Approccio dal basso e interculturalità narrativa
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003
ASPETTI PSICOLOGICI DELLA MIGRAZIONE AL MASCHILE E DIFFERENZE DI GENDER
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Fondatrice e presidente dell'associazione
Shinui (www.shinui.it); Responsabile della Scuola di Counseling
Sistemico Relazionale di Bergamo; collabora come formatrice
e consulente con enti pubblici e privati di numerose città
italiane sul tema dell'immigrazione e della comunicazione
interculturale; coordinatrice e responsabile della ricerca
sugli 'aspetti psicologici dei processi migratori e differenze
di genere' all'interno del Forum sulle matrici culturali dell'Università
degli Studi di Bergamo, presso il Corso di Laurea in Scienze
dell'Educazione, diretto da Pietro Barbetta.
PREMESSE
La maggior parte delle donne migranti non percepisce il progetto
migratorio come proprio, ma lo adotta, lo esegue oppure lo
subisce. Anche quando vengono a sposare un italiano, le donne
sentono che il progetto appartiene al futuro marito. In alcune
occasioni a formulare il progetto può essere un familiare
già emigrato, un'amica, la famiglia oppure la comunità. La
decisione però spetta a loro e questo è un momento significativo,
strettamente collegato alla "benedizione della mamma". Infatti,
le donne dichiarano che il consenso della madre diventa basilare
nel processo decisionale riguardante la propria migrazione.
Molte di loro sottolineano che se non avessero ottenuto l'approvazione
materna, avrebbero rinunciato o non avrebbero osato. Questa
posizione sembrerebbe dovuta in parte al fatto di dover talvolta
lasciare i figli con le nonne, ma soprattutto al bisogno di
mantenersi collegate al rapporto che le donne mantengono con
la madre anche da adulte. Dalla decisione di emigrare alla
partenza (periodo che spesso può durare da uno a tre mesi)
le donne raccontano di non avere coltivato fantasie rispetto
al paese di destinazione, di essere concentrate negli addii
e immerse in un intenso commiato accompagnato da pianti, da
rituali di separazione e da una profonda emozione di tristezza.
Lo sguardo è rivolto su ciò che si lascia e sui propri cari.
Non sul futuro. I pensieri, se riguardano il futuro, si concentrano
sulle ragioni dell'emigrazione: necessità economica, progresso,
allontanamento di una situazione politica pericolosa... La
maggior parte delle donne vive nella partenza il rituale che
permette di chiudere il capitolo delle separazioni e degli
addii. Qualcuna vive il viaggio come la fase che permette
di voltar pagina, molte non gli attribuiscono alcuna importanza.
Gli elementi sopra descritti sembrerebbero contribuire al
benessere della donna dopo l'arrivo al paese ospitante come
se l'intenso commiato, accompagnato dal rituale della partenza,
permettesse loro di prepararsi emotivamente per iniziare una
nuova vita avendo elaborato il lutto collegato al distacco
dal proprio mondo. Le donne inoltre si pongono inizialmente
nella posizione di chi esegue il progetto di un altro e ciò
toglie il peso della responsabilità. Di fronte a complicazioni
e difficoltà, la donna può colpevolizzare chi ha ideato o
delineato il progetto migratorio; se hanno successo non solo
adottano il progetto, ma si sentono orgogliose protagoniste.
Soltanto con l'arrivo al paese di destinazione, la donna comincia
a sviluppare grosse aspettative rispetto al progetto migratorio
e alla nuova vita. La quantità di stimoli inizialmente crea
una sensazione di euforia e ottimismo. Ogni novità a sua volta
genera entusiasmo e nuove aspettative. Con l'inizio delle
inevitabili difficoltà si crea un disincanto che spesso è
accompagnato da uno stato d'animo di indifferenza, apatia
o addirittura depressione. A volte si creano dei conflitti
con la società d'accoglienza, nel lavoro o in famiglia che
suscitano, in alternanza all'indolenza, forti emozioni di
rabbia.
Il superamento di questa fase di transizione, che comporta
quasi inevitabilmente la crisi di cui si parlava sopra, dipende
dalla risposta ai bisogni che si creano nella fase di sistemazione
e adattamento: autodefinirsi nei confronti dell' "Altro",
socializzare, creare rapporti con locali e connazionali, trovare
un ruolo in famiglia e nella società, avere informazione.
Dopo qualche anno di permanenza nel paese ospitante, molte
donne si sentono cambiate riguardo il loro ruolo nella società,
avvertono mutamenti nei modi di relazionarsi e anche nel comportamento
sessuale: si riconoscono più aperte, più sicure, protagoniste
e padrone della propria vita. Non sempre riescono a fare trasparire
i cambiamenti ai familiari nel paese di origine; a volte si
sentono giudicate, altre volte entrano in conflitto. È questa
nuovamente una fase particolarmente difficile perché si sentono
essenzialmente straniere dappertutto. Contemporaneamente però
le nuove esperienze e le possibilità di autodefinirsi creano
soddisfazione, contentezza, a volte un senso di ebbrezza e
di libertà.
