come pratiche regolate che si confondono con le forme di vita si costruiscono e si utilizzano i significati. Nelle sue Ricerche Filosofiche il linguaggio viene visto come un arcipelago di “giochi”, privo di una sistematicità formale e di sostanziale unitarietà (Wittgenstein, 1995) [1]. Ora non c’è dubbio che quello del narrare è il gioco più diffuso, quello più spontaneo e più gratificante: risponde al principio di piacere. È, esso, il modo in cui i bambini iniziano ad organizzare linguisticamente la loro esperienza, il modo in cui si aprono alla comunicazione interpersonale.

    Ancor prima di andare a scuola, infatti, i bambini conoscono molte storie e sono capaci di organizzare una struttura narrativa in modo progressivamente coerente e significativo. È stato provato che bambini di quattro anni sono in grado, in circostanze favorevoli, di controllare le più importanti componenti di una storia (Stein e Glenn, 1979), ragion per cui è innegabile che la narrazione gioca un notevole ruolo durante la prima alfabetizzazione” (Pontecorvo e Zucchermaglio 1989 - Pontecorvo, 1991, Casentino, 1998). Non solo a livello individuale la narrazione costituisce la prima e fondamentale modalità rappresentativa e ordinatrice della realtà. Anche la memoria e la trasmissione culturale delle società è affidata, in buona parte, ai racconti, prima soltanto orali e poi anche scritti. Inoltre, è nella forma del racconto che si realizza, con modalità del tutto informali, la prima interiorizzazione da parte dell’individuo della tradizione culturale e delle pratiche discorsive del contesto di appartenenza. Come osserva Luigi Anolli, “In questa prospettiva la narrazione è una modalità comunicativa che media tra il mondo canonico della cultura e il mondo personale e idiosincratico delle credenze, dei desideri e delle speranze. Rende comprensibile l’elemento eccezionale e tiene a freno l’elemento misterioso. Reitera le norme della società senza diventare didattica e fornisce una base per la retorica senza bisogno di un confronto dialettico” (Anolli, 1998).

    Nella modalità narrativa è posto in primo piano il bisogno di significato come ineludibile vincolo dell’attività conoscitiva. Non solo, ma la narrazione rende evidente il fatto che i significati emergono soltanto all’interno di un contesto di relazioni molteplici le quali includono sia aspetti esterni del mondo, relazioni spazio-temporali e avvenimenti, sia aspetti interni che hanno a che fare con intenzionalità e rappresentazioni, e con il complesso degli stati soggettivi, oltre che aspetti connessi con le relazioni intersoggettive e le dinamiche interpretative che prendono corpo in quest’area. Al gioco della narrazione è legato, secondo Bruner, lo sviluppo in ogni individuo di una teoria della mente altrui, presupposto indispensabile per una proficua comunicazione e per l’espansione della sfera relazionale (Bruner e Feldman, 1993) [2]. Bisogna aggiungere che il registro narrativo, non essendo sottoposto al criterio della verifica rispetto alle categorie vero-falso, è anche il luogo privilegiato della creatività e della logica della costruzione, della invenzione più che della scoperta. Il congiuntivo è il modo preferito della narrazione perché la categoria della possibilità è quella propria della costruzione di mondi (Bruner, 1988 e 1993).

    E tuttavia, se ci riferiamo all’ambito dell’educazione formale, dei due tipi di pensiero che, a parere di Bruner, connotano universalmente l’organizzazione della conoscenza - quello logico-scientifico e quello narrativo - la scuola ha tradizionalmente privilegiato il primo; né rappresenta una smentita l’ampio spazio accordato alle discipline umanistico-letterarie nella nostra scuola tradizionale. Infatti non è ai contenuti che Bruner si riferisce, ma, piuttosto, alle strutture epistemologiche e ai corrispondenti codici comunicativi. In altri termini, questo significa che si può trattare della narrazione (espressioni letterarie, generi, storia della letteratura, ecc.) adottando una modalità logico-scientifica o paradigmatica. D’altra parte, la stessa scienza, il più paradigmatico dei saperi, può essere presentato e appreso adottando il linguaggio e la logica della narrazione. Dal punto di vista educativo, la differenza consiste nel fatto che, mentre un approccio logico-scientifico genera abilità di carattere tecnico, un approccio narrativo genera significati e orizzonti di senso rintracciati e costruiti autonomamente. Bisogna rilevare anche che la forma narrativa merita una particolare attenzione rispetto alle relazioni che intercorrono tra oralità e scrittura. La vasta letteratura sull’argomento tende a mettere in evidenza la sostanziale frattura che sembra configurare il passaggio dall’oralità primaria all’ambiente comunicativo alfabetizzato. Un alto gradiente di discontinuità contrassegna questo passaggio, sia sul piano antropologico e storico-culturale che sul piano psicologico e dello sviluppo individuale.

