Approccio dal basso e interculturalità narrativa
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003
IL MODELLO DI LAVORO DI GRUPPO
CON DONNE MIGRANTI
Una rivisitazione al maschile
Cecilia Edelstein
cecilia@shinui.it
Fondatrice e presidente dell'associazione
Shinui (www.shinui.it); Responsabile della Scuola di Counseling
Sistemico Relazionale di Bergamo; collabora come formatrice
e consulente con enti pubblici e privati di numerose città
italiane sul tema dell'immigrazione e della comunicazione
interculturale; coordinatrice e responsabile della ricerca
sugli 'aspetti psicologici dei processi migratori e differenze
di genere' all'interno del Forum sulle matrici culturali dell'Università
degli Studi di Bergamo, presso il Corso di Laurea in Scienze
dell'Educazione, diretto da Pietro Barbetta.
Felipe Sanchez Galvez
elgalgo@mail.com
Psicologo,
terapeuta individuale, di coppia e familiare presso l'Università del
Cile, Santiago, Cile, dove svolge attività di docenza e di terapia
presso il Consultorio Pubblico della medesima Università; ha esperienza
di lavoro con famiglie multiproblematiche e adolescenti, in relazione
all'abuso di sostanze tossiche e alla marginalità in diversi progetti
finanziati dallo Stato del Cile; in Italia dal 2000 per un intercambio
culturale, frequenta il corso quadriennale di Formazione per terapeuti
familiari del Centro Milanese di Terapia della Famiglia di Milano;
partecipa ad un Progetto Sociale presso il Comune di Lecco - Servizio
Minori - e collabora con l'associazione Shinui nell'ambito della ricerca.
Laura Pavioni
laurapavioni@tiscalinet.it
Psicologa,
Psicoterapeuta, in formazione presso l'Istituto Europeo di Terapie
Sistemico-Relazionali (E.I.S.T.) di Milano; lavora come libera professionista
per i Servizi Sociali della Provincia di Bergamo nell'ambito dell'orientamento
e della formazione per le organizzazioni senza fine di lucro; realizza
laboratori di ricerca teatrale con gruppi di adolescenti su temi quali
la dipendenza, la corporeità, le relazioni con la tecnica del linguaggio
del corpo e del teatro dell'oppresso; lavora come psicologa clinica
presso lo studio medico Van Ravenstein di Torre Boldone; socia di
Shinui, collabora con l'associazione nell'ambito della ricerca.
INTRODUZIONE
A partire da una ricerca azione con donne migranti (Edelstein,
2002) è stato sviluppato un modello di lavoro di gruppo basato
sull'approccio sistemico. Questo, partendo dalla terapia familiare
e unito alle idee cibernetiche in un più ampio contesto di
ecologia d'idee, si presta ad un lavoro di gruppo sia perché
riconduce alla dissoluzione dei problemi nelle relazioni e
nelle conversazioni (Anderson e Goolishian, 1992), sia perché
le sue tecniche di lavoro si basano sul sistema costituito
dall'insieme delle persone, dalle loro relazioni reciproche
e dal contesto in cui si trovano (Bozzetto et al., 2001; Ganda,
2001).
Le domande circolari, ipotetiche, riflessive (Tomm, 1987 a;
1987 b; 1988) agevolano la comunicazione circolare, il coinvolgimento
dei partecipanti al gruppo e fanno emergere informazione che
difficilmente comparirebbe con domande lineari. L'ipotizzazione
(Selvini Palazzoli et al., 1980) permette la connessione di
dati senza limitarsi a cercare risposte da un partecipante.
Sollecitando gli altri si ottengono descrizioni delle descrizioni
delle relazioni. Le riflessioni degli altri possono innescare
cambiamenti e questo è simile alla tecnica sviluppata da Andersen
(1987) chiamata il "reflecting team". Parole chiave (Boscolo,1992),
sculture umane (Andolfi, 1977) sono esempi di tecniche verbali
e non verbali adatte al lavoro con i gruppi.