Progetti antichi ed esperienze lontane si trasformano attraverso
racconti in un contenitore che permette la migrazione (il
progetto o l'esperienza lontani). Allo stesso modo il ritorno
diventa un altro contenitore che favorisce l'idea di poter
stare in un posto estraneo e sconosciuto. L'idea del ritorno
dà vita al soggiorno nel paese straniero. E' interessante
notare che quando si chiede come e quando intendono tornare
nel paese d'origine si ottengono risposte quasi invariabilmente
vaghe e riguardanti progetti lontani: pensione, figli sistemati...
Sono questi i risultati di una ricerca azione svolta negli
ultimi otto anni [1]
attraverso l'utilizzo del metodo narrativo (Edelstein, 2002)
e all'interno di percorsi di gruppo con donne migranti (Edelstein,
2000).
STATO DELL'ARTE: FEMMINILE, NEUTRO, E IL MASCHILE?
Numerosi studiosi dei processi migratori hanno evidenziato
l'importanza delle fasi precedenti l'arrivo al paese di destinazione,
e l'influenza che queste hanno su quelle di sistemazione e
adattamento. Sluzki (1979) descrive le fasi del processo migratorio
in un'ottica familiare e sistemica. L'attenzione è focalizzata
sui patterns di comunicazione che si sviluppano nella famiglia
migrante durante il processo migratorio (anziché sui contenuti),
proponendo un modello "culture free", libero cioè dalla necessità
di individuare elementi culturali.
Le 5 fasi sono collegate tra loro e le prime due riguardano
i momenti precedenti l'arrivo:
- la fase preparatoria è collegata ai primi movimenti della
famiglia impegnata nella migrazione. Può essere uno scambio
di lettere, la richiesta di un visto, un incontro significativo
con un amico o un parente emigrato;
- la partenza o l'atto migratorio come fase di transizione
può essere anche molto breve (un viaggio aereo) o molto lunga
e travagliata (lo spostamento tra paesi transitori accompagnato
da attese e incertezze).
Le tre fasi successive riguardano la permanenza nel paese
di accoglienza:
- nel periodo di "ipercompensazione" che va dalle settimane
ai mesi successivi all'arrivo, i membri della famiglia spesso
non hanno la consapevolezza della natura stressante dell'esperienza
migratoria, si organizzano per soddisfare i bisogni di base
muovendosi con energia. Le esperienze dissonanti tra le aspettative
e l'ambiente emergono sempre più numerose e sono negate.
- Il periodo di "decompensazione" o di crisi, burrascoso,
segnato da conflitti, difficoltà e sintomi (crisi matrimoniali,
sintomi psichiatrici, tensioni, dolori). L'impresa principale
della famiglia è quella di adattarsi mantenendo un'identità
familiare compatibile con l'ambiente circostante. Si sviluppano
complesse regole sui cambiamenti delle regole (metaregole),
spesso implicite, creando malintesi. Alcuni valori familiari
del passato si rivelano meno adatti nelle circostanze del
paese di accoglienza.
- L'impatto transgenerazionale nel quale emergono i conflitti
tra genitori e figli, come contrasto o scontro più interculturale
che transgenerazionale. La situazione sembra degenerare quando
la vita della famiglia si svolge in un "ghetto". L'urto tra
le generazioni crea nei figli un comportamento deviante.
Musillo (1998) propone un modello che assomiglia a quello
di Sluzki in quanto anch'egli pone l'attenzione sia sulla
famiglia che sul momento precedente all'arrivo nel paese di
accoglienza e sull'influenza che quest'ultima ha sulle fasi
successive: a suo parere la partenza contiene tutte le informazioni
riguardanti il ritorno. Si sofferma sul progetto migratorio
scandito nei tre archi temporali di passato, presente e futuro,
la cui connessione forma una catena migratoria:
- la partenza comincia con il rituale del commiato anche se
la genesi è una costruzione molto complessa che risale a tempi
lontani, collegata a volte a viaggiatori in famiglia che hanno
aperto il solco. Fenomeni economici e politici non sono quindi
le cause dell'emigrazione, ma sono piuttosto dei trigger.
L'autore enfatizza, come Sluzki, l'importanza che hanno i
primi segni da parte di un membro della famiglia intorno all'idea
di emigrare e come questi segni diventano significativi nelle
fasi successive attraverso l'individuazione del responsabile
dell'emigrazione.