    Una analisi comparativa tra oralità ed alfabetizzazione sulla base dei seguenti parametri ci aiuta a riassumere sinteticamente i momenti di discontinuità (Cosentino, 1998) [3]:
    • Decontestualizzazione (Denny, 1995, Luria, 1976);
    • Distinzione tra testo e interpretazione (Olson, 1995, Olson e Torrance, 1987);
    • Riflessione (Narasimhan, 1995);
    • Intenzionalità (Scholes e Willis, 1987);
    • Stabilire relazioni (Ong, 1986, Saenger, 1995);
    • Metaliguaggio e pensiero autonomo (Torrance e Olson, 1987, Herriman, 1986, Cazden, 1974).

    L’avvento dell’alfabetizzazione e della conseguente inarrestabile avanzata della scrittura come medium prevalente nella nostra tradizione culturale ha significato la costruzione di un nuovo e diverso tipo di mente e, quindi, nuove tipologie di mondi, di pratiche e di forme di vita. L’ambiente comunicativo che prende forma come riflesso dell’uso del codice scritto tende a sfumare le differenze di contesto e ad eliminare tutte le comunicazioni implicite e connesse con la relazione vis-a-vis. Afferma Platone nel Fedro: “La scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi [4].

    Il sapere universale e disincarnato, fissato e oggettivato su testi separati dalla contingenza e dalle incertezze della soggettività e del mondo della vita diventa il paradigma epistemologico vincente a partire dalla metafisica platonica, sia nella riflessione della filosofia che nella teorizzazione e nella pratica della moderna indagine scientifica. Così, la scrittura è il linguaggio delle verità invariabili; si fissa nell’oggettività dei testi e si sistematizza accuratamente dando vita al meta-linguaggio della grammatica e della sintassi, il luogo dal quale il linguaggio può parlare di se stesso. Dal punto di vista dell’organizzazione mentale, questo è, altresì, il luogo della possibilità della riflessione (impossibile senza lo sdoppiamento e senza il distanziamento) di un pensiero che si svincola dalle pressioni e dalle cornici dell’esperienza vissuta, proiettandosi, spinto dal trampolino della scrittura, verso un “mondo delle idee”, entità stabili e definibili una volta per tutte nei loro significati, oggetti possibili dell’impresa della classificazione nella prospettiva di una logica del “terzo escluso” che non lascia alcuno spazio alle differenze di grado, alle incertezze della induzione, alla dimensione connotativa e pragmatica del linguaggio.

    Se lo sviluppo della metafisica è strettamente correlata a quello della scrittura (Sini, 1992), l’arretramento dell’oralità come codice linguistico-comunicativo del sapere attendibile ha avuto, come suo corrispettivo, la progressiva perdita di terreno della forma “agoretica” che la filosofia aveva assunto in Atene con i Sofisti e, soprattutto, con Socrate e, anche, della sua fisionomia di “stile di vita” che ha in larga misura conservato fino all’affermarsi del Cristianesimo (Hadot, 1998). Una filosofia “agoretica” ed una filosofia “praticata” costituiscono entrambe un riferimento significativo ed una testimonianza esemplare di un sostanziale intreccio di “narrare” e “riflettere”. Tra la narrazione epica come pratica di comunicazione escludente il pensiero riflessivo autonomo e tutta giocata sulla mimesis (Haveloc, 1995) e la riflessione sistematica e decontestualizzata che incomincia a prendere corpo con l’opera di Aristotele, le figure di Socrate e di Platone rappresentano una pratica del filosofare in cui si incrociano e si inseguono circolarmente narrazione e riflessione, dove le teorizzazioni emergono dai contesti di vita e si presentano all’interno di una cornice narrativa.