Il modello di lavoro di gruppo con donne migranti sviluppato
da Edelstein risponde ai bisogni nella fase di sistemazione
e adattamento come da loro testimoniati: autodefinirsi nei
confronti dell'altro, socializzare per combattere la solitudine,
utilizzare il proprio linguaggio e quello degli altri, avere
informazione (Edelstein, 2000). Nel '95, quando l'immigrazione
al femminile era ormai riconosciuta come fenomeno avviato
e irreversibile, Edelstein condusse un percorso di gruppo
di donne native e straniere con l'obiettivo di facilitare
lo scambio e creare conoscenza tra etnie e culture diverse.
Il percorso, centrato sul ciclo vitale femminile e della durata
di 6 incontri, era stato promosso da enti pubblici ed istituzioni
del privato sociale [1] e identificato
come "progetto pilota" perché aveva come primi obiettivi quelli
di verificarne interesse e utilità.
La costruzione del gruppo non fu un'impresa particolarmente
impegnativa. Indirizzato il progetto a figure chiave (donne
migranti socialmente coinvolte e rappresentanti italiane del
mondo femminile) queste furono contattate personalmente e
risposero positivamente. Dopo quest'esperienza vissuta con
entusiasmo e dalla quale nacquero iniziative formali e rapporti
informali di amicizia, si presentarono altre occasioni per
costituire dei gruppi, anche soltanto di donne immigrate.
Inizialmente erano creati intorno ad una necessità proveniente
dal campo professionale. Ad esempio, un gruppo fu creato per
capire, in base all'esperienza personale delle migranti, quale
avrebbe potuto essere il profilo della mediatrice interculturale
per istituire un corso di formazione. Denominato corso propedeutico,
aveva l'obiettivo di capire a quali bisogni la mediatrice
interculturale doveva rispondere. Alle donne era esplicitato
che la partecipazione al gruppo non implicava quella al corso
di formazione. La loro disponibilità era gratuita e non retribuita.
Successivamente si formarono gruppi collegati alle richieste
delle donne intorno a tematiche quali maternità e immigrazione.
Anche in queste occasioni fu facile costituire i gruppi e
addirittura si effettuò una selezione sulla base di criteri
di eterogeneità rispetto a provenienza, età, stato civile,
durata di permanenza in Italia, ecc. Le proposte non erano
indirizzate a figure chiave bensì ad un'immigrazione non privilegiata.
I percorsi erano pubblicizzati con l'aiuto delle operatrici
dei servizi sociali territoriali (Comune, Asl) e attraverso
annunci in giornali locali. Le donne venivano anche contattate
da associazioni varie (anche di immigrati) e dalle scuole.
Nelle esperienze che seguirono queste due si ripeté il fenomeno
di affluenza superiore alla disponibilità di posti anche quando
il movente per la costituzione di un percorso di gruppo non
era un bisogno relativo al campo professionale. Ai gruppi
partecipavano circa alle 15 donne, numero che permette sia
uno scambio ricco sia un clima di intimità.
Dopo qualche anno l'utilità dei gruppi per le donne migranti
diventò evidente: queste avevano l'opportunità di incontrarsi,
creare conoscenze e amicizie, raccontarsi e ascoltare le storie
delle loro compagne, rinforzare il proprio senso di appartenenza,
collegarsi con la propria identità, viversi straniere senza
vergogna, uscire dal proprio mondo spesso solitario. Inoltre,
il confronto dava la possibilità di far circolare maggiormente
informazioni pratiche rispetto alla gestione di alcuni aspetti
della vita quotidiana (l'iscrizione dei figli a scuola, pratiche
burocratiche, ecc.). I gruppi offrivano la possibilità di
aprirsi alla diversità e di creare processi di identificazione
e differenziazione che davano luogo ad uno spazio personale.
Si riduceva così il rischio di intensificare l'atteggiamento
di vittimismo, di ghettizzazione, di conflittualità fra etnie.
Il modello di gruppo con donne immigrate diventava una risorsa:
non solo rispondeva ai bisogni delle donne nella fase di sistemazione
e adattamento, ma si rivelava un intervento di prevenzione
rispetto ai rischi che emergono in quella fase: rinchiudersi
in se stesse, relazionare unicamente con connazionali, creare
rapporti di dipendenza, cadere in depressione. Pur non essendo
un gruppo terapeutico, rappresentava per loro un vero e proprio
processo di cambiamento. Le donne diventavano protagoniste
di altre esperienze promosse da loro stesse (organizzazione
di un nido interculturale, di un catering all'interno di un'associazione
di donne migranti). La loro posizione nella società e all'interno
della propria famiglia mutava.