- L'adattamento nel nuovo paese comporta difficoltà che emergono
alcuni mesi dopo l'arrivo e comprende sintomi di depressione,
perdita di risorse, cattivo rendimento sul lavoro e rallentamento
delle relazioni che si stavano creando. Questa fase sembra
parallela a quella di decompensazione del modello precedente.
- Il ritorno è aggiunto in questo modello come un momento
immaginario: mentre durante la fase di adattamento emergono
le difficoltà nasce la nostalgia per i valori persi, per gli
affetti lasciati, si smitizza il sogno di poter cambiare la
vita e il suo decorso. Questo processo porta a valutare l'idea
del ritorno e costruisce un doppio legame: da una parte si
vuole abbandonare il progetto migratorio, ma dall'altra non
lo si può fare perché c'è stato un fallimento.
L'idea del ritorno introdotta in questo modello è assai innovativa.
Hertz (1981) identifica nell'esperienza migratoria una sequenza
di fasi caratterizzate dal fattore di stress: nella fase pre-migratoria
si costruiscono aspettative alte e positive e in quella successiva
si affronta la nuova vita. A sua volta quest'ultima è suddivisa
in tre momenti:
- l'impatto (impact) con periodi di euforia seguiti da rilassamento;
- la ripercussione (rebound) accompagnata da sentimenti di
delusione e scontentezza, collera, ritiro, depressione, diffidenza
e sospetto;
- l'affrontare (coping), il reagire di fronte alle difficoltà.
- Infine Espìn (1999) riferisce di alcuni lavori teorici che
collegano le fasi precedenti alla partenza con il vissuto
nel paese di accoglienza (fra questi Portes e Rumbaut, ad
esempio, parlano di contesto di uscita e contesto di accoglienza
sottolineandone l'importanza e il collegamento). Ricorda che
diversi studiosi hanno osservato che il grado di trauma vissuto
prima della partenza (contesto di uscita) è una variabile
significativa nel prevedere il benessere psicologico e il
futuro adattamento di immigrati e rifugiati.
Nonostante la consapevolezza dell'importanza delle fasi precedenti
l'arrivo, scarse sono le ricerche sul vissuto e sugli aspetti
psicologici di questo periodo. La gran parte degli studi psicologici
ne sottolinea gli aspetti patologici dimenticando che la migrazione
è un fenomeno universale esistito in tutti i tempi. La maggior
parte degli studi approfondisce la fase di sistemazione e
adattamento senza soffermarsi sulle precedenti (ad esempio
Hertz, 1981; Inglese, 2001; Losi, 2000) anche se le ricerche
(diverse dagli studi teorici) sono scarse. Per quanto riguarda
le donne, i pochi studi fatti non collegano le diverse fasi.
Espin (1999) ha svolto un'interessante ricerca qualitativa
sulle donne, seguendo l'approccio narrativo e analizzando
43 storie. Il suo libro ha l'obiettivo di descrivere l'esperienza
delle donne immigrate negli Stati Uniti attraverso i cambiamenti
vissuti dopo l'emigrazione riguardanti l'identità sessuale
(comportamento sessuale, ruoli sessuali e sessualità femminile).
Nonostante qualche studio sul vissuto femminile sia stato
svolto, non risulta esistere alcuno studio o ricerca sull'esperienza
al maschile.Nelle ricerche bibliografiche che ho svolto, alla
voce "gender e immigrazione" si trovano solo lavori sulle
donne; per gli studi al maschile sembrerebbe si faccia riferimento
ai lavori "gender neutral": non esiste letteratura sugli aspetti
psicologici dell'immigrazione al maschile. Sulla base della
ricerca azione intorno agli aspetti psicologici dei processi
migratori al femminile i cui risultati sono esposti nelle
premesse, ho svolto successivamente una ricerca qualitativa
che segue il metodo narrativo con l'obiettivo di capire e
conoscere il vissuto dell'uomo migrante.
METODOLOGIA
"La narrazione è connaturata all'uomo; non si ha testimonianza
di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione. Essa attraversa
le culture, le epoche, i luoghi è presente da sempre e, forse,
sarà sempre presente. Si potrebbe dire che con il nascere
della socialità e della relazione interumana è nata la narrazione"
(Batini, 2000). Come in varie occasioni afferma Bruner, gli
uomini, infatti, pensano per storie (Bruner, 1992). Il comune
denominatore metodologico fra la ricerca al femminile e quella
al maschile è la costruzione delle narrazioni e l'analisi
della conversazione, anche se le due ricerche si distinguono
tra loro in aspetti salienti. La ricerca delle donne non era
partita come tale: si erano prefigurati diversi percorsi di
gruppo aventi numerosi obiettivi, ma non quello di svolgere
una ricerca (vedi articolo Edelstein et.al. nel presente volume).
