
Approccio dal basso e interculturalità narrativa
Orazio Maria Valastro (a cura di)
M@gm@ vol.1 n.2 Aprile-Giugno 2003
IMMIGRAZIONE, INTEGRAZIONE, CITTADINANZA
IN BELGIO
Alcune considerazioni semantiche
(traduzione Orazio Maria Valastro)
Ivan Dechamps
ivandechamps@altern.org
Laureato in Servizi Sociali, Diritto e Sociologia; ha lavorato in qualità di ricercatore e assistente presso l'Università; ha pubblicato diversi studi di sociologia sulla religione, i servizi sociali, la povertà e l'esclusione sociale, l'immigrazione, il diritto degli stranieri e le scienze amministrative.
Il dibattito politico
sull'immigrazione in Belgio è molto spesso focalizzato attorno
al binomio immigrazione-delinquenza e al successo o fallimento
di quello che alcuni responsabili politici definiscono 'l'integrazione'
delle popolazioni provenienti dall'immigrazione. Questo dibattito
- è necessario dirlo? - stimola di consueto delle idee attinenti
con le 'prenozioni', rappresentazioni formate dalla pratica
e per la pratica, citando Durkheim [1],
piuttosto che con i concetti, quella formula che precisa indiscutibilmente
le caratteristiche delle realtà considerate. E' necessario
dunque riflettere a quello che si dice quando si parla di
migrazione. Intraprenderemo pertanto un piccolo e salutare
esercizio semantico su alcuni termini quali 'straniero', 'immigrato',
'allogeno', 'esclusione', 'integrazione', 'assimilazione',
'minoranza etnica', 'discriminazione', 'cittadinanza', poiché
queste parole veicolano dei significati diversi che non sono
intercambiabili.
A. Riflessioni su alcuni termini [*]
Lo straniero
Tutto ha inizio con la presenza dello straniero su di un dato
territorio. Lo "straniero", nell'era degli Stati Nazione,
è l'individuo che non possiede la nazionalità del paese in
cui risiede. La nazionalità contraddistingue l'appartenenza
di una persona alla popolazione specifica di un territorio
e gli garantisce, in questo spazio, un diritto di cittadinanza;
sanzionando la prossimità tra i membri del gruppo individuato
dallo spazio in cui risiedono. E' una nozione giuridica. Il
diritto interno allo Stato di residenza determina in questo
modo chi è straniero nel suo territorio, non la razza, l'etnia
o la cultura. Ma se il diritto definisce chi è straniero e
chi non lo è, se dichiara inoltre, da questa distinzione,
chi può avere accesso al territorio, soggiornarvi, stabilirvisi
o esserne allontanato (e come può esserlo), di quali diritti
può avvalersi lo straniero e a quali doveri deve sottostare,
non enuncia il processo migratorio e le sue conseguenze che
mettono in evidenza un altro genere di conoscenze, un'altra
comprensione della migrazione.
L'immigrato
Nel territorio dello Stato che lo definisce, giuridicamente,
come straniero, il migrante è un "immigrato" che vive in una
collettività nazionale che non è la propria, una collettività
che gli è estranea. A. Sayad parla di sé stesso come di uno
straniero in soggiorno provvisorio, un forestiero nella nazione,
colui a proposito del quale non si è mai pensato che potesse
rimanere, come lui stesso non lo considerava alla stregua
delle autorità poiché, nella storia delle migrazioni nell'Europa
occidentale, era unicamente il lavoro che ne giustificava
la presenza [2].
L'immigrato è, menzionando Simmel, lo straniero che, arrivato
oggi, resterà domani, "[...] il viaggiatore potenziale in
qualche modo: nonostante non abbia proseguito il suo cammino,
egli non ha affatto rinunciato alla libertà di andare e venire"
[3].
Gli immigrati al contrario sono cambiati, si sono installati
nella società di accoglienza, i lavoratori sono diventati
delle famiglie e le ondate d'immigrazione che il Belgio ha
conosciuto già dalla seconda guerra mondiale sono adesso generazioni,
la prima ha dato origine alla seconda, la seconda ad una terza,
eccetera. Il transitorio è diventato duraturo ed anche definitivo,
la forza lavoro è diventata forza demografica. Possiamo ancora
parlare d' "immigrato", senza equivocare, se la riflessione
non considera lo straniero che ha vissuto la migrazione? Certamente
no, perché se l'immigrato è propriamente un sopravvenuto che
introduce in un gruppo determinato territorialmente delle
caratteristiche fino allora sconosciute, i suoi discendenti,
nati in questo gruppo, non lo sono. Anche se non possiedono
la nazionalità dello Stato nel quale nascono, anche se sono
giuridicamente stranieri, sociologicamente, non sono dei sopravvenuti,
degli "stranieri". Sono, progressivamente, degli "autoctoni"
contraddistinti più dalla prossimità della loro presenza che
non dalla distanza della loro ascendenza.