Il modello di gruppo è stato descritto in maniera completa
nella rivista Connessioni (Edelstein, 2000). Riportiamo in
questa sede un breve riassunto: i gruppi, quanto più eterogenei
possibili per agevolare scambio e maggior informazione, sono
costituiti - come già detto - da circa 15 partecipanti per
facilitare il clima di intimità. I percorsi hanno durata limitata
(tra 6 e 8 incontri con verifica e festa finale), si centrano
intorno a una tematica specifica, hanno regole ben definite
(giorno, orario, contratto), si svolgono nella sede dell'Associazione
(spazio né pubblico né privato) e sono condotti da un esperto
che utilizza tecniche sistemiche verbali e non verbali.
Alla fine dell'articolo Edelstein scriveva: "non penso che
gli uomini abbiano meno necessità delle donne di crearsi un
punto di riferimento, né che abbiano più risorse di loro così
da non averne bisogno, anche se tradizionalmente vivono di
più fuori casa, nei luoghi di culto, sul lavoro, nei bar,
negli stadi, spazi in cui è possibile incontrare gli altri
e sentirsi meno soli o trovare risposte ad alcuni bisogni
generati dalla condizione vissuta nella fase di inserimento
e adattamento. Sicuramente il modello necessiterebbe di adeguamenti
a seconda dei contesti." (pag. 83).
Quando scriveva queste righe, Edelstein già stava tentando
di costituire un gruppo di uomini. Dopo vari tentativi in
occasioni e contesti diversi decise di creare un gruppo di
ricerca [2] per verificare interesse
ed eventuale utilità dei percorsi di gruppo per uomini migranti,
così come era stato fatto con le donne. Nel presente articolo
descriveremo la metodologia della ricerca, i tentativi svolti
per costituire i gruppi al maschile, le osservazioni fatte
strada facendo, le ipotesi che tale esperienza ci ha portato
a formulare e le conclusioni alle quali arrivammo dopo due
anni di lavoro.
METODOLOGIA
Nella presente ricerca l'obiettivo è quello di verificare
se il modello di lavoro di gruppo con le donne possa essere
applicato con gli uomini e in tale caso svolgere un'analisi
delle narrazioni al maschile e confrontarla con le autobiografie
al femminile. La ricerca con le donne, come si è visto, si
è sviluppata sotto il segno di una ricerca azione (o ricerca
intervento) condotta con il metodo narrativo. La ricerca azione
discende dai modelli classici di Kurt Lewin. Si possono elencare
aspetti riconosciuti in questo tipo di ricerca: approccio
olistico, particolare significatività del tema per gli attori,
disponibilità del ricercatore a negoziare con gli attori,
intervento terapeutico del ricercatore nelle azioni, assenza
di un metodo predefinito, emancipazione degli attori, impiego
di strumenti descrittivi, produzione di un mutamento sociale
(Scurati e Zanniello, 1993). Diversi ricercatori osservano
che l'utilizzo delle narrazioni di vita sia un metodo di ricerca
particolarmente valido quando i concetti esplorati sono nuovi
e appartengono a territori sconosciuti per i partecipanti
e/o per i ricercatori (vedi ad es. Mishler, 1986 o Riessman,
1993). Altri sottolineano la valenza della narrativa e dell'autobiografia
non solo come metodo di ricerca, ma come intervento attraverso
il quale si creano cambiamenti (vedi ad esempio il numero
4 della rivista "Adultità", 1996, interamente dedicato al
metodo autobiografico). Citando Polkinghorne scriveva Flick:
"Le narrazioni di vita costruiscono e trasformano il passato
in un sé coerente" (Flick, 1998, p.119). Ed Espìn aggiunge
l'aspetto curativo che può avere ri-raccontare la propria
storia migratoria anche se in un contesto di ricerca.