Gli incontri videoregistrati avevano offerto un'enorme quantità
di storie migratorie e io avevo deciso solo in un secondo
tempo di coordinare l'analisi delle conversazioni per esplorare
e svelare gli aspetti psicologici dei processi migratori al
femminile. Le variabili della ricerca furono individuate in
una fase successiva. Mentre la ricerca sulle donne si colloca
nell'ambito della Ricerca Azione (Scurati e Zanniello, 1993)
in quanto avviene strada facendo all'interno di percorsi di
counseling, di terapia, di lavoro di gruppo, viene prodotto
un mutamento sociale e una continua negoziazione del ricercatore
con gli attori, quella sugli aspetti psicologici dei processi
migratori al maschile abbandona questo modello e si pone come
ricerca qualitativa nell'ambito della psicologia culturale,
seguendo l'approccio narrativo e autobiografico (Demetrio,
1995; Smorti, 1996). Il metodo biografico come strumento di
ricerca mira a esplorare, attraverso l'analisi di singole
vite, la relazione tra le esperienze sociali e il carattere
personale (Erben, 1996). A differenza dalla psicologia transculturale
che studia la cultura più come indice che come processo, la
psicologia culturale considera la cultura come parte integrante
dell'esperienza umana, non separabile dall'individuo, e pone
l'accento sui processi di sviluppo e di cambiamento in interazione
con l'ambiente socio culturale, senza creare rapporti lineari
di causa ed effetto (Moscardino e Axia, 2001). È questa una
prospettiva costruzionista nella quale avviene un costante
processo interattivo di conversazione e continua negoziazione
dei significati situato in un contesto storico - culturale
(Kaneklin e Scaratti, 1998).
Negli ultimi anni ho raccolto narrazioni emerse in occasioni
diverse: in contesti di consulenza o di terapia [2],
all'interno del monitoraggio di un dormitorio maschile [3],
in colloqui fissati appositamente. In questi ultimi casi,
gli uomini che accettavano di essere intervistati per raccontare
la propria storia migratoria erano a conoscenza della ricerca
e alla fine dell'intervista ricevevano il materiale della
ricerca sulle donne. Tutti i colloqui sono stati individuali
(mentre la maggior parte delle storie al femminile era sorta
in contesti di gruppo), audioregistrati e per una piccola
parte videoregistrati. Tutte gli incontri sono stati gestiti
da me e si sono configurati come un intreccio tra due tipologie
di interviste: "Problem Centered Interviews" e le "Interviste
Narrative". Le interviste "Problem Centered" hanno l'obiettivo
di analizzare il punto di vista del soggetto rispetto al proprio
processo migratorio, dando particolare attenzione ai processi
di costruzione dei significati (Witzel, 1985). L'intervista
è preceduta da un breve questionario che raccoglie alcuni
dati demografici. Al questionario, nell'attuale ricerca, si
è allegata una griglia come guida all'intervistatore con i
punti principali da affrontare nel colloquio. Le Interviste
Narrative hanno inizio con le domande generative riferite
all'argomento di ricerca e in grado di stimolare narrazioni,
in genere autobiografiche. Successivamente il ricercatore
riprende alcuni frammenti di narrazione che ritiene non siano
stati approfonditi, chiedendo di completarli. In un terzo
momento il ricercatore prova a riassumere il significato della
narrazione di fronte al soggetto considerando l'intervistato
l'esperto di sé stesso (Schutze, 1983).
Nella ricerca qui riportata vengono analizzate 42 storie migratorie
di uomini provenienti da:
- Africa Subsahariana e Orientale (Burkina Faso, Costa d'Avorio,
Ghana, Senegal, Eritrea, Etiopia);
- America Latina (Argentina, Bolivia, Perù, Venezuela);
- Asia (Pakistan);
- Balcani ed Europa dell'Est (Albania, Bosnia, Croazia, Serbia,
Bulgaria, Romania);
- Maghreb (Algeria, Marocco, Tunisia).
L'età degli uomini va dai 22 ai 38 anni; il periodo di permanenza
in Italia da pochi mesi a 12 anni, la scolarità da 2 anni
a laurea, con una maggioranza di uomini che hanno completato
le medie inferiori. Anche lo stato civile varia da celibe,
sposati con connazionali che risiedono sia in Italia che nel
paese d'origine, sposati con italiane (minoranza) e divorziati.
Non tutti hanno regolare permesso di soggiorno, nella maggior
parte dei casi la ragione della migrazione è la ricerca di
lavoro per favorire un progresso economico, in altri casi
subentrano le difficili situazioni politiche o di guerra,
intrecciate sempre con la ricerca di un lavoro redditizio.