L'allogeno [4]
Da qui il bisogno di un altro vocabolo per designare queste
persone che non sono immigrate ma che sono gli eredi dell'immigrazione,
un altro vocabolo per indicare questa ricomposizione della
dialettica della distanza e della prossimità. Il termine "allogeno"
assume sovente questa funzione in Belgio, essenzialmente fra
i locutori di lingua olandese, influenzati dal discorso scientifico,
politico e mediatico olandese. Questo termine, "allogeno",
è sconosciuto, se non dalla lingua francese (è un termine
tecnico della botanica e della zoologia e si adopera per indicare
una specie di recente apparizione nella regione considerata),
almeno dal pensiero sociale e dalla letteratura scientifica
di lingua francese. Questo neologismo designa molto estesamente
l'insieme delle persone che hanno un legame con l'immigrazione,
o lo hanno avuto, e assume un suo significato rispetto al
suo stesso contrario "autoctono" che in francese significa
"colui che è nativo del territorio stesso in cui abita", chi
non ha dei rapporti con l'immigrazione, chi è indigeno. Ma
lo straniero (in senso giuridico) che è nato nella società
di accoglienza e che vi risiede è, per definizione, indigeno
non possedendo pur tuttavia la nazionalità del suo luogo di
nascita; mantiene certi legami con l'immigrazione a causa
della sua ascendenza ma si radica nel suolo in cui abita,
egli è dunque autoctono e non allogeno.
Il termine allogeno crea confusione ma presenta senza dubbio
qualche utilità per gli ideologi nazionalisti: l'allogeno,
qualunque cosa faccia, ovunque nasca, di qualunque nazionalità
sia, è marchiato dall'estraneità. L'eventuale acquisizione
della nazionalità dello Stato di residenza non ne farebbe
mai completamente un membro di questa collettività nazionale,
un "cittadino di nascita", la sua esistenza sarebbe sempre
radicata altrove, sarà sempre al di fuori. All'origine dell'uso
di questo termine che si colloca nell'ambito di una società
che afferma con forza la sua identità nazionale o culturale,
una società in definitiva insufficientemente o artificiosamente
aperta [5],
troviamo una concezione attinente all'essenzialismo, per la
quale l'uomo è destinato nei confini di una cultura specifica.
Poiché essa non può definire con un termine proprio questi
uomini e queste donne venuti da altrove e i loro discendenti
che popolano il territorio della società di accoglienza, il
pensiero francofono utilizza delle perifrasi. Di queste popolazioni
che sono a volte straniere nel senso giuridico ma che, col
passare del tempo, sono sempre meno estranee per le loro usanze
e le loro traiettorie, è opportuno affermare che sono "provenienti
dall'immigrazione" o "originarie" o ancora "di ascendenza
immigrata".
L'esclusione
In virtù di questo radicamento, non si capisce perché ci si
ponga ancora la questione della loro "integrazione", e questo
comporta che esse vivano, poiché popolazioni provenienti dall'immigrazione,
una condizione di "esclusione sociale". Né la nozione di integrazione,
né quella di esclusione sociale ci sembrano pertinenti per
esprimere il sociale presente. Siamo sicuri che l'attuale
questione sociale sia quella dell'esclusione, questione nata
dallo studio del sotto proletariato francese della metà del
secolo scorso? Che le società europee sono fratturate, sbriciolate,
segregate, dislocate, sconnesse? Che i sotto proletari e le
popolazioni provenienti dall'immigrazione siano al di fuori
della società, delle strutture, del diritto? Che siano in
un "non luogo"? [6]
Se l'esclusione può, almeno in parte, caratterizzare la condizione
di persone che vivono nella miseria nera dell'erranza o nella
clandestinità, è indebito associare sistematicamente al sotto
proletariato o ad una immigrazione regolare, le cui traiettorie
e le identità sono differenti da quelle dei senza fissa dimora,
i vagabondi o gli immigrati irregolari.