La ricerca ha un carattere qualitativo. Chiaretti, Rampazi
e Sebastiani (2001) parlano della svolta epistemologica degli
ultimi anni che ha risvegliato l'interesse sociologico per
la ricerca qualitativa, dietro la considerazione che "un soggetto
è tale perché è in relazione con gli altri: costruisce se
stesso e il suo ambiente attraverso il linguaggio e si manifesta
nella comunicazione" (pag. 11). Quest'affermazione ha posto
come prioritarie alcune questioni in merito alla metodologia
della ricerca. Il ricercatore sociale è chiamato a mettere
in primo piano l'esperienza: quella dell'osservato, ma anche
la propria, osservatore ed osservato negoziano reciprocamente
i propri ruoli e le proprie posizioni. L'adozione di un punto
di vista che enfatizzi il carattere autoriflessivo della ricerca
è la sua natura di "costruzione progressiva, non lineare e
potenzialmente mai conclusa." (ivi p.11). La responsabilità
del ricercatore necessita di restituzione dell'esito del lavoro
in vista di una ricerca che sia "pratica sociale: prodotto
e, insieme, alimento dell'autoriflessibilità delle società
contemporanee". (ivi p.11) Queste premesse portarono a costruire
un modello di lavoro di gruppo nella ricerca sui processi
migratori al femminile che poteva essere utilizzato anche
nella ricerca che aveva come soggetti gli uomini immigrati.
In questa fase il nostro lavoro aveva come obiettivo quello
di stabilire dei contatti con alcune istituzioni che lavorano
sul territorio con e per gli immigrati al fine di proporre
la ricerca stessa e raccogliere adesioni. La ricerca veniva
presentata sottolineando la necessità di costruire gruppi
di uomini eterogenei per provenienza, età, stato civile, permanenza
in Italia. Veniva anche comunicato che gli incontri avrebbero
avuto cadenza quindicinale per un tempo determinato (6 - 8
incontri) e che sarebbero stati gestiti da una coppia di conduttori:
un uomo e una donna. Questo per assicurare la presenza di
un conduttore maschio che ipotizzavamo avrebbe influito sulle
narrazioni e le riflessioni degli uomini immigrati, essendo
il genere una variabile significativa nella ricerca. Inoltre
il ruolo dei conduttori del gruppo, come professionisti, non
era solo quello di facilitare la conversazione e fare emergere
le narrazioni, ma anche quello più etico di rassicurare i
partecipanti e provvedere a proteggerli dai danni che il racconto
di alcune esperienze traumatiche poteva creare (Espìn, 1999).
Abbiamo però trovato molte difficoltà a costituire gruppi
eterogenei di uomini disponibili ad incontrarsi e a raccontare
la loro esperienza migratoria. Questa empasse ci ha portato
a riflettere, in linea con le nostre premesse metodologiche,
sul fatto che molto probabilmente la ricerca non iniziava
con la creazione del gruppo ma ben prima. Infatti, il processo
di ricerca partiva nel momento stesso in cui contattavamo
istituzioni, operatori e immigrati. Ogni contatto diventava
uno stimolo di riflessione per il gruppo di ricerca; gli incontri
venivano tutti audio o videoregistrati e sbobinati. In questo
modo anche la ricerca al maschile diventava una ricerca azione:
sapevamo da dove eravamo partiti, non sapevamo dove saremmo
arrivati. Siamo quindi passati consapevolmente dalla condizione
di ricercatori all'essere membri stessi della ricerca. Il
percorso, per come si sviluppava ci modificava e ci portava
a nuove riflessioni. La circolarità ci faceva tornare su noi
stessi, la riflessività pensare al sistema come a un insieme
che coinvolge attivamente i ricercatori con le proprie esperienze,
le proprie opinioni sull'immigrazione e i propri pregiudizi,
non più come condizioni che si dovevano evitare, bensì come
considerazioni caratterizzanti e fondanti la nostra ricerca
azione. Da qui nasceva l'idea di non porre condizioni a priori
nella costituzione dei gruppi, ma di osservare la ricerca
in divenire.