Non ho inserito nell'attuale ricerca i casi di esilio che,
a mio avviso, sono peculiari. Questa ricerca segue il metodo
qualitativo e quindi non sono stati prefissati dei criteri
per la costruzione del campione. Quest'ultimo si è costituito
man mano che raccoglievo le storie e quindi non è detto che
rifletta l'immigrazione maschile nella bergamasca. Costituisce
però un gruppo eterogeneo che comprende di fatto i tre gruppi
più consistenti nella bergamasca (di provenienza maghrebina,
africana sub sahariana e orientale e balcanica - est europea),
insieme ad un gruppo leggermente meno numeroso dall'America
Latina e una minoranza da paesi asiatici come il Pakistan.
Discorso completamente a parte meriterebbe la comunità cinese
che, malgrado presente, non sono riuscita a contattare in
nessuna delle ricerche. Questa comunità è notoriamente chiusa,
refrattaria alle richieste di partecipazione nelle ricerche
di questo tipo e raramente si rivolge ai servizi locali.
RISULTATI
Spesso emerge nelle narrazioni il racconto di un'esperienza
passata, a volte antica, che ha aperto il solco alla migrazione.
Può essere lo spostamento da un paesino alla capitale in tenera
infanzia, oppure l'uscita di casa per ragioni di studio o
di lavoro. Come se ci fosse una catena migratoria che inizia
in tempi lontani con esperienze che permettono, in un futuro,
di intraprendere un progetto migratorio: "la nonna raccontava
le storie prima che andassimo a dormire. Ricordo che spesso
ci diceva: ' l'uomo non ha fissa dimora, è come un uccello
che vola di albero in albero. Ricordati bene: per vivere dovrai
muoverti!' Quando decisi di emigrare la ringraziai nel cuore".
L'esperienza passata può, come nella citazione, essere un
vissuto o un messaggio tramandato in famiglia. Quasi tutti
gli uomini percepiscono la migrazione come un progetto che
gli appartiene. Alcuni chiedono il permesso ai genitori, altri
condividono il progetto con loro per ottenerne l'appoggio
morale, altri ancora li convincono o semplicemente li avvisano
partendo anche senza il loro consenso, ma quasi nessuno percepisce
il progetto come appartenente ad altri. Le eccezioni sono
fra gli uomini dell'ex Jugoslavia: qualcuno è emigrato perché
un'amica era già partita, qualcuno è stato convinto o spinto
dalla moglie. Anche quando il progetto è stato ideato a partire
dall'esperienza di un amico o di un parente, gli uomini sentono
di prendere una decisione in prima persona: Godou [4]
faceva il saldatore in un'officina meccanica. Un giorno chiamò
un suo amico - collega che lavorava in una carrozzeria e non
lo trovò: era emigrato. Contattò telefonicamente l'amico all'estero
e questi gli raccontò che in Italia un saldatore guadagna
cinque volte di più che ad Abidjan. Siccome Godou si era appena
sposato e la moglie era incinta, necessitava di più soldi
per costruirsi una casa e assicurare un futuro alla famiglia.
Così pensò di partire, progettando di rimanere all'estero
per circa cinque anni e di tornare in patria avendo costruito
la casa e con una somma di denaro che gli permettesse di avviare
un'attività in proprio. Oggi Godou percepisce il progetto
come interamente proprio e non attribuisce nessuna responsabilità
all'amico.
Il protagonismo è spesso fonte di orgoglio, ma quando il progetto
migratorio non funziona gli uomini si trovano a dover giustificare
i propri passi sia a sé stessi che agli altri. Nel periodo
che trascorre tra la decisione e la partenza, gli uomini sono
impegnati nella sistemazione pratica del resto della famiglia
e negli aspetti burocratici. Non ricordano di aver vissuto
un periodo particolarmente intenso dal punto di vista emotivo.
Neanche in risposta alla domanda di quale fosse l'emozione
prevalente riescono ad identificarne una. Molti dicono "la
mamma piangeva molto" come se la madre fosse il veicolo attraverso
il quale le emozioni si esprimono. Non rammentano, oppure
non raccontano, particolari momenti o rituali di commiato
né situazioni di tristezza. Anzi, molti di loro ricordano
la fretta di partire una volta presa la decisione. È questo
però un periodo particolarmente intenso rispetto ai pensieri
sul futuro: la mente si riempie di fantasie riguardo alla
meta, un nuovo mondo di possibilità si apre davanti agli occhi.
Le aspettative di una nuova vita migliore crescono. La partenza
infine è vissuta come un momento trionfale.
Nei racconti emerge il viaggio come una vera e propria fase
del processo migratorio, spesso vissuto con grande difficoltà
per via di incertezze o complicazioni alle frontiere:
"AH! Il viaggio... Era meglio fare il passaggio entrando in
Austria per poi scendere in Italia; così almeno ci era stato
consigliato. Alla dogana ho passato tra otto e nove ore che
ricordo lunghe come secoli. Ad un certo punto mi sono chiesto
se a quella frontiera finiva la mia migrazione. Per ben tre
volte sono entrato in Italia e per altrettante mi hanno rimandato
indietro, cosicché ho pensato che forse fosse il caso di tornare.