L'identità
L'identità ("noi" e "loro"), lo sappiamo, è una costruzione
sociale, anche nella sua dimensione soggettiva, e non uno
stato di natura. E' una manifestazione sociale variabile definita
da ciò che le è esteriore. L'attitudine della società d'accoglienza
statuisce l'identità della popolazione migrante in maggior
misura che non questa stessa attitudine, considerata come
espressione dell'identità dei migranti e dei loro discendenti
[7],
sia che ne scaturisce - la politica della minoranza etnica
- , sia quando cerchi di contrastarla - la politica dell'assimilazione.
L'assimilazione
Il processo sociologico per il quale le persone che sopraggiungono
in una collettività qualunque ne adottano progressivamente
i suoi usi e costumi, l' "assimilazione", è un fatto noto.
Col tempo i sopravvenuti diventano simili ai membri installatisi
nella collettività di accoglienza. L'assimilazione sopprime
le differenze culturali, conducendo all'adattamento del sopravvenuto
e dei suoi discendenti al loro (nuovo) ambiente, generazione
dopo generazione, tanto è vero che le nazioni moderne producono,
in gran parte, gli individui che li compongono fino a includere
quello che Mauss chiamava, in un testo premonitore, le "tecniche
del corpo" [8].
In questo senso, la società moderna è un crogiolo dove si
fonda una identità comune da identità particolari. Una politica
di assimilazione, al contrario, riposa sull'idea che la sopravvenienza
di elementi stranieri induce il pericolo dell'anomia, della
disorganizzazione morale della società di accoglienza. La
coesione non può essere ritrovata, di conseguenza, che nella
soppressione dell'alterità, e il ritorno alla purezza originale
attraverso il mantenimento della differenza (la relegazione
in spazi delimitati) o l'espulsione (il ritorno forzato, l'allontanamento
o quello che si definisce la "doppia pena"). Questa politica
spontanea non concepisce che la ferita dello sradicamento
si cura, nell'immigrato, attraverso il rapporto mantenuto
con la terra d'origine (sicuramente in parte fantasticato
- il mito del ritorno si fonda sul passato e non sul presente
della società di origine - ), e, per i suoi discendenti, attraverso
il tempo che scorre, l'incorporazione delle disposizioni soggettive
dominanti della società di accoglienza, la loro integrazione.
L'integrazione
L' "integrazione" è il termine generico con il quale si definisce,
tra le altre cose, l'adattamento alla società di accoglienza
dello straniero che può installarvisi durevolmente. E' un
processo di acculturazione. Questa nozione significa inoltre,
secondo Durkheim, la solidarietà di elementi dissimili che
formano, nonostante la loro assenza di similitudine, un tutto
organico [9].
L'integrazione, in questo senso, è la composizione di differenze
attorno ad un denominatore comune. L'interdipendenza tra i
membri di una qualunque collettività arrivati di recente e
gli altri installatisi da qualche tempo, la loro oggettiva
cooperazione. L'integrazione è sempre indicata come il collante
dei rapporti sociali. Si riconoscerà che la nozione è ambigua
e che dissimula l'ideale dell'organicismo: al di là della
cooperazione, una società integrata è una società senza conflitti,
senza spaccature, senza alterità se non passeggere. Una politica
d'integrazione interessa dunque, in senso stretto, delle persone
sopravvenenti, degli immigrati, e non i loro discendenti che
si adattano, questi ultimi, poco a poco, alla società di accoglienza
mostrandone le caratteristiche comuni. Gli uni e gli altri
non formano una minoranza etnica dai contorni identificabili
in seno ad un tutto culturale e sociale compiuto [10].
La minoranza etnica
La "minoranza etnica" è un gruppo umano meno numeroso definito
da una identità culturale propria che condivide un dato territorio
con un altro gruppo umano più numeroso definito da un'altra
identità culturale. La nozione implica la similitudine in
seno ai gruppi e l'inferiorità di un gruppo rispetto ad un
altro. Questa non concerne, in se stessa, un significato cooperativo,
ma segna la minoranza nella sua differenza. L'implementazione
di una politica di migrazione, in base alla logica della minoranza
etnica, implica che i gruppi umani presenti sul territorio
siano definiti e trattati dalle autorità pubbliche in funzione
della loro propria identità culturale; sono accomunabili.