PROCESSO
Furono coinvolti nella ricerca un Centro di Educazione per
gli Adulti cui si rivolgono prevalentemente persone provenienti
dall'Africa del Nord, dall'America Latina e dall'est Europeo;
una comunità di accoglienza che ospita 70 persone prevalentemente
provenienti dall'Africa; un commerciante asiatico che aggrega
nel suo negozio di generi alimentari numerosi singoli e famiglie
provenienti dall'Asia (soprattutto India e Pakistan); un uomo
attivo in un'associazione culturale di immigrati, proveniente
dal Senegal. Per ogni contatto osservavamo e prendevamo atto
di ciò che succedeva nella contrattazione fra le parti (fra
noi e l'ente o il singolo) cui proponevamo la ricerca. Questa
trascrizione minuziosa del processo in itinere ci permetteva
di formulare ipotesi rispetto a quello che stava succedendo.
Presso il Centro di Educazione per gli Adulti, dopo una lunga
contrattazione con il Responsabile sulle modalità di presentazione
della ricerca e di coinvolgimento degli immigrati, il progetto
si arenò su problemi di natura burocratica (inerenti il Provveditorato
agli Studi).
Per quanto riguarda invece la comunità d'accoglienza, dopo
alcuni incontri di contrattazione il responsabile ci disse
che nutriva delle perplessità rispetto alla modalità con cui
proponevamo la ricerca. Per riuscire a coinvolgere gli uomini
era necessario creare dei cambiamenti. La sede degli incontri
del gruppo avrebbero dovuto essere la comunità stessa perché,
a suo avviso, gli ospiti non sarebbero arrivati alla sede
dell'associazione (peraltro vicina); il percorso avrebbe dovuto
svolgersi nelle ore serali, dopo cena; chiedeva inoltre di
diminuire il numero di incontri perché nessuno sarebbe stato
interessato a partecipare a una serie di 4 o 5. Le richieste
di cambiamento erano tre: il luogo, l'orario, la durata del
percorso. Dopo aver dato la nostra disponibilità, l'operatore
ci disse che si sarebbe occupato di proporre il percorso ad
una decina di ospiti, quelli più attivi e coinvolti, ma non
ci riuscì (non sappiamo quali tentativi abbia fatto); non
fummo in grado di contattare gli uomini personalmente: il
responsabile non credeva nella possibilità di costruire un
gruppo e coinvolgerlo nel progetto anche se la ricerca gli
sembrava interessante.
Il commerciante asiatico, dopo essersi dichiarato in un primo
incontro disponibile a partecipare alla ricerca, si manifestò
scettico rispetto alla possibilità di coinvolgere gli uomini
in un impegno che gli appariva gravoso considerando i vincoli
lavorativi e familiari. Inoltre espresse a più riprese l'impossibilità
di ingaggiare uomini di diverse provenienze in incontri di
gruppo. La sua idea era che, vista la situazione conflittuale
in cui si trovavano alcuni paesi del bacino asiatico (India
e Pakistan), diventava impossibile per queste persone mettersi
a un tavolo a dialogare e a raccontarsi. Anche il presidente
dell'associazione di immigrati si dimostrò interessato alla
ricerca e contattò una ventina di conoscenti ai quali chiese
di compilare un questionario da noi consegnato, per raccogliere
i dati per la costituzione dei gruppi. In un secondo momento
ci disse che i suoi amici erano perplessi perché non essendo
un impegno a pagamento preferivano incontrarsi nelle case
o al bar. Inoltre diffidavano di tali incontri poiché qualcuno
non aveva regolare permesso di soggiorno, altri temevano che
fossimo coinvolti con servizi pubblici o con la Questura.
Dopo questi diversi tentativi di costituire gruppi eterogenei
di uomini immigrati arrivammo a formulare alcune ipotesi sull'impossibilità
di utilizzare con gli uomini il modello di lavoro di gruppo
messo a punto con le donne. Una prima ipotesi, collegata a
differenze di genere, presupponeva che gli uomini non avessero
gli stessi bisogni e possibilità delle donne e che inoltre
non percepissero il gruppo come una risorsa. Per questo motivo,
pensammo che per poter costruire dei gruppi al maschile dovevamo
abbandonare i criteri usati con le donne. Pensammo quindi
a gruppi omogenei per quanto riguarda la provenienza, ma ciò
non bastava. Emerse anche l'idea, forse più un'intuizione,
che dovevamo porci con gli uomini immigrati in una relazione
di scambio in cui le persone potessero percepire un ritorno
più concreto, di tipo materiale, rispetto al lavoro che proponevamo.