Quando finalmente ci sono riuscito ero esausto e il primo
impatto è rimasto devastante, come un'impronta."
Dopo questo lungo viaggio travagliato, l'arrivo spesso è vissuto
come un momento confusionale, poco piacevole, se non devastante.
È come se dopo aver coltivato fantasie e aspettative il primo
impatto non potesse essere altro che deludente. A volte invece
l'Italia è una seconda o terza tappa europea e capita che,
paragonata ad altri paesi, appaia più solare, calda e accogliente:
"avevo preso l'aereo verso Bruxelles, un treno per entrare
in Germania. Faceva freddo, non potevo dormire fuori perché
sarei morto. Sono poi partito per la Francia e, arrivando
in Italia, l'impatto è stato buono: faceva più caldo, c'era
più luce, la gente mi sembrava rilassata e accogliente. Sono
rimasto a Napoli dal '94 fino al 2000. Ora sono al Nord perché
qui c'è lavoro. Un po' mi sono abituato all'Europa, un altro
po' questi posti mi ricordano i paesi del Nord." (Dusmane
era arrivato a Bergamo da Napoli da 15 giorni).
Dopo diversi anni di permanenza nel paese ospitante gli uomini
misurano il successo del progetto migratorio sostanzialmente
sulla base di due criteri:
- situazione lavorativa;
- situazione familiare.
Pochi sono quelli che di propria iniziativa parlano della
situazione sociale, cioè di amicizie e di rete di relazioni
informali. Una volta da me introdotto il tema, spesso parlano
del rapporto con i connazionali e quasi mai delle relazioni
con i locali. Dopo una lunga permanenza nel paese straniero
gli uomini non si sentono particolarmente cambiati riguardo
l'appartenenza, il comportamento e il modo di pensare. Quasi
tutti hanno intenzione di tornare nel paese di origine e molti
hanno progetti concreti:
"Il mio progetto era quello di andare in Francia, trovare
un lavoro e poter mandare soldi ai miei (...) In Francia non
andò tanto bene e scesi in Italia perché avevo degli amici.
Ho trovato lavoro, casa, sono riuscito ad avviare il ricongiungimento
familiare, è arrivata la moglie con il figlio. Il secondo
è già nato qui (...) Ho fatto venire anche mio fratello. Fra
tre o quattro anni avremo la somma necessaria per avviare
l'attività giù. Mia moglie non è tanto entusiasta, ma si convincerà,
potrà tornare alla grande...".
DIFFERENZE DI GENDER
Messi a confronto, gli aspetti psicologici delle migrazioni
al femminile e al maschile rivelano differenze interessanti.
Mentre le donne non percepiscono il progetto come proprio,
ma lo adottano ed eseguono, gli uomini dichiarano quasi tutti
di esserne gli architetti. Anche se nella tradizione femminista
la possibilità di scegliere e di sentirsi protagonista e responsabile
della propria vita viene considerata un pilastro del benessere
e la chiave per riuscire nei progetti di vita (Irigaray, 1992),
sembrerebbe che le donne migranti si sentano sollevate dal
fardello della responsabilità; nei momenti di difficoltà non
devono rendere conto del progetto nella sua globalità. Gli
uomini invece spesso partono già avendo promesso "mari e monti"
alla famiglia e alla comunità generando di conseguenza grosse
aspettative. Ciò li colloca in una posizione di vulnerabilità
e spesso non possono che deludersi e deludere.
Fra i maschi il progetto migratorio concreto e la decisione
di emigrare sono due momenti strettamente collegati: con la
nascita dell'uno compare l'altra. La decisione non viene sottoposta
al consenso della comunità anche se l'appoggio dei genitori
e dell'ambiente circostante non è indifferente. Queste due
fasi per le donne sono invece ben distinte: il progetto appartiene
ad altri; la decisione, successiva, è propria, ma ha come
condizione essenziale la benedizione della mamma. Il tempo
che intercorre tra la decisione di emigrare e la partenza,
per gli uomini è assorbito da occupazioni pratiche e non sembra
che al distacco venga attribuita particolare rilevanza emotiva.
Lo sguardo è proiettato in avanti, le aspettative grandi,
le fantasie di progresso e successo. Sembrerebbe che il pianto
della mamma sia il veicolo attraverso il quale esprimono l'emozione
di tristezza: la figura materna come fonte di calore e punto
di riferimento emotivo. La partenza diventa per gli uomini
l'apice dell'entusiasmo, il momento del volo.