Così la nozione di minoranza etnica contribuisce a rendere
permanente le differenze dei gruppi umani. La diversità è
elevata al rango di natura e fonda l'azione pubblica: le minoranze
etniche essendo composte d' "allogeni", la nozione è perfettamente
compatibile con la residenza permanente ma non lo è con la
cittadinanza effettiva, né con la sensibilità delle culture,
né con le caratteristiche individuali. E' una concezione dell'essenzialismo
che può sfociare nella negazione dell'individuo (definito
unicamente per la sua appartenenza comunitaria, la sua origine,
la sua estraneità) così come nell'arroccamento dei riferimenti
culturali e dei rapporti sociali dei gruppi di popolazione
interessate.
B. Quali nozioni utilizzare?
Bisogna concepire altrimenti la presenza delle popolazioni
legate all'immigrazione sul territorio di accoglienza: allontanare
con altrettanta forza la soppressione delle differenze nella
società integrata così come la loro sovrapposizione nella
società multiculturale. Uscire dalla concezione dell'essenzialismo
a sostegno di un pensiero dialettico.
L'inclusione
Se vogliamo infine considerare come l'inclusione riuscita
delle popolazioni migranti o provenienti dall'immigrazione
nella società di accoglienza accosta paradossalmente il rispetto
dei principi fondamentali della società di accoglienza, il
rispetto della diversità culturale così come la volontà di
far partecipare quelle popolazioni agli obiettivi dei poteri
pubblici, avremmo fatto un grande passo in avanti nella comprensione
dell'immigrazione e delle sue conseguenze. L'integrazione
è, in questo caso, l'accettazione reciproca della società
di accoglienza e delle popolazioni sopravvenute in questa
società. Essa si concretizza attraverso la partecipazione
delle popolazioni provenienti dall'immigrazione regolare ai
movimenti della società di accoglienza e non tramite la loro
assimilazione forzata alla cultura del luogo di accoglienza.
Essa è anche l'accettazione del crogiolo nel quale la diversità
ne è la risultante e, inversamente, la comunanza risiede nella
singolarità. Vogliamo allora pensare l'integrazione come un
doppio registro: sociologico, essa è effettiva quando i comportamenti
delle popolazioni provenienti dall'immigrazione convergono
verso quelli delle popolazioni originarie a condizione sociale
uguale e quando gli elementi significativi di queste popolazioni
conoscono una mobilità sociale ascendente; politica, essa
è un concreta quando gli orientamenti dello sviluppo sociale
sono l'oggetto del dibattito e dell'azione delle quali queste
popolazioni sono partecipi. La partecipazione, quando la si
consideri secondo uno di questi punti di vista, si rappresenta
più adeguatamente con il termine "inclusione" piuttosto che
con quello d' "integrazione".
La nozione d' "inclusione" è certamente discutibile. Per gli
uni, insiste insufficientemente sulla solidarietà degli elementi
dissimili, sulla loro interdipendenza, e impedisce l'elaborazione
di un progetto di società comune (peggio, nasconderebbe una
logica di minoranze?) [11]
quando invece per gli altri, ai quali non apparteniamo, realizza,
lontano da qualsiasi organicismo e differenziazione, l'alchimia
dell'unicità e della comunanza. Situata tra la volontà di
assimilazione e la logica della minoranza etnica, questa nozione
permette, ci sembra, di pensare sia alla differenza, sia alla
similitudine e alla vita in comune. Una politica d'inclusione
delle popolazioni provenienti dall'immigrazione ricerca il
bene comune per e nella mutua accettazione delle differenze
e della condivisione dei progetti. Favorisce la partecipazione
politica, sociale, economica e culturale utilizzando la diversità
come veicolo di similitudine e, inoltre, non collega la partecipazione
dello straniero nella collettività nazionale alla sorte riservata
al connazionale all'estero: fondata sull'eguaglianza esercitata
qui e ora e non sulla reciprocità, l'inclusione è la dialettica
della similitudine e della differenza. Ne consegue la coesistenza
pacifica in quanto ciò che isola, nella similitudine, è respinto
e ciò che distingue, nella differenza, è rispettato senza
impedire la cooperazione.
L'(in-)eguaglianza e la (non-)discriminazione
L'inclusione è fondata sul principio dell'eguaglianza che
la società di accoglienza mette in opera, per scelta, senza
preoccuparsi di sapere se altri Stati procedono ugualmente,
se esiste reciprocità. L'eguaglianza si comprende in queste
due accezioni. E' innanzitutto un rapporto tra persone. Significa
che gli individui piazzati in una identica situazione devono
essere trattati in modo equivalente. L'ideale democratico
esige che la legge sia la stessa per tutti e che i privilegi
siano aboliti. L'eguaglianza tra le persone è posta dal diritto.