    Nel caso dei Dialoghi platonici, assistiamo alla straordinaria impresa di un esercizio della scrittura non disancorata dall’orizzonte dell’oralità: una ricerca dell’episteme lungo le vie tortuose e molteplici che attraversano i contesti di vita individuali e sociali. Dopo Platone ciò che si salva della narrazione (come pratica prevalente dell’oralità) sarà una scrittura narrativa che, in tutte le forme ed i generi in cui si andrà storicamente articolando, lascerà cadere l’istanza riflessiva come sua componente essenziale. Grazie alle sue specifiche regole, alle sue convenzioni, ai suoi stereotipi, la narrazione si presta ad essere agevolmente trasferita dall’oralità alla scrittura, offrendosi, in tal modo, come un possibile ponte efficace e stabilire punti di continuità tra due sponde così eterogenee (Chafe, 1982). Se lasciamo cadere la visione dualistica di agire e pensare, di teoria e pratica, di contestualizzazione e decontestualizzazione, anche lo scarto tra narrare e riflettere tende a sfumare per essere assorbito in uno schema interpretativo più dinamico ed unitario nel quale le differenze possono essere colte più lungo un continuum e come differenze di forme di linguaggio anziché come differenze di genere e come salti logici.

    Ritornando sulle immagini iniziali, si può sostenere con Matthews Lipman “non credo che la filosofia […] sia un tentativo di insegnare a ‘fermarsi’ per mettersi a pensare; essa può piuttosto insegnare a riflettere sul perché andiamo di fretta, e se davvero ci vogliamo andare! Non trovo ci sia incompatibilità tra il “riflettere” e “l’andare”; si può riflettere mentre si va sul perché e sul come si va” (Lipman, 2002, p.49). È una prospettiva in cui il pensare (in questo caso specificamente filosofico) non appare separato né separabile dall’agire. Si tratta, piuttosto, di due facce della stessa medaglia, di un tessuto di cui fare e conoscere, teoria e pratica sono le trame. Questo intreccio, sebbene mai tematizzato esplicitamente, è personalmente praticato da Gregory Bateson, nella cui opera la narrazione svolge un ruolo di primissimo piano. Il raccontare storie sembra costituire, come ha osservato Davide Zoletto (Zoletto, 2000), una specificità di approccio che prende concretamente forma nella pratica della scrittura di Bateson, visto il numero di racconti, aneddoti, barzellette che ricorrono nelle sue opere (Bateson, 1976).

    Nel prospettare possibili linee di continuità tra processi di espressione, di organizzazione e di costruz ?ione della conoscenza collocati nell’orizzonte del senso comune e della comunicazione non scritta da una parte e conoscenze codificate e sistematizzate nei linguaggi scritti, dall’altra, si può ipotizzare un modello interpretativo in cui su un segmento alle cui estremità sono poste le idee di “narrare” e quella di “riflettere” si possono rappresentare tappe e forme intermedie. Al centro del segmento la pratica della narrazione riflessiva esemplificabile col dialogo filosofico, come paradigma della possibile integrazione di narrare e riflettere. Il “narrare” come punto estremo (ma anche inizio) del segmento rappresenta un’assolutizzazione della mimesis. Il “riflettere” che occupa l’estremo opposto rappresenta l’assolutizzazione di un logos ripiegato su se stesso, sulle forme vuote delle sue procedure e immemore della sua provenienza, delle sue fonti esperienziali. Tra questi due estremi si dislocano le forme ed i modi molteplici di intreccio di narrazione e riflessione.

    Narrare___Dialogo Filosofico___Riflettere


    NOTE

    1] L’apparente unitarietà e sistematicità del linguaggio viene paragonata da Wittgenstein alla visione a distanza di una città. Dietro l’apparenza di definizione e di ordine c’è la storia di come una città urbanisticamente si sviluppa mettendo insieme quartieri che hanno origini diverse, diverse connotazioni e vocazioni. Allo stesso modo il linguaggio non si sviluppa sulla base di un piano regolatore predefinito, ma si modifica sulla base dei rapporti dinamici dei vari “giochi”, sulla base dei vincoli che i “giochi” preesistenti esercitano sulle nuove possibilità.
    2] L’osservazione che i bambini autistici mostrano forti carenze rispetto alla narrazione, ha indotto a ritenere che ci sia una significativa correlazione tra carenze sul piano della comprensione narrativa e carenze relative ad una teoria della mente: l’autismo è l’effetto di incomunicabilità con gli altri dovuto alle difficoltà di produrre ipotesi sulla mente altrui, sulle loro intenzioni, sui loro pensieri.
    3] Per un approfondimento del tema rinvio al mio saggio Tra oralità e scrittura in filosofia, in De Pasquale M., Filosofia per tutti, Angeli, Milano 1998.
    4] Platone, Fedro, 274c 276a.


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