Durante questo periodo, le donne invece hanno lo sguardo rivolto
indietro, verso ciò che lasciano e vivono un momento intenso
di tristezza. La partenza è straziante anche se ha la funzione
di un rituale che permette il passaggio alla nuova vita. Da
queste osservazioni, non emerge quel rapporto lineare tra
il grado di trauma vissuto prima della partenza e il grado
di benessere psicologico nel futuro adattamento degli immigrati,
che alcuni studiosi come Espìn hanno descritto. Sembrerebbe
però che gli uomini arrivino poco preparati ad affrontare
l'impatto con il nuovo mondo: il periodo tra la decisione
di emigrare e la partenza li carica di aspettative che non
possono essere corrisposte in modo automatico. Le fantasie
nutrite collegano l'atto migratorio ad un imminente miglioramento
delle condizioni di vita. L'arrivo, paradossalmente, li posiziona
con lo sguardo all'indietro verso i propri cari, verso il
mondo che hanno lasciato. Cosicché, mentre le donne arrivano
pronte a voltare lo sguardo verso il futuro e a cogliere i
nuovi stimoli, gli uomini hanno bisogno, nella fase iniziale,
di elaborare il distacco. Il non aver vissuto particolari
momenti di addio né intense emozioni collegate alla separazione
fa sì che sentano perdite e mancanze in un momento successivo
e forse meno opportuno rispetto alle donne.
Gli uomini dichiarano di aver bisogno di un lavoro redditizio,
di una casa e della moglie vicina nella fase di inserimento
e anche successivamente; le donne invece fanno un elenco che
contiene aspetti relazionali: potersi autodefinire nei confronti
del diverso, socializzare, crearsi uno spazio autonomo, evitare
rapporti di dipendenza. Analizzando i racconti sui bisogni
durante la fase di sistemazione e adattamento vengono confermati
gli stereotipi del maschio pragmatico e della femmina attenta
agli aspetti affettivi e relazionali. Dopo un lungo periodo
di permanenza all'estero, mentre la maggioranza delle donne
dichiara di sentirsi profondamente cambiata nel comportamento
e nel modo di pensare, la maggioranza degli uomini non avverte
tali mutamenti e sente di rimanere fedele alle proprie radici.
Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che nelle società africane
o dell'America Meridionale la donna è meno indipendente dell'uomo.
Nell'emigrare si viene a trovare catapultata a relazionarsi
in prima persona con il sociale e l'economico senza le costrizioni
e la protezione della rete familiare mentre il maschio, anche
nella società d'origine, spesso si trova preparato a questo
genere di esperienza.Questo tentativo di spiegazione è comunque
parziale perché non tiene conto delle esperienze di molte
donne sottoposte a trasformazioni di segno contrario, che
si sono trovate a dover accettare posizioni lavorative più
umili di quelle che erano solite avere nel loro paese di origine.
Emergono anche similitudini fra i generi: sia uomini che donne
ricordano nella loro narrazione eventi o esperienze passate
che danno luogo al progetto migratorio, confermando le descrizioni
di Sluzki e Musillo, i quali ricordano che la genesi del progetto
migratorio risale a tempi lontani. Entrambi i generi vagheggiano
un ritorno al paese natale. Rispetto all'idea del ritorno
sembrerebbe che siano le donne a pensarlo in modo evocativo.
Musillo riporta il sogno del ritorno come terza fase della
catena migratoria in conseguenza delle difficoltà incontrate.
Nella mia ricerca invece, l'idea del ritorno è piuttosto un
elemento di contenimento che dà senso alla permanenza in un
paese straniero. Gli uomini delineano progetti di ritorno
concreti, sia riguardo al quando che al cosa fare dopo il
rientro. Questo potrebbe essere collegato ad una differenza
di gender, ma anche al fatto che gli uomini mantengono un
forte legame con il paese natale e un profondo senso di appartenenza
senza avvertire in sé cambiamenti che renderebbero difficile
il ritorno. Sia uomini che donne dell'ex Jugoslavia, dell'Albania
e della Romania a volte dichiarano di non avere alcun progetto
di ritorno. Serbi, croati o bosniaci dicono di non desiderare
di tornare nella loro terra perché i loro paesi non esistono
più; gli albanesi e i rumeni sentono che non c'è un luogo
degno di giustificare il loro ritorno.