Essa è funzionale e la sua difesa passa attraverso la lotta
contro le discriminazioni. Noi, ormai, non siamo più in una
politica dell'integrazione ma in una fase ulteriore poiché
la lotta anti-discriminatoria coinvolge, per definizione,
delle persone dotate dei medesimi diritti e dei medesimi doveri
che tuttavia, senza una giustificazione ragionevole, non sono
trattate ugualmente mentre la politica d'integrazione riguarda
delle persone che non sono, per definizione, nella stessa
condizione delle popolazioni originarie poiché queste sopravvengono
nella società di accoglienza. La discriminazione può derivare,
intensa in questo modo, dalla regola o dal comportamento intenzionale,
essa è ben definita o visibile. Può dipendere da disposizioni,
criteri o trattamenti apparentemente neutri ma che hanno,
per la loro applicazione, degli effetti nefasti per alcuni
gruppi o per alcune persone in ragione della loro appartenenza
a questi gruppi; in questo caso, essa è indiretta o dissimulata.
Può rilevare anche da pregiudizi o da comportamenti che hanno
come effetto quello di mettere in una situazione di svantaggio
dei gruppi o delle persone in ragione della loro appartenenza
a questi gruppi, ma la responsabilità del danno causato non
è attribuibile a chiunque; essa è allora strutturale.
La discriminazione è dunque una differenza di trattamento
la cui illegittimità è posta dal diritto che la reprime ma
ogni distinzione o differenza di trattamento non è, in se,
illegittima o deplorabile. La discriminazione strutturale
riceve la sua illegittimità, per quello che le concerne, dalla
morale pubblica o dalla riflessione etica che sfocia qualche
volta sull'elaborazione di politiche dette di "discriminazione
positiva", nozione paradossale che mira a ristabilire l'eguaglianza
attraverso l'ineguaglianza di trattamento. Una differenza
di trattamento che nuoce allo straniero può dunque essere
stabilita dal legislatore senza derivare, ciononostante, dalla
discriminazione o dal razzismo. Questa differenza di trattamento
stabilita a detrimento dello straniero, per non essere discriminatoria,
deve riposare su un criterio oggettivo ed essere ragionevolmente
giustificata; la giustificazione si valuta tenendo conto del
rapporto tra lo scopo perseguito e la disposizione legale
e in funzione della natura dei principi in causa. Il principio
di uguaglianza è violato quando non esiste un rapporto ragionevole
di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli scopi perseguiti.
L'uguaglianza dei diritti, l'eguaglianza formale, stabilisce
ciò nondimeno una misura comune tra individui distinti (il
godimento di diritti) ma non tiene conto delle ineguaglianze
esistenti nella ripartizione dei benefici della vita in società
tra i soggetti di diritto, non si preoccupa delle condizioni
di esercizio dei diritti dichiarati dai testi in vigore.
Giacché l'eguaglianza è anche un rapporto tra gruppi sociali.
L'eguaglianza sociale richiede che i gruppi collocati nella
stessa condizione siano trattati in modo equivalente, e che
solo il merito li divida: è ancora il fondamento di una politica
dell' "eguaglianza delle possibilità". Ma l'ideale egalitario
può ancora auspicare che i gruppi formanti una collettività
siano dotati, nonostante le loro differenze, degli stessi
benefici della vita in società. L'eguaglianza è allora politica,
sociale ed economica. In questo caso si definisce "reale".
Le nostre società non conoscono questa eguaglianza. E', e
resta, un ideale. Ci situiamo qui agli antipodi della politica
della minoranza etnica o della politica dell'assimilazione,
cioè a dire di una politica della segregazione nell'alterità
o di una politica della negazione dell'alterità che procedono
entrambe, al di là della loro contraddizione apparente, da
uno stesso rapporto sociale di dominazione per il quale le
popolazioni maggioritarie negano alle popolazioni minoritarie
un uguale diritto di vivere nel territorio di residenza: essere
paradossalmente di in altro luogo per sopravvenienza o per
eredità e beneficiare dei vantaggi offerti dalla società di
accoglienza, essere anche di questo luogo.