Infine, in un'ottica costruzionista, sarebbe stato molto interessante
svelare quale tipo di esperienza nasceva in base ai bisogni
dei partecipanti. Pensammo che proporre la ricerca agli uomini
immigrati come un processo da costruire insieme poteva permetterci
di fare qualche percorso di gruppo. Questo nuovo approccio
ci sembrava in linea con le premesse che stavano dietro alla
ricerca azione.
IL GRUPPO
Nell'ottica dello scambio decidemmo quindi di contattare e
di proporre la ricerca ad alcune associazioni di immigrati.
Contattammo l'associazione Eritrea di Bergamo che rispose
con entusiasmo alla nostra proposta. La ricerca venne illustrata
come un percorso dell'associazione Shinui. Il primo incontro
con l'associazione Eritrea, a cui intervennero tre uomini,
si centrò sulla presentazione reciproca delle proprie enti
di appartenenza. Gli uomini eritrei ci raccontarono la storia
della loro associazione, come si era costituita e quali obiettivi
perseguiva. Ci dissero che l'associazione era un ponte tra
l'Italia e l'Eritrea per sostenere e favorire lo sviluppo
del loro paese di provenienza. Noi, a nostra volta, presentammo
il nostro Centro e la ricerca sugli aspetti psicologici dei
processi migratori che volevamo proporgli, compreso il lavoro
con le donne. I tre uomini si dimostrarono disponibili ed
interessati a partecipare. Fissammo quindi un altro appuntamento
con l'obiettivo condiviso di ascoltare le loro storie migratorie.
Parteciparono a questo secondo incontro le stesse persone
intervenute nel primo.
Durante la stessa serata, articolata in una conversazione
libera, a turno ci raccontarono come scapparono dal loro paese
tormentato da una guerra trentennale. Nei racconti si dilungarono
sulla storia della loro nazione e sulle problematiche di tipo
politico. Ci raccontarono le difficoltà e il disorientamento
della fuga, le varie tappe del viaggio che li portò, con tempi
diversi, prima in Somalia, poi in Europa. Narrarono i vissuti
dei primi tempi in Italia, le difficoltà ad avere un permesso
di soggiorno, le condizioni di clandestinità in cui versarono
per molto tempo. Nonostante il lungo periodo trascorso in
Italia (30 anni!) non hanno mai abbandonato l'idea del ritorno
alla terra natale. Nutrono, a tutt'oggi, forti emozioni di
nostalgia e condividono un profondo sentimento di appartenenza
all'Eritrea.
Raccolte le storie sul processo migratorio, nell'ottica dello
scambio, ci confrontammo rispetto al seguito: cosa potevamo
fare e costruire insieme? Gli uomini eritrei espressero il
desiderio di confrontarsi su alcuni temi di natura politica
e civile che riguardano l'Italia e l'immigrazione. Si concordò,
quindi, di organizzare insieme una serata culturale in cui
far incontrare e dialogare cittadini italiani e stranieri.
CONCLUSIONI
Siamo oggi del parere che il modello di gruppo così come costruito
con le donne immigrate non risponda ai bisogni degli uomini.
Oltre all'ipotesi già avanzata di differenze di genere intorno
al bisogno di narrare le proprie storie in gruppo, possiamo
evidenziare aspetti che richiedono un adeguamento per riuscire
a coinvolgere gli uomini in percorsi di gruppo.
1) Eterogeneità - omogeneità:
sembrerebbe che gli uomini immigrati mantengano stretti rapporti
con i connazionali e che, all'interno di un'attività che riguarda
aspetti personali, abbiano difficoltà ad incontrarsi con uomini
provenienti da altri paesi. Questo a volte è dovuto a conflitti
internazionali conclamati, come ad esempio fra India e Pakistan,
ma anche a difficoltà a gestire relazioni con persone identificate
come appartenenti a culture o religioni diverse. Risulta interessante
osservare che le donne non attribuiscono lo stesso significato
alle differenze culturali e religiose nei micro rapporti:
nemmeno quando esiste un conflitto fra nazioni esse si sottraggono
alla relazione.