Dalle narrazioni al femminile e al maschile, oltre alle differenze
di gender sul vissuto psicologico, se ne possono evidenziare
altre relative alla costruzione dei cicli migratori:
Processo migratorio al femminile. | Processo migratorio al maschile. |
1) Progetto antico / esperienza lontana. | 1) Progetto antico / esperienza lontana. |
2) Progetto concreto (di un altro). | 2) Progetto concreto e decisione (propri). |
3) Propria decisione - consenso materno. | ______________________________ |
4) Commiato (tristezza, pianti, rituali). Sguardo indietro. | 3) Preparativi (entusiasmo, fantasie, aspettative). Sguardo verso il futuro. |
5) Partenza (lutto). | 4) Partenza (trionfo). |
______________________________ | 5) Viaggio . |
6) Arrivo (aspettative). | 6) Arrivo (confusione). |
7) Entusiasmo ed euforia. | 7) Confusione e delusione. |
8) Difficoltà, conflitti, rischi. | 8) Reazione - si inizia a lottare. |
9) Cambiamenti e trasformazioni personali. | 9) Sistemazione logistica e lavorativa. |
10) Ritorno (evocativo, immaginario). | 10) Ritorno (concreto). |
RIFLESSIONI
Questo articolo non è uno studio comparativo sul gender ma,
essendo una ricerca qualitativa, riporta l'analisi di narrazioni
messe a confronto. I risultati incrociati delle due ricerche
portano a riflessioni che non hanno pretesa di verità assoluta.
Le considerazioni possono essere utili per l'operatore, nell'incontro
con il migrante. I dati riportati in questa sede sono "culture
free", svincolati cioè dall'analisi delle differenze fra le
culture. Al momento continua la raccolta di storie di uomini
immigrati; lo studio transculturale verrà approfondito con
un maggior numero di narrazioni.
I dati della ricerca azione al femminile sono nella maggior
parte emersi in percorsi di gruppo, mentre quelli della ricerca
al maschile in colloqui individuali. Non penso che la distinzione
sia indifferente e, mentre le variabili della ricerca sulle
donne sono state co-costruite nei racconti, nelle interviste
con gli uomini (tranne che in quelle di terapia e consulenza)
è stata seguita una griglia basata sulle variabili emerse
negli interventi con le donne. Inoltre il percorso di gruppo
con le donne permetteva la costruzione di un clima di intimità
e di condivisione che non poteva crearsi nei singoli incontri
con gli uomini. Interessante riportare che i tentativi per
costituire gruppi di uomini analoghi a quelli delle donne
cono stati infruttuosi (come descritto nell'articolo di Edelstein,
Galvez e Pavioni nello stesso numero di questa rivista).
Da un punto di vista quantitativo i lavori presentati in questa
sede non hanno validità. Il loro significato emerge nella
cornice socio costruzionista, che considera i nuovi significati
costruiti nelle conversazioni e l'osservatore, interno ai
processi. La ricerca sulle donne mi ha spinto a pormi domande
su come sarebbe stata un'analoga ricerca sugli uomini, considerando
le stesse variabili. Le domande mi hanno portato a formulare
delle ipotesi in senso sistemico. Queste ipotesi costruirono
le narrazioni con gli uomini. Sarebbe interessante scoprire
se contenuti e temi delle narrazioni cambierebbero in assenza
di questo contenitore.
Diceva una collega [5]
in un incontro che realizzammo sulla metodologia della ricerca:
"nessuna ricerca è perfetta quando trattiamo i sistemi umani
e non dobbiamo pensare di dover essere perfetti o rigorosi
perché ogni studio è all'interno di una situazione sociale;
possiamo sempre soffermarci sui limiti della ricerca, ma ciò
non ci permette di capire il funzionamento dei sistemi umani".
Ringrazio tutte le donne e tutti gli uomini che mi hanno permesso
di entrare nelle loro storie migratorie.
BIBLIOGRAFIA
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Forschung in der Psychologie, Juttemann, G (ed.), Beltz, Weinheim,
1985, pp. 227-255.
NOTE
[1] Le
narrazioni di donne straniere analizzate sono 100.
[2] Presso
la Shinui - Centro di Consulenza sulla Relazione si svolgono
terapie e consulenze individuali, di coppia, familiari e di
gruppo anche con persone migranti.
[3] A
Bergamo il Comune offre un dormitorio come alloggio momentaneo
per uomini immigrati. Nella struttura c'era precedentemente
un centro d'accoglienza maschile con 100 posti letto. Nell'attuale
dormitorio possono pernottare fino a 30 persone per un periodo
che non superi i 15 giorni consecutivi. Il servizio è aperto
dalla sera fino alle otto del mattino. Nel 2000, con il Servizio
Migrazioni e Cooperazione Internazionale del Comune di Bergamo,
si era deciso di fare un colloquio con ogni ospite del dormitorio
per capire quali adeguamenti questo servizio avrebbe dovuto
apportare per rispondere ai bisogni degli ospiti (i quali
usufruivano dell'alloggio per ben più di 15 giorni e spesso,
lavorando in orari notturni, non riuscivano a godere degli
spazi offerti).
[4] I
nomi sono fittizi per salvaguardare il segreto professionale.
[5] Mary
Olson è Social Worker e psicoterapeuta, insegna alla Smith
University in Massachussetts (U.S.A.). Terapeuta familiare
e femminista, si occupa in particolare di gender, di disturbi
dell'alimentazione e di ricerche qualitative.
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