La cittadinanza
L'eguaglianza si coniuga con civile e politico: la cittadinanza
civile delle popolazioni provenienti dall'immigrazione è la
concessione a queste ultime dei diritti e dei doveri civili,
sociali, culturali e economici che caratterizzano abitualmente
il legame di diritto stabilito tra il titolare della nazionalità
e lo Stato da cui dipende. Si noterà che il principio di reciprocità
non è utile a questo proposito e può essere contro produttivo
tanto è vero che la possibilità di beneficiare dei vantaggi
che offre normalmente l'esistenza nella società moderna inserisce
l'individuo in questa società e così non ha senso far dipendere
una politica auspicabile d'inclusione dalla condotta degli
Stati stranieri. Una cittadinanza attiva (civile e politica)
per queste popolazioni fonderà la società di accoglienza sul
legame politico e non sull'immagine mitica del "popolo" (Volk)
o della comunità culturale residente perennemente su di un
dato territorio a rischio d'ibridazione, di anomia, sotto
la funesta influenza dello straniero. Piuttosto che inibirsi
in inutili considerazioni sul rapporto tra immigrazione e
criminalità o domandarsi se l'integrazione è un fallimento
o un successo (di cosa parliamo?), non converrebbe che il
pensiero sociopolitico eviti la duplice trappola dell'essenzialismo
e dell'organicismo, il fascino del pensiero etnico, e si inserisca
radicalmente in una filosofia politica del riconoscimento
dell'altro, quello che implica, e conduce alla reciprocità
del riconoscimento? Ci sembra di si: questo riconoscimento
reciproco che sfocia concretamente nell'eguaglianza dei diritti
e dei doveri civili e politici risponde alla duplice questione
di sapere come il bene generale può fare diritto al bene particolare
e come restare se senza scartare il comune.
BIBLIOGRAFIA
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malgré soi", Quaderni, n.4, 2001 - articolo diffuso su
internet < https://laurent.babozor.net/quaderni.html >.
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Simmel, G., "Digressions sur l'étranger", in: (Coll.),
L'Ecole de Chigaco. Naissance de l'écologie urbaine, Paris,
Ed. du Champ Urbain, 1979, pp.53-59.
NOTE
[*] Il presente contributo,
realizzato per la rivista elettronica m @ g m @, è una rielaborazione
di un articolo intitolato "De l'immigration à la citoyenneté",
pubblicato nella rivista belga Pensée plurielle, n.3, 2001,
pp.9-22.
[1] E. Durkheim, Les règles de la méthode
sociologique (1895), Paris, Presses Universitaires de
France, Coll. Quadrige, 1981, pp.15 e successive.
[2] A. Sayad, "Vieillir...
dans l'immigration", Migrations Santé, n.99-100, 1999,
pp.7 e successive.
[3] G. Simmel,
"Digressions sur l'étranger", in: (Coll.), L'Ecole
de Chicago. Naissance de l'écologie urbaine, Paris, Ed. du
Champ Urbain, 1979, pp.53-59.
[4] Nota del traduttore: il termine belga di
allogeno è allochtone.
[5] L. Chambon, "Le multiculturalisme néerlandais:
être tolérant malgré soi", Quaderni, n.4, 2001, articolo
diffuso su internet < https://laurent.babozor.net/quaderni.html
>.
[6] Per ulteriori approfondimenti
consultare: R. Castel, Les métamorphoses de la question
sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard, 1995;
S. Paugam (éd.), L'exclusion. L'état des savoirs, Paris,
La Découverte, 1996; I. Dechamps (éd.), Droit, pauvreté
et exclusion, Bruxelles, Fondation Roi Baudouin, 1998.
[7] D. Lapeyronnie, "De
l'altérité à la différence. L'identité: facteur d'intégration
ou de repli?", in: Ph. Dewitte (éd.), Immigration et intégration.
L'état des savoirs, Paris, La Découverte, 1999, pp.252 e successive.
[8] M. Mauss,
"Les techniques du corps", in: Sociologie et anthropologie,
Paris, Presses Universitaires de France, Coll. Quadrige, 1993,
pp.363 e successive.
[9] E. Durkheim, De la division du travail
social (1893), Paris, Presses Universitaires de France,
Coll. Quadrige, 1991.
[10] I. Dechamps, "Quelques réflexions critiques
à propos du couple intégration/exclusion", Contradictions,
n.73, 1993, pp.119-137.
[11] Haut Conseil à l'Intégration, L'intégration
à la française, Paris, UGE, 1993, p.8.
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