2) Spazio:
gli uomini preferiscono incontrarsi in luoghi privati come
la casa o ambienti pubblici come il bar. Il ritrovarsi in
uno spazio che appartiene ad un'associazione viene spesso
percepito come contatto con il settore o le autorità pubbliche
e quindi come potenzialmente pericoloso anche quando la persona
ha regolare permesso di soggiorno. Sembrerebbe che le donne
invece tendano a fidarsi maggiormente delle proposte provenienti
dai servizi attribuendo a queste il significato di risorsa.
3) Orario:
gli uomini dichiarano di essere occupati in attività lavorative
durante il giorno e di non desiderare impegni serali, anche
se potrebbero essere un'attività piacevole che favorisce la
crescita personale. Sembrerebbe che sabato pomeriggio e domenica
siano praticamente l'unico tempo di ritrovo. L'unica alternativa
è, ovviamente, la seconda serata, dopo le 21.
4) Durata:
anche la proposta di partecipare ad un percorso di oltre due
incontri intorno alle proprie storie migratorie sembra improponibile
agli uomini, mentre per le donne il minimo che si poteva proporre
erano sei incontri di tre ore ciascuno a cui ne veniva sempre
aggiunto uno finale accompagnato da musiche e cibi tipici.
5) Utilità:
parrebbe che il significato relazionale e affettivo che i
percorsi di gruppo rivestono per le donne non venga considerato
dagli uomini. Per partecipare a tali gruppi gli uomini devono
percepire una convenienza immediata di tipo materiale o per
lo meno concreta. La via alternativa che abbiamo proposto
è stata quella di porci in un rapporto di scambio (come suggerito
dall'unico ricercatore maschio). Potrebbe essere che gli uomini
usufruiscano di una varietà di spazi di incontro a cui le
donne non possono accedere e che questa proposta sia un'opportunità
unica per le donne mentre per gli uomini un impegno in più.
Tuttavia, con una proposta di scambio, in tarda serata, per
ben due volte, abbiamo incontrato un gruppo omogeneo di uomini
immigrati che con entusiasmo e ricchezza di particolari hanno
condiviso con noi le loro storie migratorie. E' interessante
però notare che alla fine del secondo incontro gli uomini
proposero di organizzare insieme, come associazioni, un'attività
culturale con taglio socio - politico. Non pensiamo che questa
proposta sia priva di significati nel contesto di confronto
fra i generi.
Ci chiediamo se la difficoltà nella costituzione dei gruppi
al maschile non sia collegata anche ai pregiudizi che gli
operatori nutrono. Infatti, abbiamo trovato più perplessità
e meno disponibilità fra gli operatori che non nel contatto
diretto con i migranti. Si potrebbe ipotizzare che i bisogni
degli uomini siano determinati in parte dalle aspettative
stesse degli operatori che entrano in contatto con il fenomeno
migratorio.
Siamo entusiaste della svolta che ha subito il lavoro, diventato
anch'esso una ricerca azione in cui i partecipanti si trasformano
in co-ricercatori. La narrazione riportata in questo scritto
rappresenta comunque soltanto una fase iniziale del lavoro.
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Tomm, K. Interventive interviewing parte III - Intendi
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(a cura di Juttemann), G Qualitative Forschung in der Psychologie,
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NOTE
[1] Il progetto è stato promosso dal
Comune di Bergamo insieme ai Servizi Sociali della Provincia,
all'associazione "Infanzia & città" e alla Fondazione Serughetti
"La Porta" (centro culturale privato che studia temi sociali
e storici tra cui il fenomeno migratorio). L'iniziativa è
stata finanziata dai Servizi Sociali della Provincia.
[2] Il gruppo di ricerca è costituito
attualmente dagli autori dell'articolo e da Barbara Resta,
soci dell'associazione Shinui - Centro di Consulenza sulla
Relazione, un centro culturale professionale (www.shinui.it).
Il gruppo, a sua volta, è parte di un forum permanente di
ricerca presso l'Università degli Studi di Bergamo, promosso
da Barbetta (https://wwwesterni.unibg.it/siti_esterni/sde/matriciculturali/).
Ringraziamo i colleghi che hanno partecipato in diverse fasi
della ricerca, in particolare Stefania Francini, Gabriela
Gaspari, Flavio Nascimbene.
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